9.2.13

Poeti spagnoli del 900. Vicente Aleixandre e la generazione del 27 (Antonio Tabucchi)

Vicente Aleixandre
Ci sono casi in cui la morte di un poeta coincide con la fine di un capitolo. Allora si ha l'impressione che la letteratura sia davvero storicizzabile e perfino i manuali scolastici diventino plausibili. Anche se alcuni illustri rappresentanti della cosiddetta "generazione del '27" sono ancora vivi e operanti, con Vicente Aleixandre, morto ieri a Madrid all'età di ottantasei anni, scompare il poeta che il riconoscimento dell'Accademia Svedese nel 1977 indicava al mondo quale prescelto di tutta una generazione. Non è certo da escludersi che in futuro gli Accademici di Svezia fermino la loro attenzione su un altro nome di questa grande generazione poetica del Novecento (si può pensare a Rafael Alberti, per esempio); eppure oggi appare chiaro, proprio seguendo la cronologia da manuale del libro dei Nobel, che la morte di Aleixandre sigla una stagione poetica perfettamente incorniciabile fra il riconoscimento ricevuto dallo stesso Aleixandre sette anni fa e il Nobel che nel '56 ricevette Juan Ramòn Jimènez, maestro indiscusso di Aleixandre e di tutta la sua generazione. Una generazione aurea, questa del '27 (Salinas, Prados, Guillèn, Lorca, eccetera), che ha tessuto l'avanguardia e l'ha esaurita, che ha portato l'Europa in Spagna e la Spagna in Europa; che, in altre parole, ha fatto il Novecento spagnolo.
Ma non si può evidentemente indulgere alle visioni generazionali per leggere il privato itinerario di un poeta. La poesia di Aleixandre appartiene ad Aleixandre, con un basso continuo che tutte le generazioni forniscono, ma con una melodia che le grandi voci posseggono. Ma allora, se guardiamo all' opera di Aleixandre, è stupefacente vedere come essa sia anche la sua vita.
Se è vero, come ha detto Octavio Paz, che i poeti non hanno biografia e che la loro opera è la loro biografia, in pochi casi come in Aleixandre ciò appare di un'evidenza così sorprendente. Come Pessoa, Valèry, Montale, e forse più di loro, la vita di Aleixandre è tutta e solo nei suoi versi: è una vita interiore, quasi senza anagrafe, scarsamente biografabile, e rintracciabile solo come biografia spirituale.
A ciò ha contribuito una salute cagionevole, una convivenza o un accomodamento con la malattia che per decenni lo ha obbligato alla scelta di una vita appartata e quasi sfuggente. E anche l'avanguardia, alla quale negli anni Trenta Aleixandre diede un contributo considerevole (Espadas como labios è del '32 e La destrucciòn o el amor del '35) è stata da lui vissuta quasi nell'ombra, senza l'intervento della prima persona, restando nella pace del suo studio e mandando in avanscoperta i suoi versi.
Sono versi di una grande eleganza formale, forse addirittura di una fredda eleganza formale che ha imparato la lezione da Gòngora, da Jimènez, da Breton: versi in cui si respira alto e dove, dunque, l'aria è più rarefatta. Sono versi legati a quell'automatismo che il primo Surrealismo (Breton, Soupault, I campi magnetici) amò particolarmente e che in Spagna trovò straordinari cultori in due creatori dell' immagine come Buñuel e Dalì.
La metamorfosi del reale è infatti uno dei luoghi più frequentati dalla poesia di Aleixandre: mostruosità della forma, immagini del fuoco, immagini dell' acqua, l'osmosi fra la forma umana e la forma del cosmo sono le cangianti concrezioni che la sua poesia sorvola. Il paesaggio, come quello di Max Ernst, è la foresta, il deserto, i sotterranei. E poi ci sono bestie fantastiche, animali esotici, aquile, pesci, uccelli. E l'immagine di un Eros fortemente interiorizzato ed intellettualizzato. Il nutrimento non formale di questa poesia è certo la psicoanalisi (l'accettazione dell'idea di desiderio come legge determinante della vita). Ma una linfa più sostanziosa viene da Jacob, Desnos, Crevel, e da un barocco patrio di tinte metafisiche ed irrazionalistiche (un certo Quevedo). Forse Aleixandre fu consapevole di questa sua maniera di soffocare in se stesso l'avanguardia, del suo insormontabile super-ego. Una volta confessò allo scrittore cubano Jorge Maach: "Ciò che lei chiama la mia serenità, la mia misura, è una vittoria su me stesso: un modo di comportarmi più che un modo di essere. Io in realtà sono un timido; per timore della mia natura ho dovuto cercare di calmarmi. Credo che lo spirito mediterraneo sia sepolto nel mio temperamento come nella mia poesia".
Non so se è impudente da parte mia affermare che l' avanguardia di Aleixandre è una sorta di avanguardia congelata e, in qualche modo, la sua negazione; essa coltiva l'idea della bellezza di una Poesia che si scrive con la maiuscola. Anche se nell'ultima stagione i suoi versi mostrano maggiore attenzione per i problemi degli uomini, la cifra letteraria di Vicente Aleixandre, distante e perfetta, non ha subìto incrinature.

“la Repubblica” 15 dicembre 1984

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