27.10.10

Antimafia. Impastato, Gatì, Saviano, Santino: a ciascuno il suo.

Ho già “postato” qui un pezzo su Giuseppe Gatì, un mio compaesano di cui vado fiero, il giovane che aveva coraggiosamente contestato Sgarbi in una sua “uscita” agrigentina sul finire del 2008.
Morì qualche settimana dopo in un incidente sul lavoro. http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/02/giuseppe-gati-un-mio-compaesano-di-cui.html)
Oggi mi ha commosso il vederlo ricordato da "L'altra Agrigento", un giornale agrigentino on line, che ne rievoca la morte, ma anche la scelta umana e politica: ne ricorda cioè la volontà di non andare via, di restare in Sicilia a combattere per il riscatto civile ed economico della propria terra contro le mafie, l’affarismo politico, il clientelismo.
(http://www.laltraagrigento.it/index.phpoption=com_content&view=article&id=1382%3Alultimo-scritto-di-giuseppe-gati-il-giovane-che-contesto-sgarbi-ad-agrigento&catid=39%3Aspeciali&Itemid=488).
Nel post si può leggere anche uno scritto di Gatì, presentato come l’ultimo della sua bella vita, una sorta di lettera a Peppino Impastato, il militante comunista rivoluzionario assassinato a Cinisi da Cosa Nostra, di cui, con le armi dell’impegno politico-sociale e della controinformazione, aveva denunciato i traffici, gli affari e i legami con la Democrazia Cristiana, partito che al tempo governava l’Italia, la Sicilia e il Palermitano.
Questa lettera ha di molto intensificato la mia commozione: di Peppino sono stato amico fraterno e compagno di lotta per un periodo breve, ma nel tempo delle grandi passioni e delle grandi speranze.
Una sola cosa un po’ mi amareggia (ma non mi sorprende del tutto): Giuseppe Gatì si rivolge a Impastato come se fosse soltanto o soprattutto un militante antimafia. Chi lo ha conosciuto e gli è stato vicino sa che così non è: la violenza mafiosa e criminale per Peppino, marxista e comunista, era manifestazione estrema della società capitalistica e la sua lotta alla mafia non era affatto tesa al ristabilimento della legalità “borghese”, a un mercato regolato senza pizzo o concorrenza sleale, a un capitalismo buono, ma piuttosto alla realizzazione di una società senza proprietà privata dei mezzi di produzione e senza sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Non casualmente egli riteneva che la forza principale dell’antimafia non fossero i magistrati e i poliziotti dello “Stato borghese”, utili ma del tutto insufficienti, ma i grandi movimenti sociali e culturali, i contadini, gli operai, gli studenti, l’intellettualità diffusa: a loro si rivolgeva con le sue denunce, non ai carabinieri o ai procuratori.
I cento passi di Marco Tullio Giordana sono un film che ha molto contribuito a far conoscere alle nuove generazioni la figura e la ricca personalità di Peppino. E' opera meritoria per tanti aspetti: la denuncia rigorosa dei depistaggi che coinvolsero organi dello Stato, per esempio. E tuttavia in quel film il comunismo, ch’era un aspetto fondamentale del modo di pensare e vivere del giovane Impastato, è poco più che uno sfondo e l’immagine che il film comunica della sua ribellione mi pare perciò monca di un elemento importante, quasi fondante.
Non credo che questa rimozione sia consapevole e intenzionale: essa è frutto di un tempo in cui sia la critica radicale del capitalismo che l’idea socialista e comunista di una società senza classi sembrano ormai, anche a sinistra, anacronistiche e improponibili. Viene anche da quel film, per tanti aspetti valido, l’immagine un po’ riduttiva di Peppino Impastato come un eroe della “legalità” e di un’antimafia senza aggettivi, passata tra i giovani, non escluso Giuseppe Gatì.
E invece l’antimafia di Impastato era accompagnata da aggettivi forti: antimafia sociale, antimafia rivoluzionaria. M’è capitato di scrivere di ciò in aprile su “micropolis” e a quel mio articolo, postato in questo blog, rimando.
(http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/04/comunista-patentato-da-micropolis.html).
Non nutro alcuna volontà polemica, in ogni caso, contro l’antimafia “borghese”, “militare” e “religiosa”, quella di magistrati, poliziotti, carabinieri, imprenditori, preti, giornalisti etc., che hanno fatto della legalità la loro bandiera e spesso hanno duramente pagato il loro impegno e il loro coraggio, nessuna sottovalutazione. Sono impegnato in “Libera”, punto di convergenza di associazioni e persone che insieme affermano valori e perseguono obiettivi comuni, pur riconoscendosi diversi.
Qui mi preme toccare un’altra questione. Un recente libro di Roberto Saviano, La parola contro la camorra, dedicando qualche pagina a Peppino Impastato ed alla sua storia, ha attribuito al film di Giordana il merito di aver messo fine ai depistaggi e di aver fatto riaprire le indagini. L’affermazione è del tutto inesatta: quando, sul finire del 2000, il film uscì, era già stato incardinato il primo processo sull’omicidio di Cinisi e la Commissione Parlamentare Antimafia aveva già aperto il caso Impastato anche in riferimento ai depistaggi. Erano i risultati di una battaglia che la famiglia di Peppino, i compagni più vicini, il Centro Studi Impastato diretto da Umberto Santino, avevano condotto prima in totale solitudine, poi con scarsi sostegni e appoggi, poi con un riscontro sempre più ampio di opinione pubblica. Si può dire che lo stesso film è frutto di questo diuturno lavoro di informazione.
Saviano ha mostrato nella sua storia professionale e civile coraggio e impegno, ma questa volta la rabbia contro di lui di Santino e del Centro Impastato, con la conseguente richiesta di rettifica, mi pare fattualmente fondata e politicamente giustificata. Credo che si sbaglino di grosso coloro che ad alte grida sui giornali o sulla rete considerano la cosa provincialismo, ricerca di protagonismo e simili.
Ignorare l’impegno dei compagni di Peppino, di coloro che più di tutti ne hanno continuato “l’antimafia sociale” negli studi e nella proposta politica, non è un peccato veniale, una  piccola manifestazione di spocchia e superficialità perdonabile in un grand’uomo come Saviano, ma contribuisce a mantenere in vigore una censura grave quasi quanto il depistaggio. Non si tratta, infatti, solo di rivendicare una battaglia controcorrente, condotta senza battage pubblicitari e senza il sostegno della grande stampa o di grandi formazioni politiche, ma di salvaguardare l’identità stessa di un combattente, il suo onore di comunista, di dare a Peppino ciò che è di Peppino. Non so se un intervento come questo, di un illustre sconosciuto in un blog poco frequentato, possa mai giungere al popolare scrittore, ma, se ciò accadesse, vorrei suggerirgli di sanare la ferita, di rimediare all’errore. Non sarebbe una diminutio capitis, ma un’azione di cui essere orgogliosi in pubblico e in privato.

