24.4.15

Il caso Gentile (Livio Sichirollo)

Giovanni Gentile
Tra 1910 e il 1930 e oltre la penisola fu scossa da un dibattito clamoroso. Tutta l'intellettualità (salvo rare e lodevoli eccezioni) vi partecipò. Si trattava di decidere se lo Spirito (cioè in qualche modo Dio o la Storia) fosse trino oppure quadruplice: in parole più povere se la realtà fosse arte, religione e filosofia oppure utile, buono, bello e vero. Problema assai complesso, complicato poi dal fatto (o meglio dalla pretesa) che se trino doveva essere ad un tempo uno, cioè tutto Filosofia, pensiero sempre in atto, e se quadruplice non poteva che manifestarsi come doppio, cioè pratico (nell'azione) e teorico (nel pensiero). Ma se possibile le cose erano ancora più complicate, l'intero universo filosofico — tranquillamente sistemato nelle diverse scienze di tradizione positivistica —, messo in questione. 
Il sostenitore dell'unità-trinità, Giovanni Gentile (Castelvetrano 1875 – 1944), uomo dal sentimenti forti, di grande ambizione, di salda cultura, identificava il suo Spirito con la Filosofia (la sua, naturalmente): non ci sono scienze particolari, non c'è pedagogia, non c'è didattica, tutta la vita è prassi, farsi, educazione in atto, pensiero che realizza continuamente se stesso.
Il paladino della quadruplicità era, come tutti sanno, Benedetto Croce. Disceso dall'alta valle del Sangro dov'era nato (Pescasseroli 1866 - Napoli 1952) aveva respirato al latte cultura e benessere in una famiglia ampia e agiata che gli consenti di evitare inutili studi regolari e i fastidi di una professione. Fu presto noto per dottrina filosofica e storica erudizione, un signore napoletano di fama europea. Amava Gentile, ne stimava il lavoro, lo aiutava anche finanziariamente a pubblicare i suoi studi. “La Critica, la rivista personale del Croce, 6 numeri all'anno, dal 1903 al 1943, filtrò il meglio della cultura italiana ed europea e per circa 20 anni fu redatta grazie al sodalizio fra i due amici. Croce sentì presto odore di misticismo nella filosofia gentiliana, e lo infastidiva il tono di parrocchia fra Gentile ed i discepoli (“Io scolari non ne ho — gli scriveva — quelli che c'erano li ho fatti fuggire: che lezione! Gentile, provinciale meschino arrampicatosi dalla Sicilia, nonostante il suo ingegno non capì — al solito”).
Sul fondo furono a lungo d'accordo. Sul finire del secolo avevano liquidato insieme (quasi senza conoscersi) socialismo e materialismo storico: falsa ideologia il primo, pseudo filosofia il secondo — la classe operaia e le sue lotte erano un accadimento empirico che non li riguardava (Labriola scrisse al Croce lettere di fuoco, invitandolo alla modestia intellettuale), e proprio di lì era nata la loro amicizia. D'accordo soprattutto nella battaglia contro le scienze empiriche, un po' metafisiche, è vero, ma in via di profonda trasformazione e di grande arricchimento. Non importa, i dioscuri sentenziarono che si trattava di una negazione dei vero filosofico. Per fortuna, tale battaglia lasciò indifferenti gli scienziati (per quanto ne so): continuarono il loro lavoro, e fecero bene.
D'accordo anche sulle prime linee di una riforma della scuola. Croce se ne occupò anche durante suo Ministero, più che altro per fare piacere all'amico. Gentile era già inserito nell'amministrazione dello Stato. Aveva scoperto in sé, fin dalla sua prima maturità, uno spirito innovatore talmente saldo da poter affrontare non solo la tradizione culturale italiana tutta intera, ma anche le cose: in primis la scuola (che versava in una condizione miserevole, come del resto la popolazione, per metà analfabeta) onde formare insegnanti e una classe dirigente adatta ai tempi nuovi. E la riforma si fece, col fascismo (1923; Gentile invero si dimise da ministro subito, dopo il delitto Matteotti); scuola elitaria, umanistica, filosofica, dalle elementari all'Università; anche nelle elementari entrava la filosofia ma nella forma e nel contenuti della religione cattolica; per la prima volta — alla faccia della lunga tradizione laica italiana (da Boccaccio a e Cattaneo non era poi da buttar via), di quel Bruno che Gentile diceva di ammirare, e con un gran respiro di sollievo dei nipotini di Gioberti, Bertrando Spaventa, ecc., cioè preti, ex-preti, similpreti (che Gentile non abbia mai approvato il Concordato, che abbia sostenuto sempre l'autorità e la libertà dello Stato, è solo un segno delle sue contraddizioni, del suo non capire nulla di quella politica per la quale — non certo solo per ambizione e tornaconto