27.2.13

"Vasapacchiu". Un ricordo da Gela (S.L.L.)


Il Petrolchimico di Gela negli anni 70. Foto archivio l'Unità
Nel 1978 Rosario Crocetta, a quel tempo segretario della sezione PCI “Di Vittorio” di Gela, la sezione di fabbrica del petrolchimico, conduceva insieme ad Eleonora Privitera una trasmissione a RadioGela, la più seguita nella zona tra le “radio libere” appena nate. Io ero segretario di una delle sezioni territoriali, la “Togliatti”.
Fino a qualche tempo prima eravamo andati molto d’accordo: facevamo insieme un giornale dal titolo leninista “La nostra lotta”, di cui non conservo copie, ma che ricordo come ben fatto. Poi, nel 77, in pieno compromesso storico, lui si spostò verso posizioni libertarie, radicali, piene di tolleranza verso il movimento detto appunto “del Settantasette”, ferocemente ostile al Pci di Berlinguer. Tra l’altro, nella trasmissione di RadioGela, sposò la tesi della liberalizzazione delle droghe leggere, che a me, comunista ortodosso, sembrava sbagliata, almeno nella forma spericolata in cui la proponeva, cioè come diritto di libertà.
Intervenni rudemente per telefono e Rosario se l’attaccò al dito. Il programma imitava un po’ l’Alto Gradimento di Arbore e Boncompagni che al tempo andava tanto di moda: tra una telefonata e un disco si infilavano gli sproloqui di alcuni strani personaggi. Tra di essi fu inserito un “professor Lopesante”, il cui cognome si presentava come un evidente stravolgimento del mio e il cui tormentone era “ho fatto il Sessantotto, adesso faccio solo il Sessantanove”.
Amiche ed amici cui qualche tempo fa convivialmente raccontavo questa storia dei miei rapporti con il giovane Crocetta, oggi presidente della Regione siciliana, mi dicevano che non c’era niente di male in quella presa in giro: in fondo anche “fare il Sessantanove” non è cosa di cui vergognarsi e può dare soddisfazioni.
Io tuttavia – credo non a torto – a quel tempo leggevo nell’oscena boutade una accusa di appagamento, di imborghesimento: la figura del rivoluzionario in congedo e in ozio, esclusivamente dedito a piaceri privati, non mi garbava né punto né poco.
Oggi, a diversi decenni di distanza, m’è venuta una associazione di idee, che rende quel gioco di numeri e di parole ancora più insultante. Mi sono ricordato che allora, a Gela, una delle contumelie più umilianti era “vasapacchiu” (baciafiga), parola dall’evidente connotazione maschilista, forse un po’ mafiosa. Essa significava, in quella mentalità, il massimo dell’inettitudine, del servilismo e dell’abiezione: uno che si abbassava a rendere alla moglie, o a qualunque donna, quel servizio lì, non era considerato “uomo” e neanche “uminicchiu”, valeva ancor meno dei “quacquaraquà”.
Chissà se si dice ancora, a Gela, vasapacchiu     

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