12.4.15

Carlos Fuentes, la sovversione barocca (Guy Scarpetta)

Nel 2013, a un anno dalla scomparsa Guy Scarpetta propose un bilancio dell'opera di Carlos Fuentes in grado di andare al di là dell’immagine ingentilita che talora si dà dello scrittore messicano. Non è male rileggerlo. (S.L.L.)
Carlos Fuentes
La questione è nota: ciò che qualifica i grandi romanzi è la capacità di produrre effetti di verità che sfuggono a tutti gli altri sistemi di rappresentazione e di interpretazione; di rivelare una parte dell’esperienza umana a cui solo l’arte del romanzo permette di accedere. Questa era la tesi di Hermann Broch, sviluppata oggi da Milan Kundera, e che Carlos Fuentes, dal canto suo, non ha cessato di riprendere e di amplificare.
E infatti, se si vuole comprendere, per esempio, qualcosa del Messico (dei suoi paradossi, delle sue ambiguità, della sua violenza fondatrice nascosta e sempre presente, della sua memoria plurale e ingarbugliata), più dei discorsi storici, filosofici, politici e sociologici, vale la pena leggere romanzi come L’ombelico della luna, La morte di Artemio Cruz, Cristóbal Nonato e La frontera de cristal...
Quando Fuentes ha cominciato a scrivere, i giovani scrittori dell’America latina erano per così dire obbligati a scegliere il proprio campo: ci si doveva schierare per il realismo o per l’immaginario e il fantastico: per l’ancoraggio alla realtà nazionale o per l’apertura cosmopolita; per la letteratura impegnata o per le pure ricerche formali. Alcuni intorno a lui (il colombiano Gabriel García Márquez, l’argentino Julio Cortázar, il peruviano Mario Vargas Llosa, il cubano José Lezama Lima) decisero di non scegliere, di iniziare a superare queste antinomie immobilizzate, e di riconciliare ciò che la doxa si ostinava a contrapporre, Questo è stato definito il boom del romanzo latinoamericano – in realtà, probabilmente il più prodigioso rinnovamento dell’arte del romanzo che si sia sviluppato nella seconda metà del XX secolo.
Di questo movimento, Fuentes fu in qualche modo il federatore, e in larga parte il teorico. Tuttavia, non si trattava di una scuola: ciascuno di questi romanzieri, aldilà di ciò che li riuniva, resta irriducibilmente unico. Quanto a Fuentes, ciò che lo distingue è il fatto di essere indubbiamente il più balzachiano di tutti, non perché egli si sottoponesse a un codice di rappresentazione convenzionale, ereditato dal secolo precedente (egli avrebbe piuttosto teso a fare andare in frantumi tale codice), ma nel senso che ha avuto l’ambizione incessante, nel cuore stesso della più sfrenata immaginazione, di dipingere l’implacabile ritratto di una società.
Qualche capolavoro da eleggere, nel mezzo di una produzione sovrabbondante? L’ombelico della luna e La morte di Artemio Cruz, due romanzi magistrali, capaci di abbracciare, attraverso la pluralità di voci e di visioni, l’intera genesi contradditoria e violenta del Messico contemporaneo, o ancora Cristóbal Nonato, parossistica antiutopia in cui lo stesso Messico è proiettato in un’Apocalisse carnevalesca, un «turbine di ilarità e orrore» (per riprendere la formula di Stéphane Mallarmé) capace di farne emergere la parte oscura molto meglio di tutti i racconti realisti.
L’apice della sua opera? Certamente Terra Nostra, il «mostro» di un migliaio di pagine in cui un messicano del XX secolo sogna la Spagna di un tempo così come la Spagna stessa aveva sognato il Nuovo mondo; e in cui la Spagna, di colpo, nel 1975, sul punto di risvegliarsi dall’incubo franchista, riceve in pieno viso il romanzo sulla sua verità, ovvero sia sul suo mito originario che sulla dislocazione di questo. Siamo contemporaneamente in numerosi luoghi e in numerose epoche, i personaggi si trasformano e si reincarnano, la storia è fantasticata, trasfigurata; le figure storiche reali si mescolano a quelle del romanzo e del mito (la Celestina, Don Juan), gli incantesimi e i malefici proliferano; il fanatico desiderio di ortodossia del personaggio centrale, il Monarca, la sua ansia di purezza, lo trascinano verso una sorta di religione della morte, mentre attorno a lui turbinano le eresie, i sogni di emancipazione propri dei tempi moderni, e la scoperta del nuovo mondo genera un’autentica commozione, uno strano intreccio di temporalità. L’incrocio che ne risulta resuscita misteriosamente la pluralità rimossa e disconosciuta dello stesso mondo ispanico (la sua triplice origine musulmana, ebrea e cristiana). Nell’insieme, un romanzo sbalorditivo, barocco, sovversivo, in grado di suscitare, grazie ai suoi stessi straripamenti, effetti di lucidità e profondità che nessuno storico toccherà mai.
Aggiungiamo a ciò alcuni saggi fondamentali: El espejo enterrado, summa senza precedenti consacrata alla civiltà latinoamericana, esplorata in tutte le sue dimensioni; Valiente mundo nuevo e Geografia del romanzo in cui Fuentes, attraverso una meditazione critica su alcuni grandi scrittori contemporanei, ci svela in filigrana la sua arte del romanzo. Fuentes nota che il mondo indio (quello di Montezuma, «l’uomo dalla grande voce») e del mondo ispanico (quello, cattolico, dei conquistatori) condividevano in fondo la stessa rigidità dogmatica, generando la medesima tirannia di una verità unica. A ciò, egli oppone l’universo creato dal romanzo, in cui i punti di vista si confrontano e si contraddicono, capace di fare emergere il non detto e il rimosso delle verità ufficiali: un universo nel quale «nessuna voce e nessuna persona detiene il monopolio della verità»; «il romanzo, non soltanto come luogo di incontri di personaggi, ma come spazio di incontro di linguaggi, di tempi storici differenti e di civiltà che non avrebbero senza di esso alcuna chance di entrare in relazione».
