24.4.15

Bisanzio come inizio della modernità (Luciano Canfora)

Bambini che giocano. Mosaico del gran palazzo a Costantinopoli (V secolo)
La casa editrice Beck di Monaco di Baviera, quando non si lascia prendere da furori lato sensu ideologici, pubblica ottimi libri di erudizione specie nel campo dell’antichità e della storia bizantina. Basti pensare alla encomiabile tenacia con cui ha mantenuto in vita la «Byzantinische Zeitschrift», organo della bizantinistica mondiale, nonché il grande e insostituibile Handbuch der Altertumswissenschaft in cui apparve, alla fine del secolo XIX, la tuttora preziosa Storia della letteratura bizantina di Karl Krumbacher, padre fondatore della disciplina.
Fu nel campo del diritto che la Casa, negli anni Trenta, commise qualche sproposito di cui dovette poi dar conto al tempo della amministrazione statunitense della Baviera (1945-47). Ma presto tornò sulla strada maestra, solo temporaneamente abbandonata. Anche i grandi editori scientifici debbono però adeguarsi alle esigenze del mercato (come, un tempo, alle esigenze della politica): per esempio alla richiesta proveniente dalle università (che sono sempre meno «universitarie») di poter disporre di agili sintesi su grandi temi o su intere epoche storiche. E Beck lo ha fatto al meglio, affidando a grandi specialisti il non facile compito. Così sono apparse sintesi essenzialissime sui Celti o sugli antichi Germani, sull’antica Atene, e addirittura Alexander Demandt, lo storico della Freie Universität, specialista e cultore di Oswald Spengler, si è cimentato per tali collane con una sintesi dell’intera storia universale, come aveva fatto a suo tempo, in Italia, Gianni Rodari in un bellissimo libro per ragazzi. Al maggiore bizantinista tedesco, Peter Schreiner, Beck ha affidato un piccolo, ma denso e aggiornato libro su Costantinopoli: Costantinopoli, storia e archeologia (2007), che ora esce in italiano, nei «Piccoli Saggi» della Salerno Editrice (Roma) col titolo Costantinopoli. Metropoli dai mille volti e la presentazione - che è ben più che una presentazione - di Silvia Ronchey.
Non era un compito facile, già perché il tema stesso è considerato (a torto) settoriale e unicamente «specialistico». E invece dovrebbe essere ormai chiaro che il «millennio» bizantino è uno dei passaggi decisivi della storia: unico caso, nella storia d’ Europa, di trapasso graduale dall’antichità al mondo moderno. Non era un compito affatto agevole perché si trattava di andare due volte contro corrente: non solo contro il pregiudizio della marginalità di quella storia, ma anche contro l’idea vulgata di Bisanzio come impero immobile, impegnato unicamente nella millenaria attesa di poter defungere. Era poi necessario tener conto delle molte novità che la ricerca ha prodotto e presentare le nuove acquisizioni in forma pianamente espositiva. E lo sforzo è riuscito. L’autore chiarisce sin dalle prime pagine quanto poco sia sopravvissuto della città bizantina ed in quali limiti ristretti si possa parlare di «archeologia» in una città così radicalmente trasformata dalla sua successiva storia.
Ma quando passa ai temi più controversi, per esempio quello riguardante le istituzioni culturali che forgiarono i gruppi dirigenti dell’ impero, è molto efficace nel rendere accessibile una tematica controversa e sottile. E chiarisce in che misura si possa parlare di istituzioni di tipo «universitario», quanto diverse esse fossero dalle università che sorsero poi a Occidente, quanto (poco) di «statale» e quanto (molto) di privato ci fosse in tali istituzioni. Né viene trascurato il contenuto dell’insegnamento che lì veniva impartito. Ed in pari tempo è lo stesso ruolo della capitale che viene storicizzato, alla luce, tra l’altro, di ricerche recenti e meno recenti sulla importanza culturale delle province orientali dell’ impero, perse per sempre alla metà del secolo VII a seguito della conquista araba e, di conseguenza, sulla nuova centralità, anche culturale, in cui Costantinopoli venne a trovarsi proprio a seguito di tali perdite. «Tuttavia - commenta Schreiner - proprio quel momento non era il più adatto perché le Muse esiliate recuperassero nella capitale l’ importanza che avevano avuto nelle antiche roccaforti della cultura».
L’altra faccia di questo problema - che forse esula da una trattazione incentrata su Bisanzio e nondimeno la completa - è la durata o meglio la permanenza del greco nelle province orientali (Siria, Palestina, Egitto) pur dopo la conquista araba. Su questo punto ci sono indizi contrastanti. Certo, un grande storico arabo vissuto all’incirca al tempo del Boccaccio, Ibn-Khaldun, scrive nella sua Muqaddina («Prolegomeni storici») che il califfo Omar aveva imposto che in tutti i territori conquistati si parlasse e si scrivesse unicamente l’arabo del Corano e che gli altri idiomi venissero banditi. Ma questa direttiva non si realizzò mai in modo granitico. Nella fattispecie le tracce scritte, attestanti l’uso del greco durano ancora ben oltre la conquista: si possono vedere, a riprova, le ultime tavole dell’album storico paleografico edito da Medea Norsa a Pisa nel 1939 (La scrittura letteraria greca). Ed è ben noto che Hunain Ibn-Ishaq, nel suo commento a Galeno, descrive la collaborazione con altri dotti operanti ad Alessandria intorno al testo del grande scienziato di Pergamo.
Insomma il greco si conservò anche fuori dell’impero e il contatto con l’impero rivale ebbe, nei secoli IX-X e oltre, reciproci, benefici, effetti culturali. Schreiner conclude la sua ricostruzione ricordando l’ombra delle profezie escatologiche che prevedevano la fine della «città delle meraviglie», la fine della Costantinopoli imperiale. Il monaco Filofej profetava, secoli più tardi, che dopo la fine della seconda Roma sarebbe subentrata la terza Roma (Mosca) «e una quarta Roma non ci sarà». Formulazione efficace nel significare quanto la storia dell’impero apparentemente immobile di Bisanzio si prolunghi in realtà sin nel nostro presente.

Corriere della Sera, 22 giugno 2009

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