Il ritaglio da “la Repubblica” che qui trascrivo e “posto” non ha data, ma dovrebbe risalire ai primissimi anni Ottanta. Mi pare che l’articolo in esso contenuto illustri con buona comunicativa il tema archeologico e storiografico del rapporto tra gli Etruschi e Roma. (S.L.L.)
L’influsso sui romani:
dall'agricoltura alle istituzioni,
dall'arte di divinare alle superstizioni.
Gli etruschi, così vicini a noi nello spazio — abitavano dal Po al Tevere, ma si spinsero fino a Capua, a Pompei, a Nola — sono tuttavia sfuggenti per la scomparsa di testi scritti, all'infuori di poche iscrizioni.
Essi pongono allo storico due interrogativi. Il primo riguarda le loro origini. Erano autoctoni o immigrati? e, in questo caso, quando arrivarono e da dove? erano indoeuropei, iranici, balcanici, venivano dall'Asia Minore, da Lemno, dall'Epiro? La tesi «orientale», suffragata da Erodoto, oggi non è più un dogma. Forse, la loro cultura non soppiantò quella precedente, uniformemente diffusa nella stessa area, chiamata Villanoviana; ne rappresenta, invece, la continuazione.
Il secondo interrogativo ci tocca più da vicino. Nella sua lenta «dissolvenza» da nazione protagonista a provincia di Roma, l’Etruria fu fagocitata dal popolo sul quale per un secolo aveva esercitato il dominio: fino a che punto questo popolo ne assimilò la cultura, le istituzioni, la religione, lo spirito? che cosa è rimasto di etrusco in noi?
Dati indecifrabili
Non è facile individuare il filone culturale prevalente in una città come Roma che, per la navigabilità del Tevere e la presenza in esso d'un'isola facile agli approdi e ai traghetti, servì da nodo commerciale tra le vie marittime e l'entroterra. Tanto più difficile, perché mitografi e annalisti, ligi a tendenziosità e interessi in contrasto, non incominciarono a occuparsi dei primordi dell'Urbe se non almeno 500 anni dopo i fatti. L'archeologia, dal canto suo, ci offre dati spesso indecifrabili. Nell'amalgama di razze e culture dell'Italia pre-romana, certo gli etruschi occupano un posto di rilievo.
Guardiamoci attorno. Le campagne del centro Italia conservano l'aspetto che vi fu impresso dagli agricoltori etruschi: etrusca è la vite a tralci lunghi che formano festoni tra gli alberi, una pratica che consente la coltivazione di cereali tra i filari; etrusco è l'uso di collocare l'abitato su speroni tufacei scoscesi, difendibili — da banditi?dalla malaria? — come Orvieto, Civitacastellana, Tuscania, Barbaraino; spesso anche nel caso di città marinare, edificate in vista del mare ma lontano da esso, come Volterra, Roselle, Tarquinia. Etrusche sono le cosiddette «cave», strade incassate tra pareti verticali di tufo, percorribili ancora a Pitigliano, a Blera, a Norchia. I giochi d'acqua del Palazzo Farnese, a Caprarola, sono alimentati dall'acquedotto etrusco; a Tuscania, coperchi di sarcofagi con il defunto disteso servono da parapetto a una piazzetta che s'affaccia come una terrazza sulla valle.
La proprietà agricola, i commerci marittimi (o la pirateria) provocarono nel VTI secolo accumulazione ed esibizione di ricchezza. La potenza delle città etrusche si estese fino a Roma: ed ecco il primo re etrusco, Tarquinio Prisco (616-578 a.C). In quegli anni i romani abbandonarono le capanne sui colli, scesero ad abitare case in muratura nel Foro reso praticabile dal drenaggio delle acque operato dalla Cloaca Massima (percorribile ancora fin sotto Via Panisperna) e lastricato: tutte opere eseguite da maestranze etrusche.
Un sovrano successivo, Servio Tullio (che alcuni identificano con l'etrusco Mastama) dette al colle il nome Celio in memoria d'un amico; introdusse riforme nell'esercito e nella compagine sociale dell'Urbe; suddivise la popolazione in centurie; eresse attorno alla città un argine, che però non ha nulla a che vedere con le cosiddette «mura serviane». Tarquinio il Superbo, infine, espulso nel 510 a.C, all'avvento della Repubblica, costruì edifici pubblici, santuari imponenti; e per la statua di Giove Capitolino, nei tempio di cui si vedono ancora le fondamenta, chiamò un artista da Veio.
Tracce etrusche sono sta te cerca te nella lingua, nella toponomastica, nei nomi degli dèi e in quelli dei consoli che si conservanti nei Fasti (che però riguardano solo i secolo successivo alla cacciata di Tarquinio). Certamente, nel periodo dei tre re vi fu una forte immigrazione a Roma di famiglie nobili, di tecnici, di artigiani; i romani assorbirono le istituzioni che avrebbero costituito un loro connotato stabile: scettro, corona, la sedia curule, la toga pretesta (orlata di porpora), il fascio e la scure portati dai 12 littori, le insegne del potere che, secondo Virgilio, gli abitanti di Caere consegnarono a Enea, come aveva prescritto l'aruspice.