Il Risorgimento e il "mangia maccheroni" (di Giancarlo Roversi)

Pellegrino Artusi
Che l'Artusi fosse ghiotto di pasta asciutta e ragù lo conferma lui stesso e lo dimostra un curioso aneddoto che egli ci ha tramandato e che gli valse l'appellativo di "mangia maccheroni". Ad appiopparglielo fu Felice Orsini col quale, in compagnia di alcuni studenti, il gastronomo romagnolo si trovò a tavola nel 1850 nella vecchia Osteria dei Tre Re nel Mercato di Mezzo a Bologna. Mentre l'Orsini parlava infervorato agli altri commensali dei suoi programmi rivoluzionari, l'Artusi continuava imperturbato ad assaporare un bel piatto di maccheroni conditi col ragù alla bolognese. In tal modo anche se la causa risorgimentale aveva perso un potenziale adepto, la cultura gastronomica italiana, come poi dimostrarono i fatti, guadagnò uno dei suoi più significativi campioni. 

Da Il ragù di Giancarlo Roversi, in "La Gola" - anno 2  n.4 - febbraio 1983  

Il saporoso condimento. Preistoria del ragù alla bolognese (di Giangarlo Roversi)

Da "La Gola", anno 2 numero 4 del febbraio 1983 riprendo una parte di un gustosissimo articolo di Giancarlo Roversi sul ragù.
C’era una volta il ragù. O meglio, non c’era una volta il ragù. Proprio così perché questo inestimabile ornamento delle pastasciutte si aggira come un fantasma nei vecchi trattati di gastronomia.
Come ricorda la medievalista Gina Fasoli e come hanno ribadito Osvaldo Bevilacqua e Giuseppe Mantovano nel loro brillante libro, appena uscito, Laboratori del gusto, fin dal medioevo varie pietanze erano state elaborate alla stregua di un vero e proprio ragù: un ragù destinato ad essere mangiato così, come piatto a sé. Soltanto più tardi è invalso l’uso di servirsi di tale pietanza per condire le minestre asciutte, soprattutto i maccheroni, come risulta anche da testimonianza di Noddo d’Andrea, riportata da Maria Luisa Incontri Lotteringhi della Stufa (una nobildonna cacciatrice, selezionatrice di razze canine e autrice di due ricche storie della cucina toscana, n.d.r.), che ne indica con precisione gli ingredienti: carne di vitella, cipolla, prezzemolo, sedano, sale, pepe, vino bianco e qualche cucchiaio di brodo.
Per il resto il ragù, lo ripetiamo, rimane una primula rossa. E anche laddove dovrebbe lasciare un chiaro indizio di sé, la sua presenza appare irriconoscibile. Prendiamo, ad esempio, le tagliatelle alla bolognese di cui il ragù è il simbionte per antonomasia. Nel glorioso libro di cucina L’Opera di Bartolomeo Scappi, vanto dell’arte culinaria del secolo XVI, viene fornita (pp.77-78), una dettagliata ricetta per la preparazione di questa classica minestra asciutta… Ma, se andiamo ad analizzare il condimento, ci si accorge che esso non è neppure lontano parente di quello che apprezziamo oggi. Il bravo Scappi ci consiglia infatti di condire le tagliatelle con formaggio, zucchero e cannella. Quelli erano i gusti del tempo, dirà qualcuno. E’ vero. Fatto sta che il nostro ragù rimane dietro le quinte. Anche una veloce scorsa alla letteratura gastronomica italiana del Sei-Settecento non offre sorprese. Le tagliatelle, quando vengono citate, sono sempre ammannite con burro e formaggio o con verdure o con altri ingredienti che nulla hanno a che vedere col sovrano intingolo entrato nelle nostre abitudini.
