23.4.15

Platone e il buffone (Iris Murdoch)

La casa editrice Sugaco pubblicò nel 1981 Il fuoco e il sole - Perché Platone condannò gli artisti di Iris Murdoch. Il quotidiano “la Repubblica” anticipò le pagine che qui riprendo. (S.L.L.)
Il busto di Platone in Vaticano
Collezione pio-clementina
Sarà bene confrontare la concezione di Platone, così come viene espressa nel Filebo con quelle di due altri grandi puritani, Tolstoj e Kant. Come quella di Platone, la loro paura nei confronti dell'arte è in certa misura una paura nei confronti del piacere. Secondo Tolstoj l'arte dovrebbe definirsi non attraverso il piacere che procura, ma attraverso lo scopo cui serve. La bellezza è connessa al piacere, l'arte è propriamente connessa alla religione, dato che la sua funzione è quella di comunicare i più alti sentimenti religiosi del tempo. Il genere di arte che Tolstoj trovava particolarmente detestabile (e che criticava apertamente, definendola «roba senza capo né coda»), l'interiorizzante «arte per l'arte» dei «tardoromantici» (Baudelaire, Mallarmé, Verlaine), è volutamente oscura e «i sentimenti che il poeta trasmette sono deteriori». Tolstoj condannava anche Shakespeare per mancanza di chiarezza i morale. L'arte elaborata tende a divenire una sorta di menzogna.
Tolstoj concorderebbe con il Filebo: l'intensità e l'accesso non hanno relazione con la verità. Le teorie estetiche accademiche sono pericolose perché presentano l'arte come una qualche sorta di complesso ed elevato mistero. Ma non c'è alcun mistero. Purezza, semplicità, sincerità, e assenza di ogni pretesa o presunzione sono i caratteri dell' arte autentica, e tale arte viene universalmente compresa, proprio come le leggende popolari e le storie morali. La gente comune sa istintivamente che l'arte si degrada se non conserva la sua semplicità.
In base a questi criteri Tolstoj era dispostissimo a sconfessare quasi tutta la sua opera (salvava solo Il prigioniero del Caucaso e Dio vede e provvede). Tolstoj detestava in modo particolare l'opera lirica. Anche Platone l'avrebbe detestata. L'arte complessa o «grande» ci colpisce in un modo che non comprendiamo, e anche 1'artista non comprende la propria attività, come nota Socrate con particolare interesse nell'Apologia e con tono beffardo nello Ione.
Sia Platone sia Kant, essendo entrambi ben consapevoli dello spaventoso e subdolo egoismo dell'anima umana, sono ansiosi di edificare delle barriere metafisiche che interrompano certi battuti sentieri verso la depravazione, e di salvaguardare certe idee che sono desiderose di mescolarvisi. La quasi fanatica insistenza di Kant a riguardo della più rigorosa sincerità ha in Platone il proprio corrispondente, in certa misura offuscato dal suo scaltro tono scherzoso. Platone vuole separare l'arte dalla bellezza, poiché egli considera la bellezza una cosa troppo seria per lasciare che se ne occupi l'arte.
Come tutti i puritani Piatone detesta il teatro. Il teatro è la grande dimora della volgarità: buffonate dozzinali, emozioni istrionesche, battute calunniose come quelle di Aristofane dirette contro Socrate. Il buon gusto è scacciato da una spettacolarità alla moda, da orribili effetti sonori naturalistici, e dalla rauca partecipazione del pubblico. Ci viene detto nel Filebo che lo spettatore prova emozioni impure, piaceri avvilenti, e le delizie del ridicolo, che è una specie di vizio, in opposizione diretta al precetto Delfico, e tale piacere impuro è caratteristico non solo del teatro ma «dell'intera tragedia e commedia della vita». Anche nelle Leggi il nostro spensierato divertimento teatrale è paragonato alla tolleranza dell'uomo che solo scherzosamente critica i costumi dei malvagi fra i quali si trova a vivere. Il serio e l'assurdo debbono essere appresi insieme, ma le ridicole buffonate teatrali sono fatte solo per gli stranieri e gli schiavi: la virtù non è comica.
Nelle Leggi, un trattato che descrive una società assolutamente stabile, Platone rivolge alle arti quell'elogio (ed è un elogio) che esse ricevono oggi in Europa Orientale. L'impiego didattico dell'arte è analizzato in dettaglio, anche sui giochi dei bambini occorre esercitare un controllo. La musica e il canto debbono essere di carattere sacro e resi immutabili, come in Egitto, dove i dipinti e le sculture di diecimila anni fa non sono né migliori né peggiori di quelle di oggi. Il più importante cittadino nello Stato sarebbe il ministro della Pubblica istruzione. Le Muse e gli dei del gioco e della gara presterebbero il loro aiuto alla paura, alla legge, e alla retta ragione, e la cittadinanza verrebbe «costretta a cantare volentieri». La gente dovrebbe essere educata sin dai primi anni a gioire solo dei piaceri sani, e i poeti verrebbero costretti a spiegare che l'uomo giusto è sempre felice. Il miglior paradigma letterario che lo scrittore possa avere (qui c'è una risonanza kafkiana) è il libro stesso delle Leggi.


“la Repubblica”, ritaglio senza data, ma 1981

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