3.4.15

Comunista comunista (S.L.L.)

Alle magistrali di Perugia (il Pieralli) ci finii di malavoglia, un anno che, fresco di trasferimento, persi il posto al classico di Perugia (il Mariotti), giacché a quel tempo in casi del genere veniva tenuta in gran conto la continuità didattica.
Sarei potuto tornare dopo un solo anno al liceo di piazza San Paolo, vicinissimo a casa mia, e senza difficoltà visto che un paio di colleghi di Italiano e Latino andavano in pensione proprio quell'anno. Ma non lo feci, al Pieralli rimasi ben cinque anni, e per più di una ragione.
Alle magistrali nel triennio il Latino s'accoppiava con la Storia e per me insegnare storia era una novità stimolante, tanto più in un tipo di scuola ove era giusto rivolgere una speciale attenzione all'interrogazione critica del documento e alla costruzione storiografica. In quegli anni amavo definirmi insegnante di storia e scrissi un articolo per un giornaletto di insegnanti comunisti in cui reclamavo una formazione specifica (la laurea in Storia) e un ruolo autonomo per l'insegnante di storia, onde sottrarre la disciplina alle astrazioni generalizzanti della filosofia e alle retoriche della letteratura. Nelle scuole, scrivevo, l'unico insegnamento che conviene accoppiare alla storia è la geografia. Chissà che non avessi ragione. 
Le ragazze delle magistrali, poi, erano state per me una grande e piacevole sorpresa. In maggioranza, d'origine mezzadrile, venivano dal contado (della città o di centri vicini): in molti casi appartenevano alla prima generazione la cui scolarizzazione andasse oltre lo stretto obbligo. Vivevano perciò la scuola come una conquista e le riconoscevano importanza; ad essa chiedevano e davano molto più che nei licei. Non è che fossero tutte bravissime: con il latino, lingua morta, non mancavano problemi (e così con la matematica e le sue astrazioni); ma si capiva che venivano con piacere.
Il fatto che io fossi comunista all'istituto magistrale non mi creava problemi tra gli studenti e le loro famiglie. Le ragazze avevano in gran numero genitori che erano elettori comunisti o addirittura tesserati; e anche quelle con genitori anticomunisti (di chiesa, per esempio, o bottegai) venivano da ceti popolari e non mi guardavano come una bestia rara o come un corruttore. Tanto più che io ci tenevo a rispettare rigorosamente le regole non scritte del mestiere per cui cercavo di educare lo spirito critico degli alunni anche contro le mie idee e convinzioni, cosa che si notava e veniva riferita anche in famiglia.
Accadde mentre insegnavo in quella scuola che Occhetto lanciasse la svolta della Bolognina, col progetto di cambiare nome e fisionomia ideale al partito di cui era segretario. Io fui tra quelli che si opponevano alla trasformazione del Pci in Pds e, poiché queste posizioni presenti ampiamente tra gli iscritti erano sottorappresentate tra dirigenti e funzionari, mi trovai ad essere in Umbria uno dei capi della "mozione due" e, dopo lo scioglimento del Pci nel gennaio 1991, del movimento per la rifondazione comunista non ancora strutturato in partito. Succedeva così che mi chiamassero nelle Tv locali ad esporre le ragioni della fedeltà alla falce e martello.
Una mattina, a lezione finita, mentre infilavo in borsa libri e registro, una ragazza si avvicinò alla cattedra. Succedeva, il più delle volte per un chiarimento, una informazione o un consiglio di lettura. Invece questa mi disse: “L'ho vista ieri in televisione, a parlare per i comunisti”. Sembrava contenta della cosa. Un'altra intanto s'era avvicinata alla cattedra e aveva sentito. Perciò mi chiese: “Pds?”. L'altra replicò: "No, comunista comunista”.
Dopo tanti anni questa caratterizzazione della mia identità politica mi piace sempre di più.   

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