L’unica rivelazione, è il caso di dire felice, ci è venuta da un inedito ricettario, di prossima pubblicazione, compilato alla fine del Settecento da Alberto Alvisi di Imola, già cuoco del vescovo della sua città, quel Barnaba Chiaramonti che poi salì sul trono pontificio con il nome di Pio VII. Passando in rassegna i piatti preparati per l’illustre prelato, il nostro chef ci sciorina qualla che rappresenta certamente una delle più vecchie ricette del ragù, con molti punti di aggancio a quella odierna.
Ecco gli ingredienti: lardo ben fuso, un’oncia (30 grammi) di burro, cipolla ben pestata, carne di vitello o lombo di maiale e anche, a piacere, “magoni di polli tagliati minuti”. Ed ecco il modo di esecuzione secondo le stesse parole dell’Alvisi: “Si mette tutto nella cazzeruola a fuoco violento a prendere un bel colore carico, aggiungendovi del brodo a poco a poco e un’oncia di farina acciò prenda corpo il ragù, avvertendo che esso non deve essere né troppo lungo né troppo stretto, ma di perfetta cottura e condito con sale, pepe, cannella o qualunque altra droga..  Avvertendo inoltre che per aver maggiore sostanza sarebbe necessario un po’ di selaro (cioè sedano) sicuramente, qualche funghetto tagliato e qualche poco di tartufi”.
A un imolese, cioè a un romagnolo di periferia, si deve quindi ilo merito di aver materializzato il nostro fantasma, il … ragù alla bolognese (Imola è pur sempre in provincia di Bologna). Come ad un altro romagnolo , il celebre Pellegrino Artusi, va il merito della consacrazione:
Per condire 500 gremmi e più di minestra il valente gastronomo del secolo scorso dà questi ingredienti: “carne magra di vitello (meglio se filetto) gr 150; carnesecca gr 50; burro gr.40; un quarto di cipolla; una mezza carota; due costole di sedano bianco lunghe un palmo oppure l’odore del sedano verde; un pizzico di farina, ma scarso assai; un pentolino di brodo; sale pochissimo o punto, a motivo della carnesecca e del brodo che sono saporiti; pepe e, a chi piace, l’odore della noce moscata”.
Per la preparazione l’Artusi scrive di tagliare la carne a piccoli dadi e di tritare finemente con la lunetta la carnesecca, la cipolla, gli odori, mettendo poi tutto al fuoco insieme al burro e aggiungendo un pizzico di farina con l’avvertenza di bagnare col brodo fino a completa cottura. Anche il nostro buongustaio consiglia di rendere “più grato” l’intingolo con l’aggiunta di funghi secchi oppure un fegatino cotto insieme alla carne e poi tagliato a pezzetti o, infine, con un mezzo bicchiere di panna per conferire maggiore delicatezza alla pastasciutta.
Come l’Alvisi, anche l’Artusi non prevede il pomodoro che, d’altra parte, aveva fatto la sua comparsa in cucina soltanto verso la fine del Settecento. Entrambi, poi, abbinano il loro ragù ai maccheroni “alla bolognese”. Ma maccheroni o tagliatelle poco importa (tanto più che in passato col termine “maccheroni” si designava estensivamente ogni tipo di pasta alimentare mangiata asciutta). Quel che conta mi pare sia la radice petroniana del saporoso condimento.