Perfino Romolo, scrive Plutarco, non avrebbe saputo fondare Roma se gli esperti etruschi non gli avessero prescritto il cerimoniale magico della fondazione: scavata una fossa circolare — detta mundus — vi si gettano le primizie e ciascuno una manciata di terra del suo paese; attorno ad essa si traccia il perimetro delle mura; il solco dev’essere scavato da un aratro con il vomere di bronzo; vi saranno aggiogati un bue e una mucca; gli uomini che seguono avranno cura di gettare all'interno le zolle smosse dal vomere e di sollevare l'aratro quando si lascia lo spazio per le porte.
Un fabbro famoso, Mamurio Veturio, fu chiamato per confezionare gli undici scudi detti ancilia; li portavano i dodici sacerdoti Salii nelle loro danze rituali. Uno di quei dodici scudi era caduto dal cielo e allora si pensò di fabbricarne altri undici perfettamente eguali, per impedire che qualcuno si impadronisse di quello autentico. E' tipicamente etrusco il fatidico numero 12 (erano 12 le città, i lucumoni, i littori, furono 12 gli avvoltoi avvistati da Romolo); è etrusco un demone che accompagna i defunti nell'ultimo viaggio e si chiama Charun, il «Caron dimonio» che Dante prese da Virgilio: una figura lugubre, creata dalla fantasia cupa e inquieta degli etruschi. Al momento del sacco gallico, si misero in salvo a Caere le vestali, i sacerdoti e gli arredi sacri dei templi: di qui il nome «cerimonie».
I romani appresero dagli etruschi soprattutto la divinazione. Livio descrive Numa Pompilio che chiede agli dèi l'auspicio per il suo regno e siede sul Campidoglio nell’auguraculum, guardando a Sud; alla sua sinistra l'augure. Questi, il capo velato, nella mano il lituo — il bastone ricurvo senza nodi che portano i pastori e i vescovi — con esso delimita il cielo, lo suddivide, come la terra dove si fondano le città, con due linee, Nord-Sud, Est-Ovest; qualsiasi fenomeno si verifichi, lampo, tuono, nube, volo d'uccelli, lo interpreta a seconda del settore nel quale è apparso, a cui presiede la rispettiva divinità, in conformità a regole contenute in libri riguardanti le folgori, i volatili, i quadrupedi, i portenti, i polli sacri. Suddividendolo, esplorandolo, l'uomo introduce l'universo nel campo della ragione; benché popolato da potenze arcane, esso diventa oggetto d'osservazione; si registra la regolarità dei fenomeni, se ne conoscono le conseguenze: così nasce la scienza.
L'auspicio si traeva dall'osservazione del volo degli uccelli (aues specio) e dallo studio delle viscere degli animali sacrificati. Gli aruspici vi leggevano la spiegazione di terremoti, boati, nascita di mostri, ne ricavavano il presagio sul futuro, indicavano le cerimonie da celebrare per placare gli dèi e sventare le sciagure che incombevano, si badi, soltanto sui notabili; non per nulla l'augure, in origine, era il re e, almeno fino al 300 a.C, gli àuguri dovevano essere patrizi.
Cicerone evoca più volte i prodigi che hanno preceduto le lotte cruente tra Mario e Silla, la congiura di Catilina, la temuta dittatura di Clodio. Ci trasmette anche i responsi degli aruspici. Le sconfitte, il Trasimeno, Canne, furono attribuite alla negligenza dei presagi da parte di consoli plebei (e, come tali, avventati, privi del self-control britannico dei patrizi).
Le viscere degli animali erano suddivise in settori corrispondenti alle sedi degli dèi. Sul fegato bronzeo trovato a Piacenza sono segnate le varie zone con i nomi divini relativi; forse, servì da promemoria a un aruspice itinerante e da testo didattico per gli apprendisti. Persino durante l'assedio dei Visigoti (408-410 d.C) si presentarono a Roma vati etruschi a offrire il loro aiuto. A Narni, dissero, avevano scatenato un uragano e i barbari erano fuggiti. Il papa acconsentì che provassero, a patto che le cerimonie fossero eseguite in segreto; ma la mancanza di solennità fece fallire l'esperimento.
La destra e la sinistra
Una traccia della stratificazione di diverse componenti etniche a Roma si riconosce in una contraddizione evidente: mentre nella pratica tutto ciò che viene da sinistra è funesto, se si tratta di presagi interpretati ritualmente, il segno da sinistra, al contrario, è propizio: Giove manda un tuono e una stella cadente a Enea da sinistra, per persuaderlo a migrare verso l'Italia. La sinistra è favorevole perché da quella parte sorge il sole, scrivono Varrone e Plinio: naturalmente, per chi guarda a Sud. E verso Sud si volge chi prega e offre sacrifici: è infausto ciò che viene da Nord, spiega l'augure a Numa Pompilio. I greci, al contrario, guardavano a Nord, perché l'Olimpo, sede degli dèi, è a settentrione; e per loro il sole, e di conseguenza i segni propizi, venivano da destra: gli Achei udirono un tuono a destra, al momento di salpare verso Troia; una civetta, volando da destra, si posò sull'albero della nave di Temistocle: fu l'annuncio della vittoria di Salamina.
Sovrapponendosi la cultura greca al rituale arcaico, etrusco, i romani si trovarono coinvolti in un conflitto perenne, tra la destra e la sinistra. E lo sono tuttora.
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