20.4.15

Giacobini e Bolscevici. Intervista a Eric Hobsbawm (b.g.)

In un “Contemporaneo” (così si chiamavano i supplementi monografici di “Rinascita”) dedicato al bicentenario della Rivoluzione francese ho trovato questa intervista allo storico inglese Eric Hobsbawm siglata b.g., quasi certamente Bruno Gravaguolo, che curò nello stesso inserto altre interviste e servizi. (S.L.L.)

- Professor Hobsbawm, discutendo di rivoluzione vengono spesso comparati e distinti fra di loro i modelli della rivoluzione americana, inglese e francese. Qual è l'origine e la validità attuale di questo criterio storiografico e in che senso il «modello francese» occupa storicamente una posizione del tutto particolare rispetto ai suoi antecedenti?
«Al di là delle loro profonde differenze le rivoluzioni inglese americana e francese, assieme alla lotta degli olandesi per l'indipendenza contro la Spagna, sono sempre state percepite come una successione di avvenimenti da cui è emersa la realtà della lotta rivoluzionaria quale modello principale dei cambiamenti storici nell'età moderna e come base dello sviluppo nazionale. Ciascuna di queste rivoluzioni naturalmente si è riferita ai suoi antecedenti. Ma la prima novità della Rivoluzione francese è stata proprio quella di aver potuto congiungere le due rivoluzioni precedenti, quella inglese e quella americana. Dalla prospettiva del 1789 infatti queste ultime vennero viste non come incidenti interni e specifici nella storia dei loro paesi, ma come eventi di una serie appartenente ad un insieme storico in movimento. Tradizionalmente il caso inglese e il caso francese sono stati sempre contrapposti come modelli distinti. Per i liberali moderati in particolare la rivoluzione inglese costituiva il modello preferito perché aveva evitato gli eccessi del giacobinismo. La rivoluzione francese del 1830 per esempio si richiamava esplicitamente all'esempio inglese tentando di plasmarsi su di esso. Quanto ai tratti specifici più vistosi e durevoli della Rivoluzione del 1789 essi consistono in quel che segue: 1) le sue ripercussioni straordinarie e immediate (i cui echi politici erano destinati a influenzare anche la rivoluzione russa nel nostro secolo) e sottolineate subito dai successi degli eserciti rivoluzionari francesi i quali hanno conquistato gran parte del continente europeo trasformandolo direttamente o indirettamente; 2) il carattere drammatico e spettacolare degli avvenimenti francesi dagli anni 1789 in poi al punto tale che le personalità e gli episodi della storia rivoluzionaria francese di quegli anni, da Mirabeau a Robespierre a Napoleone, dalla Bastiglia al Terrore, al 18 Brumaio, entrarono a far parte della comune educazione europea dell'800. Thomas Carlyle uno dei grandi pensatori britannici dell'800, autore di una celebre storia della Rivoluzione francese, definì in tal senso la Rivoluzione come "il grande poema dei nostri tempi"; 3) infine la Rivoluzione francese, a differenza delle rivoluzioni precedenti, indicava il cammino verso altre rivoluzioni sociali, più radicali, suggerendo modelli per il loro futuro. Tutti i rivoluzionari dell'800, incluso Marx, cominciavano sempre con l'analisi delle esperienze che andavano dal 1789 al 1799».

Ricominciamo allora anche noi di qui. Quello del carattere borghese del 1789 costituisce un canone consolidato di indagine che ricompare con insistenza negli studi marxisti. Quanto è ancor efficace tale paradigma interpretativo?
«La Rivoluzione francese come rivoluzione borghese non è in prima istanza una definizione marxista, ma il frutto dell'interpretazione dei pensatori e dei politici liberali e borghesi francesi dei primi anni Venti del XIX secolo, i quali riflettevano sulle proprie esperienze dell'adolescenza e sulla giovinezza. È da costoro che Marx asserisce di averla ripresa.
I liberali francesi moderati la videro come rivoluzione borghese perché rappresentò quel che Tocqueville chiamò classe intermedia la quale voleva distruggere sia il feudalesimo che l'assolutismo, cercando nello stesso tempo di tenere le masse lontane dal potere. Difatti le classi borghesi avrebbero preferito una rivoluzione effettuata sul modello inglese, e piuttosto simile a quella del 1688, che non a quella del 1649.
La loro opinione generale fu che nel 1791 la Rivoluzione raggiunse i suoi obiettivi, ma a quel punto i moderati incalzati dalla controrivoluzione per farla sopravvivere dovettero fare appello alle masse, le quali a loro volta espressero un regime giacobino, sebbene di breve durata. Dopodiché il problema fu quello relativo alla modalità con cui ristabilire su durevoli basi la rivoluzione moderata.
I moderati pensarono che un tale traguardo fosse stato raggiunto con la restaurazione di Luigi XVIII quale monarca costituzionale di fatto. Invece il regime cominciò a muoversi verso destra. A quell'epoca dunque il modello di rivoluzione borghese era stato consapevolmente formulato e la rivoluzione del 1830 fu condotta consciamente su quella base. E dovrei aggiungere che i rivoluzionari borghesi non dubitarono mai del fatto che la nuova società borghese sarebbe stata una società capitalistica. Io stesso non mi sento di dissentire da quel che fu al riguardo il pensiero di Mignet, Guizot e Tocqueville.
Tuttavia, c'è una versione della teoria della rivoluzione borghese che è stata puntualmente criticata. È la tesi secondo cui nel 1789 c'era già una consapevole classe borghese capitalista che aspettava di rovesciare il feudalesimo, di sostituirsi al re e all'aristocrazia in quanto classe dominante. Tale versione fu proposta da alcuni storici marxisti, che indubbiamente ragionavano per analogia, vale a dire sul modello del rapporto di classe che essi ritenevano sussistente tra lavoratori e capitalisti nella fase immediatamente precedente l'inevitabile rivoluzione del proletariato. È chiaro adesso che quella russa non poteva essere e non era la situazione nel 1789. E infatti i grandi storici della rivoluzione non hanno mai adottato un approccio così semplicistico. Ad ogni modo criticare una versione della definizione di "rivoluzione borghese" non significa negare che storicamente la francese fu una rivoluzione borghese».

