19.2.13

Storia. Il “revisionismo” all’italiana e il suo uso politico (di Roberto Monicchia)

Attraverso le voci di alcuni dei più autorevoli storici dell’Italia contemporanea, questa raccolta di saggi (La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, Neri Pozza, 2009) fa il punto sugli esiti dell’opera di riscrittura della storia, che ha ormai debordato da qualsiasi “fisiologica” logica di revisione, arrivando al punto di negare ogni valore allo statuto scientifico-metodologico della disciplina.
Questo esito estremo matura negli sconvolgimenti politico-culturali dell’ultimo ventennio; tuttavia il “revisionismo” all’italiana ha un storia più lunga e stratificata, che Angelo Del Boca ricostruisce nella sua puntuale e grintosa introduzione. Una visione “attenuata”, edulcorata del fascismo, del suo capo, delle sue guerre, fece capolino già nell’immediato dopoguerra. Da un lato la stampa popolare ed alcuni giornalisti di punta forgiarono l’immagine di un regime bonario, al più colpevole di faciloneria e subalternità, ma che niente aveva a che vedere con la ferocia nazista: sono aspetti ripresi dai saggi di Tranfaglia e Franzinelli, che analizzano le biografie di Mussolini ad opera di Montanelli e Monelli, i rotocalchi e le enciclopedie illustrate degli anni ’50.
Dall’altro lato, anche grazie all’amnistia promulgata da Togliatti, generali e gerarchi tornati liberi diffusero versioni dei fatti fantasiose ed assolutorie, che Del Boca esemplifica con le scandalose memorie del generale Roatta, che affermano che sloveni e croati chiedessero spontaneamente di entrare nei campi di prigionia italiana (dove la mortalità era superiore a Mauthausen). Su questo mito degli “italiani brava gente”, mai uscito dai circuiti editoriali e mediatici, si innesta il filone vero e proprio del revisionismo, che ha la sua origine e il suo campione in Renzo De Felice, il cui primo volume della biografia di Mussolini appare nel 1965. E’ indubbia la mole documentaria esaminata, tuttavia, man mano che l’opera procede, si fa strada la programmatica riduzione del fascismo ad un regime autoritario morbido, sostenuto da un consenso generalizzato, alieno dal razzismo e da tentazioni totalitarie, radicalmente diverso dal nazismo, l’alleanza con il quale fu il frutto di circostanze quasi fortuite e comunque una scelta contrastante con la natura del regime e con la stessa personalità mussoliniana. Tutte le testimonianze documentarie e le interpretazioni che contraddicono questa visione vengono taciute o trascurate nella monumentale opera, in particolare per quanto attiene all’uso sistematico della violenza e i metodi di conduzione della guerra. Tranfaglia collega l’evoluzione “simpatetica” con il personaggio studiato da parte di De Felice con l’ossessione di “salvare” la funzione centrale e positiva della piccola borghesia nella storia dell’Italia del Novecento.
Il ruolo di De Felice è decisivo anche nel passaggio - che coincide con gli effetti della caduta del muro e del crollo del sistema politico italiano - dal revisionismo storiografico all’abuso politico della storia. Il fulcro dell’operazione è la polemica contro la “vulgata antifascista”, che avrebbe dominato la storiografia e il discorso pubblico sulla storia sulla base di un’interpretazione ideologica di matrice comunista, tutta tesa a cancellare deliberatamente intere pagine, stravolgendo il significato della guerra civile. In questo modo De Felice inventa un avversario di comodo, sostanzialmente inesistente, mentre evita di confrontarsi con una storiografia rinnovata, capace negli anni settanta e ottanta di fare rilevanti passi avanti, ampiamente illustrati nel saggio di De Luna.
Sulla base dell’autorità di De Felice si costruisce una sistematica campagna di rilettura giornalistica della storia (guidata con particolare furia iconoclasta dal “Corriere della Sera”), che nei suoi punti culminanti (Vespa e Pansa) arriva a rivendicare l’assenza di riscontri documentari come esempio di “libertà di ricerca” contro le pastoie accademiche.
La fusione di revisionismo storico, uso politico della storia, spregiudicata rielaborazione giornalistica, ha come perno il nodo fascismo-antifascismo, ma da questo nucleo il discorso si irradia avanti e indietro sulla linea del tempo, puntando, con un’operazione di vera e propria egemonia culturale, a rileggere in senso “antimoderno” l’intera storia moderna e contemporanea del paese.
In questo senso Isnenghi mostra con la consueta finezza lo spazio sempre più ampio che hanno le letture del Risorgimento come opera di un complotto massonico, guidato da facinorosi “ladri di cavalli” (Garibaldi) estranei alla coscienza nazionale. Allo stesso clima appartiene - come testimonia il saggio di Lucia Ceci - il rilancio dell’identità cattolica come unica vera e positiva fondazione nazionale (quella laica e liberale essendo frutto del complotto di cui sopra), senza trascurare la sempre più diffusa attribuzione di veridicità ai dogmi della chiesa e ai miracoli.
Per quanto riguarda la storia del colonialismo italiano e delle guerre del fascismo (Labanca, Rochat), occorre parlare non di revisionismo ma di lunga trascuratezza da parte degli storici, che hanno quasi sempre lasciato campo libero ad una storia coloniale scritta dai colonialisti e alle ricostruzioni degli uffici storici degli stati maggiori. Anche la ricerca sul ruolo italiano nella Shoah – sottolinea Enzo Collotti - ha molto risentito della riduzione del fascismo a dittatura “umana”, imparagonabile al nazismo, così da trascurare le leggi razziali e il ruolo della Rsi nelle deportazioni degli Ebrei.
Per venire al secondo dopoguerra, i saggi di Agosti, De Luna e d’Orsi mostrano come l’attacco all’antifascismo e alla Resistenza prosegua nella negazione del ruolo democratico e nazionale dei comunisti, nella svalutazione della costituzione repubblicana e nella complessiva delegittimazione dell’intera stagione della “prima repubblica”. Il punto culminante consiste nella negazione dei risultati della ricerca storica rigorosa (ridotta a “storia ufficiale”), a cui si sostituisce una versione di comodo, senza necessità di riscontri documentari, avallata dal presunto coraggio e indipendenza dei suoi autori, capaci di colmare i “buchi neri” della vulgata ufficiale: d’Orsi chiama questa versione “rovescismo”, mentre Isnenghi ha recentemente coniato il termine fantoria, incrocio di fantasia, memoria e storia.
Per certi aspetti questo modello riprende figure e moduli già in voga negli anni cinquanta, ma con una differenza sostanziale. Oggi, all’offensiva culturale di una destra desiderosa di cancellare ogni residuo dell’egemonia culturale dell’avversario (se mai questa è esistita), corrisponde la rinuncia da parte della cultura democratica a tenere il campo della battaglia delle idee.
Perfino il settore della ricerca storica, che un tempo i partiti della sinistra presidiavano con proprie specifiche istituzioni, è in qualche modo abbandonato a se stesso: ad uno storicismo un po’ rituale e
fatalistico si vanno sostituendo il cupio dissolvi e un nichilismo senza principi. E’ in questo vuoto che la “storia negata” è stata in grado di diventare senso comune diffuso, che inquina alla radice i fondamenti del dibattito politico-culturale e i capisaldi della democrazia repubblicana.

“micropolis” marzo 2010

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