26.10.10

Dedicato a "il manifesto" (di Riccardo Sante Maria Fontana)

Nel sito de "il manifesto", sezione "lettere e filosofia", può leggersi questa deliziosa e fresca poesiola che posto qui per incoraggiare il sostegno al nostro "quotidiano comunista". Abboniamoci!


DEDICATO A IL MANIFESTO
da Riccardo Sante Maria Fontana

Ormai è da tutti risaputo
ma, essendo io molto cocciuto,
continuerò a ribadirlo all’infinito;
si può certo manifestare,
però sempre con il benestare
del governo,
che con me si è ogni volta dimostrato
molto paterno,
mi ha puntualmente sostenuto,
anche quando si diceva contrariato,
perché rompevo il silenzio dell’imbuto
dell’informazione
e ruggivo come un leone,
sempre pronto a stare
dalla parte di coloro,
che in ciò che luccica non ci vedono solo oro.


Ora però c’è un controsenso
che, se non si chiarisce,
resterà un mistero denso.


Se il governo mi ha lasciato col suo consenso manifestare,
perché adesso la libertà di parola non me la vuol proprio più dare?
Anzi, mi vuole addirittura imbavagliare
e Il Manifesto del tutto eliminare.


Ciò può essere molto controproducente,
perché col togliere il mio giornale a tante genti,
non si avrà più un riscontro dei processi delle loro menti.


E’ meglio allora continuare a finanziarmi
e smettere presto di perseguitarmi.
Il Manifesto è sempre stato una bella voce
e non si merita di essere appeso ad una croce.
Sono oramai un braccato ed un fuggiasco,
ma spero che il mio persecutore venga come Saulo
folgorato sulla via di Damasco.

Un incontro a Milano (di Eugenio Montale)

Eugenio Montale in un disegno di Flavio Costantini per "Montale e il Corriere"
Nel 1986 il “Corriere della sera” per celebrare i suoi 110 anni regalò ai lettori una serie di monografie dedicate a scrittori e poeti che, nel tempo, avevano collaborato con il quotidiano di via Solferino, da Gabriele D’Annunzio a Pier Paolo Pasolini. Una delle più belle è dedicata a Montale ed è quasi interamente costruita con testi giornalistici del poeta genovese e con testimonianze sulla sua vita. Si tratta di testi talora discutibili come quello dedicato a un Piero Gobetti, letto come inconsapevole alternativa a Croce e a Gramsci, ma quasi sempre pieni di intelligenza delle cose e di geniali intuizioni (notevoli un pezzo sull’operetta, uno sulla Callas e uno su Torino). (S.L.L.)
Italo Svevo con la moglie nel 1926
 Sul finire dell’inverno del 1926, in un mattino quasi primaverile, un signore piuttosto anziano, non alto, alquanto corpulento ma elegante, si era fermato dinanzi all’ingresso del teatro della scala a Milano. Era con lui una signora di parecchi anni più giovane. Il signore anziano somigliava stranamente a un ritratto dell’industriale triestino Ettore Schmitz, da me visto poco prima sulle “Nouvelles litteraires”. In compagnia di un amico seguii per qualche tratto di via Manzoni la coppia, poi mi feci coraggio e arrischiai la domanda: “Il signor Schmitz?”. Non mi ero sbagliato. Avevo davanti a me il romanziere Italo Svevo, l’uomo che mi aveva scritto due mesi prima per ringraziarmi di un articolo con cui avevo precorso (modesta staffetta) lo scoppio della sua improvvisa celebrità. Il signor Schmitz ci invitò a sedere con lui a un caffè. Il mio nome aveva destato la sua curiosità. Un importatore di resine e di acquaragia che si chiamava come me gli aveva venduto merce per anni e anni, con molta sua soddisfazione; era forse mio parente? Ammisi che si trattava di mio padre, senza supporre che acquistavo un titolo di benemerenza ai suoi occhi.


