Nell’agosto del 1989, “il manifesto” – com’è d’uso nel mese delle vacanze – dedicò tutti i giorni una delle pagine culturali ad una lettura più ampia dell’ordinario. Quell’anno il titolo della serie di ampi articoli era Parola di luogo ed ogni pezzo, affidato ad un collaboratore prestigioso, aveva come tema un luogo, visitato nei suoi riscontri filosofici e letterari, definito nella sua complessa significazione.
L’ultimo articolo della serie, dedicato alla cella, è di Paolo Virno, un filosofo che era stato tra i fondatori di “Potere Operaio” e nel giugno del 1979 coinvolto nella cosiddetta inchiesta del “7 aprile”. Per Virno era stata un’odissea lunga e penosa, da cui era uscito definitivamente solo nel 1988 con la conferma da parte della Cassazione della precedente sentenza (del 1987) di piena assoluzione.
Ma nel mezzo c’erano stati tre anni di carcerazione preventiva e uno di arresti domiciliari.
L’esperienza del carcere e della cella di isolamento orientò una parte degli studi di Virno e del suo impegno sociale successivo. Questo rende più denso un testo che, già di per sé, è ricco di forti riferimenti letterari, filosofici e storici, da Cartesio a Leopardi. (S.L.L.)
«Prigione. La paglia è sempre umida. Sempre spaventosa. Una prigione deliziosa bisogna ancora trovarla». Così scrive Flaubert nel Dizionario dei luoghi comuni. Questa «voce» del dizionario sembra però troppo striminzita, avara. E' forte la tentazione di allungare a dismisura il catalogo. Perché il carcere è triviale: come una tautologia (il dolore è dolore), o una metafora spenta (il mattino ha l'oro in bocca). Innumerevoli sono gii stereotipi che incalzano a proposito di celle, segrete, cubicoli. Al punto che viene di chiedersi: non è che la prima e più autentica condanna comminata al detenuto consista nel tenerlo a mollo in una palude di ineludibili banalità? C'è qualcosa, nel carcere, che non si risolva in luogo comune?
Quanto più ci si ingegna ad affinare la descrizione della vita in cella, inseguendo coscienziosamente il dettaglio inaudito, tanto più si collabora alla riproduzione allargata di déjà vu e déjà entendu. Domina un effetto da sabbie mobili: ti agiti, rifiutandoti al tuo destino, e sprofondi vieppiù. Inutile opporre resistenze, valga piuttosto questa regola aurea: quanto al carcere, è bene ridurre al minimo l'esprit de finesse, domare da subito l'impulso all'«originalità». Il carcere è, materialmente, un dizionario di luoghi comuni. Conviene profittare di esso - o meglio, dell'elaborazione culturale cui è soggiaciuto - come di un archivio o banca-dati per identificare e criticare gli stereotipi che invece, dissimulati, gironzolano a piede libero nella nostra vita d'ogni giorno.
La cella è un ambiente umano consueto: una camera dotata dell'essenziale, non abbastanza dissimile dalle ordinarie da far pensare a un'astronave, a una caverna o a una stalla. Un ambiente consueto, ma degradato, sottoposto a una lieve alterazione caricaturale. Per meglio dire: è la versione puerile (o al più adolescenziale) delle cose e dei gesti di sempre. Il letto gareggia con quello di un collegio o di una caserma, salvo che è attaccato a terra. Quando c'è. il bugliolo ricorda un vaso da notte, seppure greve e maligno. Gli sgabelli sono di dimensioni ridotte, e di plastica. La finestra troppo alta infonde quel senso di soggezione che i bambini, appunto, conoscono a menadito. L'arredamento è lillipuziano, tutto centrato su scatole di sigarette incollate ai muri, cartoni riciclati, fortunosi bastoncini di legno. La cella ha qualcosa della casa di bambole: ma sinistra, e messa insieme con materiali raccogliticci. Comunque, suo malgrado, leziosa.
Il nesso cella-infanzia persiste inossidabile nei secoli dei secoli. Moli Flanders, l'eroina di Defoe, dopo aver molto borseggiato, è condotta a Newgate, il carcere londinese: «Che luogo tremendo! Solo a farne il nome mi si gela il sangue; il luogo dove tanti colleghi miei erano stati rinchiusi e donde erano andati all'albero fatale; il luogo dove mia madre aveva tanto duramente sofferto, do¬ve io ero venuta al mondo (...)». Moli Flanders, dunque, in cella ritorna al suo principio, al luogo dove nacque: varcando la soglia dell'«inferno», ritrova anche una radice.