personale — si sentiva versato). E scuola rigorosa, sia quella pubblica sia la privata (che Gentile detestava!) alla quale fu dato ampio spazio: lo Stato etico, tutore della libertà, si incaricava della libertà di insegnamento. Strumento del rigore, gli esami: esami sempre, ovunque, 3^ elementare, 5^ elementare, ammissione al ginnasio, 3° ginnasio, 5° ginnasio, 3° liceo — e quanto all'Università fu del tutto centralizzata e furono poste solide basi per trasformarla in quell'esamificio che oggi gloriosamente è (41 esami in 3 anni presso gli per Istituti per l'Educazione fisica: un record mondiale!). Dal 1923 tutti gli italiani passano decenni della loro vita o a sostenere esami o a far fare esami.
Questo, e non solo questo, leggiamo nel libro, ben documentato e ben più serio di questa presentazione, di Sergio Romano, Giovanni Gentile. La filosofia al potere (Bompiani). Romano è uno storico e un diplomatico (oggi è ambasciatore presso la NATO a Bruxelles). Come storico gli interessano ovviamente gli uomini e le idee, ma come diplomatico ha un fiuto speciale per l'ambiente, lo spirito dei tempi, diciamo l'aria che tira intorno al personaggi.
Egli ci ha dato — credo senza volerlo, vista la sua simpatia per il personaggio — un affresco di tanta miseria nella nostra alta cultura, della sua ignoranza della realtà. Fasci siciliani, occupazione di terre da parte di contadini affamati, operai morti ammazzati in piazza, guerra mondiale, occupazione delle fabbriche, violenze dei fascisti, questione meridionale, industrializzazione, colonialismo, seconda guerra mondiale — di tutto questo niente, i nostri due personaggi e tanti loro amici e colleghi non se ne accorgono neppure, non sprecano un rigo (Salvemini, Gobetti, tanto per citare, come se non esistessero). In compenso si scambiano centinaia di lettere per spostare Gentile da un liceo all'altro, da un'università all'altra.
Riformano la scuola, sì, ma sulla carta: l'analfabetismo viene appena intaccato, la classe dirigente alla quale pensava Gentile doveva essere quella di Humboldt ai tempi di Hegel: 30 funzionari per l'amministrazione centrale. E l'educazione e l'istruzione delle nuove classi sociali, dei quadri intermedi? Dov'erano i piani e gli stanziamenti per le biblioteche, le scuole tecniche, commerciali, politecniche, per gli stessi licei scientifici? Sì, a Milano e Torino, grazie all'iniziativa privata. Il paese reale non esiste; il Fascismo per l'uno è la realizzazione del liberismo, per l'altro è una parentesi nella storia della libertà: parole, parole.
Il quadro è penoso e fa riflettere. Qualcosa resta. Restano il grande disegno culturale di Croce sia pure pagato al prezzo di tanto misoneismo e la sua leggendaria aristocratica benevolenza; resta l'Enciclopedia italiana di Gentile: egli ne difese libertà e autorità contro tutto e tutti, contro le migliaia di pennivendoli che volevano collaborare (le sue scelte furono quasi tutte oculate), contro il regime che la voleva fascista, contro la chiesa che (via padre Tacchi Venturi, che controllava dal piano di sopra) la voleva cattolica (fu il suo capolavoro di studioso e di organizzatore di cultura. È che i nostri intellettuali avanzati arriccino il naso: Ernst Bloch, la cui prodigiosa cultura era fuori discussione, mi disse, intorno al 1965, che persino la voce «tappeti» era ottima, e lui sui tappeti riteneva di sapere tutto!), e resta la figura dell'uomo Gentile: autoritario e accentratore ma generoso (soprattutto coi giovani), espansivo e irascibile, indipendente nonostante tutto, circondato da una famiglia di amici coinvolti in un affetto un po' tribale, ma un affetto che non venne meno quando amici antifascisti ed ebrei dovettero prendere altre strade.
Li aiutava dicendo, pare, di non capire, pur avendo fatto di tutto per essere oggettivamente responsabile degli avvenimenti. E allora resta quel suo voler stare sulla breccia fino alla fine, anche quando ormai sapeva che la violenza si sarebbe abbattuta su di lui e che la sua morte non avrebbe riscattato la sua opera. Morte violenta, come è noto, rivendicata dal comunisti, non certo per mano di “assassini” (sic! pag. 301). Quanto allo sfruttamento di quella morte da parte di Togliatti (“disegno gattopardesco”; “azione brutale” anche contro Croce) “per recuperare materiali importanti per la variante italiana del marxismo-leninismo” (tesi di Sergio Bertelli), mi sembra fantascienza giornalistica non degna di uno storico.


“l'Unità”, 3 gennaio 1985

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