10.2.13

Luciano Canfora contro il Sessantotto.

"L'Espresso" del 5 marzo 1998, nel trentennale degli scontri di Valle Giulia, conteneva un corposo "speciale" dedicato al Sessantotto e costituito, in prevalenza, da interventi pro ("La Virtù") o contro ("Il Peccato") quel sommovimento sociale capace di suscitare tuttora, a 45 anni di distanza, reazioni vivacemente contrastanti.
Qui è "postato" l'intervento "contro" di Luciano Canfora, da cui - per ragioni evidenti a chi mi conosce o mi legge - fieramente dissento, ma dal grande grecista si impara sempre qualche cosa, perfino quando - come in questo caso - si mostra tetragonamente fazioso. (S.L.L.)
Il primo degli ideologismi, e il più appariscente, fu l'antifascismo. Esso ebbe due facce: una retroattiva, e perciò retorica; l'altra rivolta al presente, semplificatoria. Quella retroattiva cercava di colmare un vuoto di cultura dovuto a una scuola nella quale fascismo e antifascismo erano considerati politica, e dunque materia estranea allo studio. Quella rivolta al presente usava bollare come fascismo ogni orientamento politico avverso. Era un metro di valutazione incolto, che discendeva anch'esso da quel vuoto.
Ma l'adozione di un così sommario metro abbisognava anche di puntelli: di ideologie schematiche che sorreggessero quel procedere manicheo. Di qui la fortuna, o la reviviscenza, di stereotipi. Furono allora branditi, e portati in giro come icone, ritratti sia di Stalin sia di Trotzky, magari affiancati: nella inconsapevolezza dell'opera loro. Mai scelta fu più palesemente ideologica: cosa vi poteva essere infatti di più lontano dallo spontaneismo sessantottesco del senso della disciplina (e della gerarchia), peculiare della pratica bolscevica (sia nella variante staliniana, che in quella trotzkista)? Si trattava dunque del vagheggiamento di un passato, idoleggiato, appunto, ideologicamente.
Era una sete di rivoluzionarismo, che scaturiva dal desiderio di opporsi non solo all'ordine esistente, ma anche (e direi soprattutto) alla sinistra storica: la cui (un tempo) incontrastata autorità era stata, peraltro, già qualche anno prima incrinata dall'approdo in Occidente degli effetti dello scisma cinese. Di qui le speciali fortune, in quegli anni, del maoismo occidentale.
Che lo schematismo fosse la cifra dominante fu presto chiaro. Da vari segni: compreso il fatto che un circolo come quello del "manifesto", che propendeva invece piuttosto per una professoria "subtilitas", non godette mai del favore di massa del movimento. Che guardò, semmai, con grande simpatia alla ruvida semplicità intellettuale di "Lotta continua", o, peggio, al messianismo militaresco di "Potere operaio".
Il nucleo da cui si sprigionavano la scontentezza e l'inquietudine, nonché la ricerca di altre strade, che portavano schiere di giovani a sentirsi, volta a volta, maoisti o stalinisti o trotzkisti (o anche un po' di tutti e tre questi stati d'animo), fu in realtà - a ben vedere - un estremo frutto dell'equivoco, mai del tutto rischiarato, nel giudizio sugli esiti della Resistenza.
Chi ora si ribellava aveva, più o meno per sentito dire, assimilata e fatta propria la convinzione, mai sopitasi nella parte meno matura della sinistra italiana (specie socialista), che l'aprile del '45 fosse stata tradita la rivoluzione italiana. (È nota la domanda fallace rivolte dal giovanissimo Adriano Sofri a Palmiro Togliatti, conferenziere alla Scuola Normale di Pisa: «Perché nel '45 non avete fatto come Fide!?». Ed è nota anche l'ironica risposta del leader del Pei: «All'epoca ella non c'era»). Un tale convincimento era, ancora una volta, frutto di un vuoto di cultura storica imputabile alla scuola, ai suoi programmi monchi, alla sua pruderie apolitica, o meglio antipolitica.
Nel vuoto culturale proliferano gli pseudoconcetti. E gli pseudoconcetti si traducono molto velocemente in fatti. Il mito della Resistenza tradita fu dei più rovinosi. Di un siffatto stato d'animo è rispecchiamento fedele, e a suo modo autorevole, un libro, che allora ebbe molta fortuna (lo dava in dono ai suoi lettori persino "il manifesto"!): Proletari senza rivoluzione di tale Renzo Del Carria, finito, non a caso, anni dopo a simpatizzare per la Lega di Bossi. Chi ama le emozioni forti non si smentisce.

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