C'è stato comunque nell'ultimo decennio un moltipllcarsi di contributi e di approfondimenti tesi a relativizzare il carattere di classe, la centralità assoluta e il «mito» della stagione rivoluzionaria francese. Un fenomeno questo che riguarda non solo la Francia ma anche il mondo anglossassone. Come giudica questa discussione?
«Gli spunti che emergono dal dibattito francese sulla rivoluzione in occasione del suo bicentenario sono di scarsissimo interesse storico. Investono sostanzialmente la politica e le ideologie attuali, come del resto hanno sempre fatto i dibattiti pubblici sulla rivoluzione. L'attuale dibattito in Francia concerne tanto il 1789 quanto il 1917. I repubblicani e la sinistra tradizionale, comunisti compresi, stanno dalla stessa parte, seppure dissentono sulla questione se le celebrazioni debbano o meno riferirsi anche alla fase radicalizzata della rivoluzione del 1793-94. Una disagiata miscela di reazionari e di liberali anticomunisti invece si attesta sul fronte opposto. I reazionari colgono l'occasione non tanto di commemorare la rivoluzione quanto di condannarla, introducendo nella discussione un elemento insensato concettualmente e improprio quale il "genocidio". I liberali anticomunisti cercano di sconfessare l'idea della inevitabilità della rivoluzione e della sua così vasta e profonda portata e insistono nella critica a quelle che essi ritengono teorie marxiste.
Ma la maggior parte dei contributi francesi a questo dibattito è costituito da reinterpretazioni del dato storiografico e paradossalmente, nell'esaminare il materiale più recente, guardano più a quello anglosassone che a quello francese. Nondimeno si deve notare come, mentre la ricerca anglosassone in anni recenti sia stata critica verso le interpretazioni tradizionali della Rivoluzione francese, il suo sbocco è molto meno politicamente revisionista delle tesi di molti scrittori francesi che se ne avvalgono. Prima di tutto gli storici inglesi e americani riconoscono che la rivoluzione è un fatto fondamentale nella storia del XIX secolo».

Lei ha evocato di sfuggita gli anni 1793-1794. Una delle questioni più dibattute, anche in Italia, è quella del giacobinismo e del suo ruolo. Qual è in sintesi la sua valutazione storica del 'momento giacobino» della rivoluzione e perché questo problema torna ancora a riproporsi?
«Il problema cruciale della Rivoluzione francese come rivoluzione borghese era ed è quello del come conseguire e conservare propri obiettivi senza usare metodi non-democratici. Dovette appellarsi ai giacobini (anche a costo di rischiare una rivoluzione sociale) e a Napoleone (tanto da farne derivare un regime militare). I liberali originari del 1820 ed anni seguenti espressero il parere che la rivoluzione sarebbe stata sconfitta senza la cosiddetta "seconda rivoluzione" del 1792-94; come è chiaro che la Francia sarebbe certamente stata sconfitta nelle guerre di quegli stessi anni se non fosse stato per lo sforzo bellico organizzato dalla Repubblica giacobina.
Invece i liberali moderni dissentono profondamente perché ravvisano in quella giacobina la via maestra che conduce alle rivoluzioni proletarie e sociali che essa indubbiamente ispirò. I giacobini senz'altro ispirano i democratici, i socialisti ed i comunisti del XIX e del XX secolo. La borghesia liberale si è abituata alla democrazia perché non ebbe mai come sbocco la rivoluzione sociale, purtuttavia non rinunciò ad osteggiare il giacobinismo proprio perché era democratico. Comunque sia, i liberali rimangono antigiacobini perché il giacobinismo continuò ad ispirare le rivoluzioni sociali, specialmente quelle socialiste e comuniste. Quel che permane ambiguo in sede di giudizio storico è l'atteggiamento verso i giacobini. Si sostiene al medesimo tempo che fossero e che non fossero borghesi. Tale atteggiamento per esempio si può rinvenire in Gramsci, personalmente credo tuttavia che questo modo di porre la questione sia anacronistico».