Dal “Corriere d’informazione” , 21 febbraio 1946, poi in Montale e il Corriere, Editoriale del Corriere della sera, 1986.

25.10.10

Risa sotto la mitraglia (di Ernesto Ragazzoni)

Presento qui una stravagante pagina di uno stravagante letterato. Poeta, narratore, giornalista, Ernesto Ragazzoni (1870 - 1920) è tra gli irregolari del primo Novecento il più bizzarro e imprevedibile. Giornalista indisciplinato è ricordato per i suoi iconoclastici rovesciamenti della gerarchia delle notizie (la conquista del Polo Nord tra le "brevi" e nello stesso giorno un lungo eccentrico commento a un non evento come la passeggiata di un professore in pensione). Il pezzo qui postato, degli anni della Grande Guerra, potrebbe rientrare nel "giornalismo di guerra", ma è di una lampante ambiguità: non s'intende se ironizza o fa il serio, quanto ironizza e quanto fa il serio, quando ironizza e quando fa sul serio. (S.L.L.)

Salutiamo! Rintanati in una trincea, – irsuti e belli – figure di vivente fango ed anime di fuoco, – un gruppo d'uomini – soldati d'Italia, – col petto offerto alla morte pur si balocca colla morte. La mitraglia squarcia il cielo, la granata trasforma in un cratere in eruzione la terra che tocca, l'aria è piena di sibili e di tuoni, la fine può essere ad un passo, può essere tra un minuto, – e sulle labbra giovani, sulle labbra forse sul punto di chiudersi, il sorriso pur dura, e la celia, il frizzo, l'arguzia non s'aggelano. Le palle fischiano senza interruzione: «senti stamattina come i rusignoli cantano!» dice uno. – Una bomba si affonda nella melma senza scoppiare. «La signora prende il suo bagno» un altro osserva, «ma si buscherà un raffreddore». Un cannone, dalla vallata, tenta cogliere una posizione elevata. Lo si commisera: «è un tenore, ma poveretto, è costretto a cantare da basso». E dinanzi ai fulmini, tra la ruina, sotto alle tempeste del piombo e del ferro, la risata non si tace, ma zampilla, pullula, si propaga, e la morte che guarda, la morte onnipotente che è da per tutto e il piú umile, se tocca, trasforma in eroe, la morte rende questa risata sublime.
Signori, salutiamo!

La poesia del lunedì. Umberto Saba.

Il vetro rotto
Tutto si muove contro te. Il mal tempo,
le luci che si spengono, la vecchia
casa scossa a una raffica e a te cara
per il male sofferto, le speranze
deluse, qualche bene in lei goduto.
Ti pare il sopravvivere un rifiuto
d'obbedienza alle cose.
                                   E nello schianto
del vetro alla finestra è la condanna.

da Ultime cose (1933 - 1943) in Parole - Ultime cose, Mondadori, 1966

24.10.10

Bibliofilia (di Walter Benjamin)

«Perché colleziona libri?» Nessuno ha mai esortato i bibliofili a riflettere su se stessi, con una domanda del genere? Come sarebbero interessanti le risposte, almeno quelle sincere! Poiché soltanto i non iniziati possono credere che anche qui non ci sia qualcosa da nascondere e mascherare. Orgoglio, solitudine, inasprimento — è questo il lato negativo di certe nature di collezionisti così coltivate e felici. Di quando in quando ogni passione rivela i suoi tratti demoniaci; la storia della bibliofilia può testimoniarlo più di ogni altra.

Nichi Vendola e la "fuffa buonista". L'articolo della domenica.

