26.4.15

Caterina mercante e regina (Valerio Castronovo)

Poche donne sono state oggetto di così dure esecrazioni come Caterina de' Medici. Figlia di banchieri, nipote di un papa, moglie di Enrico II di Francia, madre di tre sovrani (Francesco II, Carlo IX ed Enrico III), reggente o consigliere al trono, la «mercante fiorentina» ebbe in sorte per trent'anni il governo di un paese dilaniato pressoché ininterrottamente da aspri conflitti politici, sociali e religiosi, esposto ai colpi di mano e alle ingerenze dei suoi avversari. Era ancora in vita, e più che mai temibile, quando venne additata come la causa di tutti i mali che affliggevano la Francia; né l'odio per la straniera «avida di potere, usurpatrice astuta e crudele, educata dall'usura, nutrita nell'ateismo», si spense del tutto dopo la sua morte. Su di lei continuò a gravare l'accusa di a-vere organizzato il massacro degli Ugonotti, nella famosa notte di San Bartolomeo del 1572, in un secolo che pur vide stragi e violenze non meno spietate e infamanti.
Del resto, ancor prima di trovarsi al centro di vicende tanto drammatiche, Caterina non aveva mai avuto vita facile. Rimasta orfana della madre a pochi giorni dalla nascita, coinvolta, adolescente, nel tumultuoso epilogo della Repubblica fiorentina nel 1527, quando i capi della fazione più estremista avrebbero voluto mandarla a morte o gettarla in un postribolo, vittima inconsapevole di un'ardita combinazione diplomatica fra Francesco I e Clemente VII (andata a monte per la prematura scomparsa del pontefice), e perciò tollerata a malapena — quasi come un'ospite indesiderata — alla Corte di Parigi, dove ci si aspettava ben altro che «una ragazza nuda e cruda» quale sposa del Delfino, Caterina fu per lungo tempo tenuta in disparte dal marito, innamorato della bella Diana di Poitiers e incurante di dissimularlo. Piccola, tonda, gli occhi sporgenti, il colorito pallido, Caterina, per quanto compiacente e discreta, non aveva attrattive tali da tener testa onorevolmente alla rivale; né la sua intelligenza e la sua finezza, sebbene largamente apprezzate, potevano assicurarle un ruolo di primo piano nella direzione degli affari pubblici.
Fu la tragica scomparsa del marito, nel luglio 1559, a rivelare in lei una personalità energica e volitiva sotto la maschera di condiscendente passività di cui aveva fatto mostra fino allora per non essere sopraffatta. Giocando d'astuzia, traendo vantaggio dai conflitti d'interesse e dalle passioni di chi le stava intorno, contrapponendo un rivale all'altro, muovendo con estrema abilità e spregiudicatezza tutte le pedine in suo possesso, l'«italiana» finì per imporsi come la più strenua tutrice della monarchia francese in un periodo in cui questa pareva destinata a dissolversi. «Un miracolo di natura, veramente nata per reggere e governare», la definirà nel 1579 l'ambasciatore veneto Lippomano, che pur aveva visto all'opera tanti altri maestri di intrighi e di macchinazioni.

Abito vedovile
Ma quando Caterina assunse il timone dello Stato, nel 1560, per conto del figlio quindicenne Francesco II, la partita era appena cominciata e nulla (dalla bancarotta della finanza pubblica alla prepotenza dei grandi signori feudali e al dilagante malcontento dei ceti popolari) faceva presagire che quella partita si sarebbe risolta in suo favore.
In un libro denso di fatti e documenti (Caterina de' Medici, Sansoni, pagg. 624, lire 25.000), Ivan Cloulas si è proposto di riabilitare una figura tanto discussa e controversa, a costo di scontrarsi non soltanto con una mitologia nazionale di segno avverso, alimentata da centinaia di libelli del tempo e di rievocazioni romanzate, ma anche con alcune interpretazioni storiche fra le più accreditate. E lo ha fatto — occorre riconoscere — con abilità, evitando di stendere un velo pietoso sui misfatti perpetrati da Caterina, mettendo anzi in luce talune sue caratteristiche poco edificanti (la dissimulazione, la mancanza assoluta di scrupoli, lo spirito di vendetta, l'indifferenza per le convinzioni morali e religiose), ma giustificandole alla luce della ragion di Stato, di una lotta lunga ed estenuante per garantire, fra mille avversità, la continuità del potere regio e per salvare, insieme alla monarchia, l'unità della nazione francese.
In realtà, l'innato machiavellismo della Regina madre, la sua capacità di destreggiarsi fra i venti mutevoli della fortuna non andando tanto per il sottile, fu un'arma importante, ma non quella decisiva. La chiave segreta del suo successo fu piuttosto l'ascendente che Caterina seppe esercitare sui propri sudditi (pur insofferenti dei suoi arbitrii più scandalosi e delle fameliche cricche che alla sua ombra spadroneggiavano a Parigi) in nome di un'autorità di cui la regina si sentiva gelosa custode prim'ancora che legittima erede. Il suo mesto abito di vedova, i suoi veli neri, ostentati come un simbolo solenne di maestà regale, rappresentarono il presidio più sicuro del suo potere assoluto e, insieme, una sorta di alibi privilegiato per qualsiasi evenienza.