La cella come infanzia replicata, o adolescenza di secondo grado: ecco un leit motiv per tutti coloro che sono stati privati del mondo, stralciati da concreti contesti e legami e travagli. Christopher Burney, un ufficiale inglese che operava in Francia in contatto con la resistenza, fu arrestato e tenuto per diciotto mesi nel carcere di Fresnes, prima di venir inoltrato a Buchenwald. Ha scritto un libro che più sobrio non si può: Cella d'isolamento (Adelphi). Egli fissa così i primi momenti in cella: «Un lieve rumore mi fece voltare. Nel mezzo della porta c'era uno spioncino, che era stato aperto. Attraverso di esso, simile a un vetro viscido, un freddo occhio azzurro mi stava osservando (...) Non c'era proprio nulla da poter scagliare. Poi lo sportello dello spioncino si richiuse e l'occhio scomparve, lasciandomi abbattuto e furente come un bambino». Come un bambino: perché restituito a una condizione di pura virtualità, di contrazione risentita, di impotenza.
D'altronde, qual è il primo gesto cui si abbandona Rubasciov-Bukarin, in Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler, non appena è lasciato solo dagli agenti del Kgb? Appoggia la fronte febbricitante al fresco vetro della finestra, sperimentando all'improvviso antiche sensazioni dell'infanzia.
Nelle ultime cinquanta pagine de Il rosso e il nero, quelle incentrate sulla prigionia di Julien, Stendhal srotola alla rovescia la vita del suo eroe: da quel che è diventato a ciò che un tempo era stato. Il metodico scalatore sociale lascia di nuovo il posto al ragazzo appassionato. Procedendo a gambero, Julien si stacca dalla fervida e orgogliosa Mathilde, per riawicinarsi, trepidante, a quella Madame de Renal, un tempo disperatamente voluta e poi fatta bersaglio di due rivoltellate. La cella di Julien, confortevole e mondanissima (l'andirivieni di dame e preti è ininterrotto), è un fondale di cartapesta per questa marcia a ritroso verso l'inizio.
Più d'ogni altro, è Leopardi ad addurre argomenti teorici circa questo paradossale «ringiovanimento» del prigioniero. Nel «Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare» (Operette morali), la reclusione riconduce all'infanzia perché sottrae artificialmente al disincanto: «Di più, l'essere diviso dagli uomini e, per dir così, dalla vita stessa, porta seco questa utilità; che l'uomo, eziandio sazio, chiarito e disamorato delle cose umane per l'esperienza; a poco a poco assuefacendosi a mirarle da lungi, donde elle paiono molto più belle e più degne che da vicino, si dimentica della loro vanità e miseria (...) Di modo che la solitudine fa quasi l'ufficio della gioventù; o certo ringiovanisce l'animo, ravvalora e rimette in opera l'immaginazione, e rinnova nell'uomo esperimentato i benefici di quella prima inesperienza che tu sospiri».
Da cosa deriva però, il nuovo, fittizio incantamento? Da tristi ragioni: il godimento, per chi se ne sta rinchiuso, è impedito da un'obiettiva costrizione, cosicché si può credere che, ove questa cessi, quello sarà trionfalmente conseguito. In breve, la cella camuffa col sembiante di una condizione speciale e contingente la regola che Leopardi ritiene inesorabile e universale: l'impossibilità di asserire sensatamente «Io godo», potendosi coniugare tale verbo solo, e menzogneramente, al passato o al futuro. Una volta esteriorizzata in muri e grate, l'impossibilità a esser felici appare transitoria, e così è lenita.
In cella non vi sono contrattempi, né vi è un tempo opportuno per alcunché. La noia è il sentimento dominante. Tasso recrimina: «Laddove in questa prigionia, separato dal commercio umano (...) ridotto a notare per passatempo i tocchi dell'oriuolo, annoverare le correnti, le fessure e i tarli del palco, considerare il mattonato del pavimento, trastullarmi colle farfalle e coi moscerini che vanno attorno alla stanza, condurre quasi tutte le ore a un modo; io non ho cosa che mi scemi in alcuna parte il carico della noia». Ringiovanimento e noia dilagante si tengono per mano: hanno la medesima origine. Con l'azione mitigo la noia, ma perdo le illusioni; viceversa, allorché, in cella, tutto nuovamente si osa sperare, la noia non ha ostacoli.
Il tedio sconfinato, che segue al rattrappirsi della percezione sensoriale, colora il surrettizio «ringiovanimento» del detenuto con una luce agghiacciante: lo apparenta a una piccola morte. In breve, prevale una condizione di posterità rispetto a tutto quel che si è vissuto «prima». Al detenuto, gli episodi della sua propria esistenza sembrano disporsi secondo un ordine irrevocabile, si irrigidiscono in un fatto compiuto. «Il destino - scrive Burney - s'era stancato della trama che aveva tessuto attorno a me (...) aveva stracciato il copione (...) Tutte le persone cui avevo prestato solo quell'incostante attenzione spirata dallo stato d'animo mi apparivano ora tristi e neglette mentre si ritiravano dal mio mondo per passare in un altro. (...) Ed era troppo tardi per rimediare anche in piccola parte. Sulla tela della mia vita non si sarebbe mai veduto null'altro che uno scarabocchio infantile. Mi sentivo, insomma, come uno studente cui è stata concessa un'ora per svolgere un tema e che, quando il tempo è scaduto e lui ha scritto solo una frase, si rende conto all'improvviso di tutte le cose intelligenti che avrebbe potuto scrivere, e brucia di risentimento per quello stupido limite di tempo che glielo ha impedito».
