9.2.13

Il Memoriale di Saramago. Frati, regine e mongolfiere (Antonio Tabucchi)

“Don Giovanni, quinto del nome nella successione dei re, andrà questa notte in camera di sua moglie, donna Maria Anna Giuseppa, che è giunta da più di due anni dall' Austria per dare infanti alla corona portoghese e fino ad oggi non ce l'ha fatta a ingravidare. Già si mormora a corte, dentro e fuori del palazzo, che la regina probabilmente ha il grembo sterile, insinuazione molto ben difesa da orecchie e bocche delatrici e che solo fra intimi si confida. Che la colpa ricada sul re, neppure pensarlo, primo perché la sterilità non è male degli uomini, ma delle donne e per questo tante volte sono ripudiate, e secondo, tangibil prova, se pur fosse necessaria, perché abbondano nel regno bastardi del real seme e anche ora la fila gira l'angolo. Oltre a ciò, chi si consuma nell'implorare al cielo un figlio non è il re, ma la regina, e anche qui per due ragioni. La prima ragione è che un re, e tanto più se del Portogallo, non chiede quel che unicamente è in suo potere dare; la seconda ragione perché, essendo la donna, naturalmente, vaso per ricevere, dev'essere naturalmente supplice, sia in novene organizzate che in orazioni occasionali. Ma né la perseveranza del re, che, salvo difficoltà canonica o impedimento fisiologico, due volte a settimana compie vigorosamente il suo dovere reale e coniugale, né la pazienza e l'umiltà della regina che, oltre alle preghiere, si sacrifica ad una immobilità totale dopo che si ritira da lei e dal talamo lo sposo, perché non si perturbino nel loro generativo accomodamento i liquidi comuni, scarsi i suoi per mancanza di stimolo e tempo e cristianissimo ritegno morale, generosi quelli del sovrano, come ci si può attendere da un uomo che ancora non ha compiuto ventidue anni, né questo né quello hanno fatto gonfiare fino ad oggi la pancia di donna Marianna. Ma Dio è grande".
Con questa scena di palazzo, nella quale sono già evidenti i registri stilistici che fanno la personalità inequivocabile di tutto il romanzo (l'ironia, la mimesi della circonlocuzione barocca, la malizia dell'opera comica), si apre il bellissimo Memoriale del convento del portoghese Josè Saramago; grande successo di critica e di pubblico in terra d'origine nella passata stagione e tempestivamente importato in Italia, mentre escono l' edizione americana e francese, per il nostro piacere di lettori (Feltrinelli, pagg. 320, lire 18.000). Piacere che è aumentato dall'ottima traduzione di Rita Desti e di Carmen Radulet con un lavoro di notevole qualità e di scrupolosa fedeltà, che ci restituisce pienamente la ricchezza lessicale e la complessità stilistica della scrittura di Josè Saramago.
Saramago è uno scrittore di forte talento e di feconda immaginazione che si è solidamente affermato negli ultimi anni con romanzi non comuni, fra i quali vorrei ricordare appena Levantado do chao ("Alzato da terra") e Manual de Pintura e Caligrafia, un libro curiosamente "italiano" che raccomando in special modo all'attenzione della nostra editoria. Ma è con questo Memoriale, frutto di uno spregiudicato uso narrativo ma anche di un paziente e rigoroso lavoro di artigianato, che lo scrittore si è imposto con prepotenza romanzesca, a riprova che la letteratura non nasce dal caso e che la libertà politica e d'espressione è un felice stimolo all'invenzione narrativa.
E a questo proposito è confortante constatare come in questi dieci anni di ritrovata libertà il Portogallo sia stato protagonista di una eccezionale rinascita letteraria, che vede la sua narrativa fra le più nuove e vitali dell'Europa occidentale (i nomi sarebbero tanti, ma mi limito a citare fra gli indispensabili Cardoso Pires con la Ballata della spiaggia dei cani, Almeida Faria con la Trilogia lusitana, e ancora Lobo Antunes, Maria Velho da Costa, Dinis Machado, lvaro Guerra, Y.K. Centeno, Victorino d'Almeida, Teolinda Gersao, Lidia Jorge).
Alcuni giorni fa, a Lisbona, Saramago mi raccontava l'intreccio del suo ultimo romanzo, di imminente pubblicazione, che avrà per titolo L'anno della morte di Ricardo Reis. Ricardo Reis è una voce poetica di Fernando Pessoa, un personaggio fittizio che Pessoa dotò di spessore esistenziale attribuendogli una "vera" biografia (un'anagrafe, un volto, uno stile), facendolo muovere, come faceva con i suoi personaggi, sulla scena della vita. Saramago si impossessa dell'idea pessoana e riprende la vita di Reis laddove la morte di Pessoa, nel 1935, l'aveva interrotta. Lo riporta a Lisbona (Reis era emigrato in Brasile perché avverso alla Repubblica) e ve lo fa vivere ancora un anno, ormai straniero in patria sua, in piccole pensioni vicino al Tago. Da quell'osservatorio, e dentro quel personaggio fittizio che fu il medico classicista e monarchico Ricardo Reis, Saramago ha provato a spiare la storia del suo paese e dell'Europa: l'affermarsi del salazarismo, lo scoppio della guerra civile spagnola, il fascismo in Italia e in Germania, l'inizio della catastrofe.
