29.4.15

“Il re cascò per terra”. La principessa di Prussia racconta (Lucio Villari)

Accade, seppur raramente, che il lettore di un libro avverta, man mano che procede nella lettura, un vago disagio, la sensazione di essere ingannato, accerchiato da una specie di divertita congiura, da un accordo involontario creatosi tra il testo e l'editore ner confonderlo. E' quanto mi è .successo leggendo le memorie di Federica Sofia Guglielmina margravia di Bareith, che raccontano della vita di Corte in Germania dal 1706 al 1742. L'opera è pubblicata da Sellerio, nella collana «La memoria», con il titolo Il rosso e il rosa (traduzione di Alfonso Zaccaria, pagg. 241, lire 6.000).
E' un'edizione acrobatica, nel senso che l'editore ce la mette tutta per sfuggire al lettore e per disorientarlo. E diciamo perché: la traduzione è condotta su un testo francese indicato in calce senza indicazione di data e di luogo di stampa. Ora, è difficile credere che le memorie siano state scritte in francese; e, comunque, l'edizione francese deve essere ottocentesca, poiché la principessa è chiamata, nel titolo francese, margravia di Bayreuth, il nome, appunto, ottocentesco di Bareith. D'altro canto in una nota finale alla presente edizione, dovuta a Alberto Savinio (scritta quando? dove?), si parla di una edizione tedesca del 1910, un «grosso» volume di «seicento pagine fitte».

Militarismo e omosessualità
Ecco allora un doppio salto mortale: per passare dalle seicento pagine fitte alle duecentododici attuali di un volume formato tascabile (o ottavo piccolo) si sono dovuti operare tagli vistosi. Ma quanto è stato tagliato di queste memorie? E, soprattutto, dove sono avvenuti i tagli? Nel volume non c'è traccia di quei preziosi puntini sospensivi tra parentesi che sono, insieme, un segno tipografico e filologico. Nel risvolto di copertina si accenna a una «ampia scelta», ma senza ulteriori informazioni e spiegazioni che, in casi del genere, sono invece sempre obbligatorie. Si tratta di «forme» editoriali che, in altre occasioni, lo stesso editore Sellerio ha pure rispettato; esse servono a fare di un libro un testo di studio e di consultazione.
Terzo salto mortale, infine, con il titolo. Il rosso e il rosa starebbe a significare, secondo l'editore, «il rosso di un militarismo che arriva alla bestialità, il rosa dell'omosessualità che in quel bestiale rigore trasporre». Ebbene, nelle memorie di Sofia Guglielmina, del militarismo prussiano (suo padre. Federico Guglielmo I, era chiamato il «re sergente») c'è solo qualche traccia; del «rosa», poi, nemmeno l'ombra. Ma è questo rosa (inesistente) che, secondo l'editore, può, «col senno di poi, riportare alla Germania di Adolfo Hitler». A questo punto, il trapezista, e il lettore, perdono l'appiglio.
Non resta allora che affidarsi, fiduciosi, alle memorie di questa singolare principessa e sperare in una miglior fortuna. Sofia Guglielmina descrive molto bene l'ambiente e il clima familiare in cui è cresciuta. Le violenze che lei e il fratello (il futuro sovrano illuminista Federico II, il Grande) hanno dovuto subire da un padre nevrotico, malato di gotta, autoritario, corrispondono effettivamente al ritratto storico del personaggio. Costui non aveva niente della dolcezza e delle eleganze settecentesche di altri sovrani europei. Era rozzo e brutale; nei momenti d'ira o di malumore scagliava le grucce sulla figlia, sputava nel suo piatto e la picchiava. Odiava il principe ereditario al punto da chiederne l'esecuzione capitale quando il giovane Federico, non sopportando più le ingiurie paterne, si diede alla fuga insieme con un suo amico. Federico fu salvato a stento, per intercessione dei consiglieri del re; ma l'amico fu decapitato davanti ai suoi occhi. Certamente anche questo tragico episodio farà poi di Federico II un sovrano contraddittorio, scisso in una doppia personalità: l'intellettuale illuminato, il musicista, lo scrittore, e insieme il guerrafondaio provocatore e il militarista che conosciamo. Ma qui siamo fuori delle memorie di Sofia Guglielmina, che terminano proprio nel momento in cui inizia il regno del fratello (Federico II salì al trono nel 1740).
Di un'altra violenza è però testimone e narratrice Sofia Guglielmina. E' la violenza della malattia e del disfacimento dei corpi. Qui il Settecento privato, segreto, «sanitario», esplode (non lo si è visto anche nelle lettere di Mozart?) in una luce per qualche aspetto inedita. Di collassi, svenimenti, convulsioni, dissenterie, vaiolo, cancrene, fistole, flussioni, insomma di «presenze» del corpo sono piene queste memorie. E un libro sanguinoso, ma più che altro per i salassi e le emorragie.
Si sa quali erano le condizioni igieniche in quel secolo e come la medicina fronteggiasse a stento, o per nulla, le malattie. Tuttavia si ha l'impressione che la fantasia sbrigliata e il gusto fanciullesco per 1'orrido guidino spesso la mano della principessa. E necessario, infatti, non prendere per oro colato tutto quello che lei racconta. Agli occhi di una ragazza, turbata da difficoltà familiari, certe manifestazioni di malattia non potevano non assumere aspetti ancor più drammatici e ripugnanti. Leggendo il libro si ha quindi il sospetto che talvolta Sofia Guglielmina deformi la realtà. D'altronde lei stessa non esclude che siano labili, nella sua mente, i confini tra il reale e il fantastico. In una pagina delle memorie dice, improvvisamente: «Scrivo solo per divertirmi e mi compiaccio di non occultare i miei più segreti pensieri». Quanta verità c'è nella «segretezza» di questi pensieri?