La conquista ispanica del Nuovo mondo fu sanguinosa e distruttrice? Si, ma ne è nata una civiltà meticcia, vivace, ricca della sua diversità. Le società precolombiane sono state annientate? Si, ma l’immaginario indio è passato nella lingua dei vincitori, come quelle chiese messicane in cui il paradiso degli indigeni si muove nell’iconografia cattolica imposta. Gli abbondanti romanzi di Fuentes, in fondo, non hanno cessato di incarnare tutto questo.
Era sufficiente frequentare Fuentes per un po’ di tempo per riuscirne talvolta a percepire, al di là dell’immagine ufficiale che egli poteva dare di se stesso (quella di uno scrittore controllato, educato, «diplomatico», lucido, ipercolto, cosmopolita, dalla logica intellettuale abbagliante), il sorgere fugace, quasi a sua insaputa, di qualcosa di molto più enigmatico, oscuro, selvaggio e irrazionale. Si poteva pensare che fosse esattamente il suo immaginario indio a trasparire così, in qualche istante di abbandono.
Gli intellettuali più radicali, in America latina, gli hanno talvolta potuto rimproverare le sue posizioni troppo saggiamente socialdemocratiche, la sua ammirazione eccessiva per dirigenti come Felipe González, François Mitterrand e William Clinton, per non parlare dell’antipatia più recentemente dimostrata verso Hugo Chávez… Tali rimproveri possono essere giustificati; resta il fatto che sarebbe comunque assurdo ridurlo a questo. Chi penserebbe di ridurre Gustave Flaubert alla sua allergia per il suffragio universale? O Victor Hugo alla sua incomprensione della Comune di Parigi? Ricordiamo che Fuentes, tuttavia, non ha mai cessato di denunciare l’imperialismo degli Stati Uniti e la dominazione imposta all’America latina. Non fu tra coloro, numerosi, che sono scivolati dalla legittima critica antitotalitaria all’accettazione dell’ordine mondiale esistente; questo è stato anche il senso profondo della sua rottura con Vargas Llosa e della sua leggendaria polemica con Octavio Paz.
Ma l’elemento essenziale dell’apporto politico di Fuentes è evidentemente altrove: nei suoi stessi romanzi. Non perché essi sarebbero sottomessi a una tesi, ma perché la visione che danno della società permette di rendere chiare esperienze umane misconosciute, ignorate dalle concezioni strettamente politiche del mondo; cosa che faceva supporre uno sguardo critico senza concessioni sulle ingiustizie, sugli abusi di potere, sulle disuguaglianze, una costante attenzione verso gli esclusi e i paria della sua nazione, a cominciare dalle popolazioni indigene.
Fuentes scriveva che «la letteratura è necessaria alla politica quando dà voce a chi non ne ha.» Una delle grandi funzioni del romanzo consiste nel «dare la parola ai muti e un nome agli anonimi.» La maggior parte dei messicani, osservava, figli degli spagnoli e degli indios, si identifica spontaneamente, nella mitologia, con i secondi; cosa che non impedisce loro di essere indifferenti alle sorti degli indigeni reali che vivono tra loro… Uno dei documenti politici più appassionanti di questo tempo potrebbe essere, tutto sommato, la sua conversazione epistolare, sul tema, con il subcomandante Marcos. Per il resto, ancora una volta, è sufficiente leggere i suoi romanzi: non vi è stato nessun altro scrittore, nel XX secolo, così vicino al suo popolo.
Ma soprattutto è necessario vedere in Fuentes un vero militante del romanzo. Come se il romanzo, per lui, fosse una causa da difendere. Un’arte la cui visione è così eterodossa, nel nostro mondo sottomesso alla dittatura combinata dello spettacolo e del mercato, che merita che ci si batta per essa. Da qui la sorprendente rete di solidarietà che Fuentes ha saputo tessere intorno a sé, le sue relazioni con la maggior parte dei veri romanzieri contemporanei in tutti i paesi. Una sorta di connivenza a distanza, che ignora le frontiere, l’internazionale segreta di tutti coloro che sanno che il romanzo è molto più di un genere letterario tra gli altri: piuttosto un’indispensabile istanza di resistenza alle visioni dominanti. È indubbiamente qui che Fuentes ha potuto dispiegare una qualità poco diffusa, in generale, negli ambienti letterari convenzionali: quella di essere eccezionalmente fraterno.


“Le Monde diplomatique – il manifesto” Luglio 2013 - Traduzione di Al. Ma.

1 commento:

geo vasile ha detto...

ineccepibile ed esauriente questo studio sul grande autore messicano di Guy Scarpetta in chiave della sovversione barocca, un remember dell'opera e della personalità di Carlos Fuentes, utile tanto agli studenti che agli studiosi della generazione d'oro di prosatori offerta dall'America Latina a partire dall'impareggiabil Ernesto Sabato a Gabriel Garcia Marquez fino alla ancora giovane Laura Restrepo

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