Un'operazione analoga e altrettanto attraente, che risulta dall'osservare il reale attraverso il fittizio, di mescolare l' immaginario (privato e collettivo) con la cronaca, ricostruendo la Storia nella storia di un romanzo, è la struttura portante del Memoriale del Convento, che ha come asse narrativo l'epopea della costruzione del convento di Mafra, voluto da re Giovanni V a compimento di un voto, per la grazia ricevuta con la nascita dell'erede. Rigorosamente storico è dunque l'impianto documentario della costruzione del convento, mastodontico edificio di quattromila metri quadrati comprendente un convento per trecento religiosi, una poderosa basilica e un sontuoso palazzo reale, la cui costruzione assorbì per circa un trentennio il lavoro semi-forzato di cinquantamila uomini sorvegliati da settemila soldati.
Parallela alla costruzione del convento, assunto nel romanzo a simbolo massiccio del potere e della prepotenza, corre la costruzione, anch'essa rigorosamente storica pur se modificata fantasiosamente da Saramago con una trovata metaforica (le "volontà" degli uomini imprigionate in un pallone che produrranno la forza ascendente) della Passarola di Padre Bartolomeu de Gusmao, l'aerostato che nel 1709, precedendo di molti anni il volo dei Montgolfier, compì la prima ascensione della storia dell'aviazione. L'esperimento avvenne a Lisbona, nei palazzi della Compagnia delle Indie, sul colle del Castello di S. Jorge, con la benevolenza e la complicità di Giovanni V; strano monarca diviso fra l' assolutismo più oscurantista e una timida curiosità illuministica per le conquiste dell' ingegno umano. Ma a poco valse l'appoggio regale al Padre Gusmao, eminente matematico dell' università di Coimbra: perseguitato dall' Inquisizione, che ravvisò nel suo esperimento una blasfema imitazione dell' ascensione di Cristo, doveva morire a Toledo nel 1724 in miseria e completamente pazzo.
Insieme alla costruzione del convento e dell' aerostato, un terzo elemento storico serve infatti da panno di fondo alle vicende del romanzo, costituendo forse lo scenario più impressionante di tutto l' impianto narrativo: la Santa Inquisizione e le sue funebri pratiche. Il senso della morte, i cupi rituali degli autos-da-fè, un odore repellente di bruciaticcio percorrono le scene-chiave del romanzo con tinte fosche e livide che ricordano Goya.
Tutta un'epoca di oscurantismo, di terrore, di delazione e di sopraffazione si concretizza in scene di una suggestività e di una visualità così prepotenti che verrebbe voglia di vederle tradotte in immagini cinematografiche da un regista come Fellini. L'Infante che dalla finestra del palazzo reale si diverte ad abbattere con l'archibugio i marinai appollaiati sui cordami di una nave nel Tago, la processione del Corpus Domini, il rogo sul quale perisce, con uno dei personaggi inventati, Antonio Josè da Silva (il Judeu, il maggiore commediografo portoghese del Settecento), sono, fra le scene corali, i passi più incisivi del romanzo, descritti con una cura che fa invidia alle cronache dell'epoca.
In questo scenario dominato da un'aristocrazia opulenta e ignorante che William Beckford avrebbe immortalato in un diario che sembra frutto di un'invenzione, corrono le vicende dei personaggi del Memoriale del convento: il soldato storpio Baltazar e la sua compagna Blimunda, l'illuminista Gusmao votato alla follia e Domenico Scarlatti, chiamato in Portogallo per insegnare l' arte della musica alla principessina e che accompagna tutta la vicenda col suo clavicembalo come uno strano minuetto.
Fuori dalla cornice del romanzo rimangono l'aerostato abbandonato in una vallata (la poesia? la volontà degli uomini? l'utopia?) e la voce dell'io narrante. Una voce che a prima vista potrebbe sembrare brechtiana, ma che è invece la consapevolezza del narratore novecentesco e in ultima analisi la sua ironia. L'ironia che ride dei potenti, che vuole rifare la Storia e che crede con forza nella forza della letteratura.
Il vero protagonista del romanzo di Saramago è infatti un intero popolo in un determinato momento della sua storia. Così come i Lusiadi sono un'opera con un protagonista collettivo (i portoghesi delle scoperte), anche il Memoriale del convento è un'opera corale, a suo modo un'epopea. Ma esso è soprattutto il suo narrare, una grande sinfonia letteraria, un superbo e indimenticabile esercizio di stile.

“la Repubblica”, 15 giugno 1984

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