Pupazzo disarticolato
C'è una divertita impertinenza, infatti, nel modo in cui Sofia Guglielmina descrive, ad esempio, le visite di Stato compiute a Berlino, in occasioni diverse, dallo zar Pietro il Grande, dal re di Polonia e dal re d'Inghilterra. Del gigantesco zar racconta, comicamente, di un attacco di convulsioni che lo colpisce, trasformandolo in un disarticolato pupazzo, durante il pranzo ufficiale. Insiste con il re d'Inghilterra che, sempre durante un pranzo di gala, si sente male e comincia a barcollare («cadde sui ginocchi, la parrucca da un lato e il cappello dall'altro»). Del re di Polonia le piace poi descrivere gli stravizi e la inestinguibile passione per le belle donne («... le sue amanti gli avevano dato trecentocinquantaquattro figli») e parlare di lui, in visita a Berlino, come di un uomo affascinante, ma «mal ridotto», con una cancrena al piede, salvato solo grazie all'amputazione di due dita («la piaga era ancora aperta e lui soffriva indicibilmente»).
Detto questo, le memorie di Sofia Guglielmina sono di piacevolissima lettura e, a suo tempo, saranno state certamente un antidoto prezioso per quanti immaginavano il Settecento e la vita di Corte nella prima metà del secolo secondo una rappresentazione, affabile e di maniera (alla Meissonnier o alla Mariano Fortuny, per intenderci), che è stata dura a morire. Anche nelle spiritose invenzioni di Sofia Guglielmina c'è però il segno del mutamento dei tempi. La cultura dell'illuminismo, fatta anche di irriverenza, di ironia, di lucidità e di follia ha lambito certo la principessa prussiana che, nel turbinare dei ricordi, non risparmia se stessa (si vedano le pagine, in allegro moderato, del suo arrivo, novella sposa, al palazzo del margravio di Bareith; una casa sbilenca, dissestata e povera e il suocero — tanto per cambiare — con un tumore alla bocca), né il suo amato fratello Federico, la cui fidanzata non è per nulla risparmiata (graziosa sì, ma antipatica e «sfigurata dai denti, neri e irregolari»).

Che non cominci anche da queste insidiose ed esagerate memorie la fine dell'Ancien Regime?

"la Repubblica", ritaglio senza data, ma 1982

Nessun commento:

statistiche