Questa condizione di posterità a sé medesimi, che la prigionia variamente alimenta, è delineata in modo straordinario, seppur indiretto, da Italo Calvino nell'ultimo capitolo di Palomar, allorché questi, ben vivo e dall'intelletto quanto mai acuminato, «impara a essere morto». Ciò che conta, in siffatto addestramento, non è la rinuncia al futuro, ma la rassegnazione a non poter più «migliorare la forma del proprio passato».
Ogni gesto da noi compiuto, infatti, ridetermina i significati e i rapporti tra tutti i gesti precedenti. Ma sia Palomar da finto-morto che il carcerato devono convincersi che la vita precedente all'arresto è ormai «un insieme chiuso, tutto al passato, a cui non si può più aggiungere nulla, né introdurre cambiamenti di prospettiva nel rapporto tra i vari elementi». E' per questo che il coprotagonista gay de Il bacio della donna ragno di Manuel Puig, irride, dolcissimo, l'amico militante, che crede di stare ancora in una relazione aggiuntiva e trasformativa con il proprio passato, spingendolo piut¬tosto a intrattenersi sempre di più con quei «passati» artificiali e collettivi che sono i grandi film. Chi sta in carcere da molti anni - potete scommetterci - conosce alla perfezione le trame di tutti i film che non ha potuto vedere, mentre guarda ai propri ieri di persona libera come a un tutto compiuto e ormai inalterabile.
In cella, naturalmente, si svolgono drammi e farse come dovunque, ma, lì, i gesti danno corpo a una nuova serie - puerile e annoiata, appunto -, senza affatto riconnettersi al passato remoto. Ora, proprio perché l'esperienza che si conduce in cella è senza mondo, proprio per questo essa è stata così spesso indicata come un modello insuperabile di introspezione e di autoriflessione: insomma come un sottofondo assai adatto alla formazione di quella Soggettività in altorilievo così cara ai filosofi. Il soggetto detenuto non fa che agguantare sempre e soltanto se stesso; ogni suo protendersi si conclude in un autoriferimento. Il fatto che questa sua lancinante povertà sia trasfigurata in una virtù filosofica la dice lunga sul paradigma di «soggettività» adottato dalla nostra tradizione culturale. E' un paradigma mutuato, appunto, dalla condizione del prigioniero.
Ascoltiamo il suggerimento di un grandissimo filosofo, che funziona fin troppo bene da vademecum per chi sta in cella. «La mia (...) massima fu di vincere sempre piuttosto me stesso che la fortuna, e di voler modificare piuttosto i miei desideri che l'ordine delle cose del mondo; e in generale di assuefarmi a credere che nulla all'infuori dei nostri pensieri è interamente in nostro potere (...) E facendo, come suol dirsi, di necessità virtù, non desidereremo di esser sani quando siamo malati, o d'esser liberi quando siamo in prigione». Chiuso nella sua «cella» spirituale, Cartesio - perché è di lui che si tratta - conclude che «mentre volevo in tal modo pensare falsa ogni cosa, bisognava necessariamente che io, che la pensavo, fossi pur qualcosa. Io penso, dunque sono». Conclusione tipica di un detenuto a cui è stato sottratto quell'insieme di relazioni che fa «mondo».
Le prigioni grondano di metafisica materializzata. Nelle carceri speciali italiane, ad esempio, le guardie tolgono l'orologio ai prigionieri. Non c'è un motivo preciso, è una semplice «misura afflittiva».
E' impossibile, però, non leggere in questa privazione un tratto di obiettiva ironia. Non erano stati i comunardi a sparare sui pubblici orologi per fermare il tempo vacuo e della fabbrica e del dominio? Ora, invece, tocca agli sbirri abolire la misura meccanica dell'accadere, sospingendo forzosamente il prigioniero verso un'indesiderata «vita interiore»: arruolandolo a forza tra i «cartesiani». Per chi nelle metropoli ha imparato che «la radice è nella superficie», e la vita non vive se non nelle increspature, e che le apparenze, quelle sì, sono potenti e degne d'ogni sogno di rivolta, ebbene, proprio per questa razza d'uomini, questa si presenta come un'adeguata pena di contrappasso. Vien fatto di pensare che solo nelle carceri speciali, e ricorrendo al massimo di violenza, si riproducano parodisticamente le condizioni da serra per il beatamente defunto Soggetto autoriflessivo e senza mondo, sempre animato dalla pretesa di scorgere la propria nuca, di spiare come dall'esterno la propria condizione finita.
“il manifesto”, 1° settembre 1989.
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