Ansie morbose
Madre imperiosa e calcolatrice, attenta e risoluta nel difendere con le unghie e con i denti ciò che apparteneva ai figli, spietata con chi tentasse di sbarrarle il passo, Caterina era tuttavia consapevole della sua intima debolezza e del suo crescente isolamento. Al punto che, come non esitò mai a sterminare i propri nemici al minimo sospetto, così continuò, per tutta la vita, a valersi di qualsiasi espediente per esorcizzare le proprie paure, le proprie ansie ossessive. La sua inclinazione morbosa per l'occultismo e la divinazione non fu un'oltraggiosa diceria messa in giro dagli avversari. Per scongiurare la cattiva sorte, Caterina non soltanto si circondò di amuleti e talismani, ma fece ricorso più volte ad astrologi e negromanti, anche se non si fece mai suggestionare dai venditori di facili profezie e fu abbastanza lesta a sbarazzarsene al momento giusto.
Si fidava assai più dei banchieri che s'era portata dietro da Firenze; e non a torto. Quantunque uomini d'affari come i Gondi, i Birago, i Sardini badassero soprattutto ad arricchirsi a scapito dell'erario e a spillare senza tregua privilegi e titoli nobiliari, essi assicuravano alla regina l'appoggio di un «partito italiano» tanto influente a Corte (in un periodo in cui, senza gli anticipi dei finanzieri, sarebbe stato difficile attendere a qualsiasi compito di governo) quanto abile e sollecito, all'occorrenza, nel tenere le fila di delicate e complesse mediazioni con la Spagna e con il Vaticano. In verità, Caterina trovò validi collaboratori anche nell'apparato statale, che cercò di rafforzare senza peraltro sacrificare i diritti di parola delle Assemblee e delle Comunità locali sull'operato dei funzionari regi e sull'amministrazione della giustizia.
Ma la situazione della Francia era troppo compromessa (il paese era scosso da un profondo disagio economico e sociale e lacerato da sanguinose discordie confessionali) perché a Caterina potesse riuscire la stessa operazione portata a compimento con successo da Elisabetta in una società come quella inglese: che traboccava d'energia e vedeva nella monarchia l'istituto garante dell'unità politica e religiosa del paese e l'interprete di nuovi ideali nazionali. In Francia, l'alleanza stabilitasi in passato fra Corona e borghesia s'era ormai dissolta (da un lato, per la convulsa resurrezione dei particolarismi feudali, dall'altro, sotto la pressione del rivoluzionammo radicale dei calvinisti).

Sfacciata corruzione
A Caterina non restava che l'ingrato compito di salvare il salvabile in un paese preso di mira dalle cupidigie imperiali di Filippo II e spaccato in due dalle guerre di religione. Manovrando pericolosamente, con un gioco serrato di ambigui compromessi e di feroci prove di forza, fra le due maggiori famiglie di Francia (i Guisa, a capo della Lega Cattolica e della fazione più conservatrice, e i Borboni, a capo del partito protestante e delle forze riformatrici), la regina madre riuscì a tenere a bada gli uni e gli altri con una politica di volta in volta liberale e repressiva, attenta in ogni caso a preservare la sovranità e i diritti della Corona in un'atmosfera resa sempre più incandescente dalle sedizioni interne della piccola nobiltà provinciale e dai furori della plebe parigina, infiammata dagli anatemi papali e dai suoi predicatori.
Ma le passioni dottrinali e ideologiche ebbero spesso il sopravvento sul cinismo politico e sullo spirito realistico di Caterina. D'altra parte, gli eccidi di cui s'era macchiata, la sfacciata corruzione morale che imperversava nei suoi palazzi, le ruberie dei suoi favoriti e il deficit catastrofico dello Stato non erano circostanze tali da accreditare il ruolo moderatore della monarchia e la sua candidatura ad arbitro supremo. La guerra dei tre Enrichi (Enrico III di Valois, Enrico di Guisa ed Enrico di Navarra), scoppiata nel 1588 — un anno prima della scomparsa di Caterina — annullò d'un colpo tutti gli sforzi di pacificazione da lei compiuti e segnò il ritorno sulla scena del fanatismo religioso.
Caterina aveva spento i roghi dell'Inquisizione e messo le mani sulle rendite ecclesiastiche, s'era adoperata per risvegliare la coscienza nazionale e aveva tentato riorganizzare l'amministrazione pubblica. Si proponeva di lenire i mali delle carestie e del pauperismo, più con gli strumenti del virtuosismo personale e la fede mistica nella missione detta Corona, che con metodi di governo moderni ed efficaci. Ci vollero, in effetti, altri dieci anni perché la Francia risorgesse dalle sue ceneri per opera di Enrico IV, convertitosi al cattolicesimo in cambio del riconoscimento dei suoi diritti al trono («Parigi vai bene una messa»), e perché, insieme alla libertà di culto, tornasse in vita il vecchio disegno di rivincita antiasburgica.
Nel frattempo, era fatale che sulla figura di Caterina si operasse un trasferimento dell'immagine materna della Francia con tutti i suoi fervori e tabù ancestrali. Le ondate di devozione filiale, il timore reverenziale, i rancori dissacratori che la regina giunse a suscitare non si potrebbero spiegare diversamente.


la Repubblica giovedì 15 gennaio 1981

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