16.4.15

Collezione Acchiappati. Lettere dall'Ottocento (Maria Corti)

A partire dal Quattrocento sino ai primi decenni del Novecento gli scrittori italiani hanno spedito per le vie della penisola lettere in tal numero che si è parlato addirittura di una civiltà epistolare italiana, oggi purtroppo minacciata di morte dal telefono. Eppure questo tipo di comunicazione e conversazione, avviata nella tranquillità e nell'agio del proprio tavolo di lavoro, apparteneva alle virtù di una civiltà compiuta: si pensi agli epistolari rinascimentali. La riflessione viene a proposito per il nuovo stimolantissimo volume della «Raccolta foscoliana Acchiappati», dal titolo Lettere autografe e manoscritti di contemporanei (Cordani, pagg. 188,s.p.).
Sulla “Repubblica” del 15 maggio di quest'anno si è parlato del primo volume di questa Raccolta del collezionista Acchiappati e della figura così meritevole del Direttore Sanitario dell'Istituto Ortopedico Gaetano Pini di Milano, che ha trascorso buona parte della sua vita a collezionare tutto ciò che in qualche modo potesse riguardare il Foscolo e a postillarlo accuratamente. Se il primo volume è di particolare pregio in quanto raccoglie ben cinquantasette testi foscoliani (di cui quindici seno lettere inedite in assoluto), questo secondo non è da meno: contiene infatti settantotto lettere autografe di vari illustri contemporanei del Foscolo: da Ippolito Pindemonte a Melchiorre Gioia, a Gian Giacomo Trivulzio, a Giovanni Battista Niccolini, Silvio Pellico, Carlo Porta, e poi Monti, Giordani, Tommaseo, Bettoni, Rosini, la contessa Luisa Stolberg d'Albany, Isabella Teotochi Albrizzi e via di seguito, per non dire di Napoleone, Mazzini, Garibaldi e vari stranieri amici del Foscolo.
Come nell'altro volume, Gianfranco Acchiappati in veste di curatore fornisce per ogni lettera spiegazioni contestuali e notizie preziose: se ne può dedurre che questo epistolario ottocentesco è stato raccolto ai fini di portare luce al grande protagonista assente, il Foscolo. Non vi sono infatti in esso missive indirizzate a Ugo Foscolo, salvo una di Francesco Chiarenti del 1801 di argomento militare, con l'intestazione: «Al cittadino Foscolo Capitano aggiunto al G. Pino» (cioè al generale di divisione Domenico Pino, giacobino amico del Foscolo). Vi sono bensì lettere che hanno per oggetto il Foscolo, oppure che illuminano il contesto storico in cui si mosse il poeta, le sue amicizie e inimicizie.
Eccone qualcuna del primo gruppo. Nel 1810 Niccolini, scrivendo al Valeriani, giurista e letterato veneziano, che gli ha trasmesso i saluti del Foscolo, chiede notizie del poeta rammaricandosi del suo silenzio. La lettera tuttavia maggiormente interessa per la condanna della traduzione omerica del Cesarotti, cui è contrapposta quella lodata, del Monti. Mazzini da Londra invia nel 1837 uno scritto in inglese a Thomas Dixon, che ci sollecita per due ragioni: perché Mazzini ringrazia di aver ricevuto gli Essays on Petrarch del Foscolo, esemplare dell'edizione londinese del 1823. e perché dichiara di non voler più vedere Silvio Pellico, reo di troppa remissività verso gli austriaci. E giacché siamo coi grandi nomi della storia d'Italia, si può ricordare Garibaldi: da Caprera nel 1864 egli risponde alla duchessa di Sutherland che gli ha scritto (la lettera è utilmente riprodotta nei punti essenziali dell'Acchiappati) di essere andata a visitare la tomba del Foscolo, di averne ammirato la «grande semplicità» e inoltre di aver ricevuto una missiva del signor Gurney, un ottantenne che conobbe il Foscolo e lo considerò «la persona più eloquente che mai abbia conosciuto». Orbene Garibaldi, al suo solito piuttosto enfatico, domanda alla duchessa: «Non ricordò nella sua visita a Foscolo — quei bei versi "Celeste, è questa corrispondenza d'amorosi sensi?" Celeste dote di un cuor ben fatto veramente — il porger omaggio ai grandi che furono».
Quanto alla tomba del Foscolo a Chiswick e al successivo trasporto delle sue ceneri a Firenze in Santa Croce nel 1871, vi è qualche lettera sull'argomento: dell'Aleardi al sindaco di Firenze Ubaldino Peruzzi, del Boccardo al principe Corsini, presidente del Comitato appositamente istituito.