Il giacobinismo, Lei sostiene, continuò ad ispirare le rivoluzioni successive. Dal suo punto di vista quindi, anche la rivoluzione d Ottobre, fu in certa misura giacobina. Questo richiamo al passato da parte dei bolscevichi non rivestiva dunque soltanto un carattere simbolico ma coincideva con i tratti effettivi delle vicende nate dall'Ottobre, incluso il «ricorso» termidoriano?
«La rivoluzione di Ottobre fu una rivoluzione giacobina in due sensi. Innanzitutto perché il potere fu conquistato da un corpo politico organizzato, un partito di avanguardia, e senz'altro i giacobini possono essere considerati degli antenati dei partiti di quel genere. In secondo luogo fu una rivoluzione giacobina nel senso gramsciano, perché fu spinta oltre il punto in cui i suoi sviluppi spontanei l'avevano portata, fino a giungere a una posizione più avanzata “di quanto le condizioni storiche le avrebbero consentito di andare". Storicamente parlando, si intende che fu una rivoluzione tutt'affatto diversa dalla francese, anche se i bolscevichi erano costantemente consapevoli del precedente della Francia, specialmente dei pericoli del Termidoro e del bonapartismo. E così, dopo il 1917, la Rivoluzione russa rimpiazzò quella francese come modello internazionale delle grandi rivoluzioni nel mondo.
Gli apparenti parallelismi tra gli sviluppi interni in Francia ed in Russia all'indomani delle rispettive rivoluzioni possono essere guardate in una visione più generale, come davvero Gramsci fece quando paragonò i giacobini a Cromwell e alle Teste Rotonde.
Devono per forza tutte le più grandi rivoluzioni spingersi oltre il punto al quale le condizioni storiche permetterebbero loro di giungere, così da dover sviluppare regimi che devono ritrattare le tesi che nel lungo e nel breve periodo risultarono insostenibili e non funzionanti? Io non credo che specifici esempi tratti dalla rivoluzione in Francia siano oggi calzanti, anche se è comprensibile perché i bolscevichi anche negli anni Venti e Trenta vi si riferirono.
Il problema di fondo è che le grandi rivoluzioni come le grandi guerre non possono né essere pianificate per intero né controllate completamente. Non possono essere iniziate e finite a comando, straripano dalle intenzioni dei partecipanti come dei fiumi in piena e vanno poi reincanalate. Che le grandi rivoluzioni fossero un fenomeno naturale piuttosto che un fatto umano politico, fu una scoperta fatta durante la Rivoluzione francese e come risultato delle esperienze in seno ad essa».

Veniamo infine al presente. A suo avviso l'idea di rivoluzione violenta, così come ci è stata tramandata dalle rivoluzioni del passato, rimane ancora una esperienza centrale e massimamente significativa per la trasformazione storica, oppure essa appartiene ad una costellazione temporale in via di superamento?
«Gli ultimi due secoli costituiscono un'era di globali cambiamenti storici attraverso la rivoluzione. Non c'è motivo di credere che questa era stia finendo. Le fasi più recenti di tali cambiamenti si registrano negli anni Settanta e fanno marcare rivoluzioni in varie parti d'Africa, come l'Etiopia, in Portogallo, in Iran ed in Nicaragua. D'altro canto in molti paesi nel passato si è riusciti ad ottenere sostanziali mutamenti sociali con mezzi diversi dalla rivoluzione, anche se nel loro background storico si colloca una rivoluzione, come nel caso dell'Inghilterra. Tuttavia in Inghilterra dal 17° secolo in poi ci sono stati cambiamenti senza il ricorso alla rivoluzione. Non c'è motivo per cui ciò non possa accadere in altri paesi. In sostanza, la questione circa la sopravvivenza dell'epoca delle rivoluzioni non deve concernere una generalizzazione storica, ma le concrete esperienze storiche di singoli paesi. Se mi si chiede: ci sarà una nuova Rivoluzione francese, la risposta è: non ce n'è né una probabilità né una necessità. Se invece mi si chiede se la rivoluzione è un fattore di cambiamento storico nel mondo che ha esaurito la sua funzione, la risposta è: no».

“Rinascita”, sabato 11 marzo 1989

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