Interessante anche una lettera di Giulio Foscolo, fratello minore di Ugo, dalla Moravia, scritta nel 1827 tre mesi dopo la morte del poeta e diretta al nipote Pasquale Rocco Molena, figlio della sorella Rubina. Sulla sorte tragica di vari membri della famiglia Foscolo il postillatore Acchiappati giustamente insiste con dati puntuali, quindi proficui: questo Giulio, mittente della lettera, finirà suicida da tenente colonnello dell'esercito austriaco nel 1838, come era finito l'altro fratello Giovanni Dionigi, tenente ventenne nel 1801; il primo con un colpo di pistola, il secondo con autopugnalata al cuore: segrete avventure di un destino familiare alquanto sconvolgente.
Nella lettera qui edita, Giulio Foscolo dice di accludere al plico notizie su Ugo che devono essere «inserite nel foglio di Venezia tali e quali le spedisco»; da una sorta di poscritto si apprende che le notizie riguardano le origini nobiliari della famiglia, l'ascendenza greca per parte di madre, mentre «da parte di Padre siamo Italianissimi, cosa di cui anche le altre famiglie Foscolo sono con noi d'accordo»; si accenna infine al povero zio paterno Marco Foscolo, medico in Dalmazia, che possedeva l'albero genealogico della famiglia. Anche in questa lettera di Giulio, come in altre dei membri della famiglia, si riscontra un tono qua e là eccitato, fra l'offeso e l'iracondo, che doveva essere un po' una marca familiare.
C'è poi una curiosa lettera in francese di Silvio Pellico all'abate L. Dagatte del 1842, da cui si apprende che al povero Pellico è successo come a Monica Vitti, è stato dato per morto in Francia; egli ringranzia del De Profundis e dei Memento e informa di essere ancora vivo, anche se così sofferente da considerarsi prossimo alla fine. Il lungo carcere lo ha profondamente segnato e ormai nulla rimane Hel Pellico a cui era indirizzata la festosa lettera del Foscolo pubblicata nel numero citato della “Repubblica”.
Forse la lettera autografa in sé più bella dell'epistolario è quella del poeta milanese Carlo Porta all'amico Tommaso Grossi, datata 19 luglio 1817, spiritosa, vivacissima e ricca di motivi. Essa è stata edita da Dante Isella (in Le lettere di Carlo Porta e degli amici della Cameretta, Ricciardi 1967, n. 154) non sull'autografo allora irragiungibile, ma sulla trascrizione del Salvioni. L'autografo offre qualche significativa lezione diversa, ma non è questa la sede per segnalarla.
Come si sa, il Porta era cassiere generale presso l'Imperial Regio Monte Lombardo-Veneto; vediamolo al lavoro: «Anche oggi scrivo nel mio modo solito, nel tiretto cioè del mio bancone di Ufficio, e tratto tratto conviene che lasci la penna per servire i bravi, e buoni reverendoni della campagna, che vengono a truppe a riscuotere le loro congrue, ed i redditi de lor benefici». Poi descrive una salita sul Duomo fino all'ultima loggia, da dove guarda verso Treviglio, dove l'amico Grossi è in villeggiatura. Ma il dato più curioso, e non si sa fino a che punto ludico, è il seguente: «Io non mi sono mai accorto di essere poeta morale, e ciò sarà forse uno di que' doni d'Iddio che ci entrano in corpo per afflato, e di cui si si trova al possesso senza avvedersene. Per dir meglio io sono il Bue che non conosce la propria forza». Non si può chiudere questa panoramica senza ricordare almeno le lettere di due particolari ambienti. Uno è quello dell'editoria, così viva nel Nord allora. Lettere dell'Arici all'editore Stella, del prestigioso stampatore Nicolo Bettoni a Giovanni Gherardini perché collabori al giornale “L'Ape”, dello stampatore parmigiano Luigi Mussi all'editore Stella (lettera da cui si rileva che il problema del numero di copie di stampare e delle vendite era già di attualità). Agli storici invece interesserà in particolare un insieme di documenti quali sono le lettere del generale Pietro Teulié a Carlo Innocenzo Porro dal 1803 al 1807.
Un ultimo cenno a tre lettere del Cesarotti a Tommaso Ulivi sulla tragedia Tieste del Foscolo, data a Venezia e stampata nel 1797. Le tre lettere sono datate al secolo XVIII: risultano cioè fra le più antiche dell'epistolario, insieme a una di Pietro Moscati, una del Pindemonte e un'altra della Teotochi Albrizzi. Nel chiudere il volume si ha la sensazione di aver percorso le strade di un'epoca lontana, quando le più tenui circostanze o i drammi delle varie vite avevano un valore ormai oggi incongetturabile, dimenticato.


“la Repubblica”, 28 luglio 1988

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