Tra i compagni della sinistra estrema, e talora anche tra i commentatori della destra più cinica, sento di quando in quando liquidare i discorsi di Nichi Vendola come “fuffa buonista", con un neologismo che non capisco appieno, ma immagino non significhi niente di buono. Qualcuno lo paragona a Veltroni e scommetto che domattina, tra i commentatori del discorso conclusivo del presidente pugliese al Congresso di Sel, non mancherà chi faccia riferimento al Lingotto. Vorrei, per questo, attirare l’attenzione su tre passaggi del discorso, tra i più concilianti e aperti verso il centro e perfino verso il padronato.
“Voglio dialogare da cattolico con i cattolici del family day, anche a costo di subire anatemi e incomprensioni” – dice Vendola. Lo fa dopo una requisitoria su come la destra al governo abbia aggredito in questa crisi economica le famiglie; valorizza il principio della “sacralità della vita” caro a molti cattolici, ma spiega come abbia ben poco a che vedere con il divieto di un riconoscimento giuridico per le unioni omosessuali. Dialoga dunque, si impegna nel costruire relazioni e convergenze, ma non molla su principi e  progetti.
Si rivolge poi al padronato e chiarisce subito “niente patto tra i produttori”, valorizzando il conflitto sociale, spiegando quanto sia ipocrita e strumentale una richiesta di pacificazione che, nella situazione data, sancirebbe lo strapotere padronale nella società e nei luoghi di lavoro. Ricorda ai cosiddetti “datori di lavoro” quanto negli ultimi quindici anni, con il concorso di tutti i governi, abbiano guadagnato; e quanto i lavoratori abbiano perduto. Poi entra nel vivo del declino industriale del paese, del tramonto delle attività tradizionali, del vuoto di prospettive che la stessa borghesia vive, se resta sul terreno della compressione dei diritti e dei salari, in mancanza di nuove scelte di modello sociale e produttivo. Tutta un’altra cosa rispetto alle facezie del “buonista” romano, il quale andava raccontando che anche l’imprenditore è lavoratore e proponeva pace sociale. Su questo tipo di approccio Vendola saggiamente ha esercitato la propria ironia, considerandolo una variante dell’antico apologo di Menenio Agrippa.
Il capolavoro il presidente di Sel lo ha fatto tuttavia con un passaggio che metteva insieme la grande manifestazione organizzata dalla Fiom il 16 ottobre (e la grande partecipazione di popolo che l’ha caratterizzata), il ricordo di Aldo Moro e il giudizio sul Sessantotto. “Come avrebbe commentato Aldo Moro la piazza del 16 ottobre? Lui, che aveva spiegato ai moderati come nel movimento che scuoteva le università, vi fosse il seme di un rinnovamento positivo?”. Niente a che fare con Veltroni, neanche in questo caso. L’omino del Lingotto, infatti, forse ammaliato dai successi di Sarkozy, che con il “joli mai” francese aveva proclamato la “rupture”, partecipava alla generale demonizzazione del Sessantotto e proclamava un ritorno all’ordine, seppure con qualche “ma anche”.
Io non so quanto cammino farà la proposta politica di Vendola, giacchè i tempi sono orrendi e gli ostacoli saranno molti, ma so che da Firenze parlava finalmente il leader di una sinistra consapevole ed orgogliosa delle proprie radici sociali e dei propri valori, una sinistra capace di indicare una strada comune anche a chi di sinistra non è per salvare l’Italia (e l’Europa) dalla regressione economica, culturale e civile.

Cognomi derivati dal naso (Antonio Guadagnoli 1798 – 1858)

Derivano dal naso anco i casati:
Nasi, Nason, Nasali, Nasimbeni,
Nasicchi, Nasincresci, Nasidati,
Nasolini, Nasucci, Nasidieni;
E noto è sul Tirreno a questi e a quelli
Il valoroso General Naselli.

Da Poesie Giocose, Il naso, Salani, 1902. Ora in Forse Queneau, Zanichelli, 1999

Divagazione sul naso (Francesco Domenico Guerrazzi 1804 - 1873)

Il monumento a Guerrazzi a Livorno
Adesso il Mayer è uno tra quelli dell’amicizia dei quali massimamente mi onoro: ebbe anch’egli casi di vita varii, ed infelici; si condusse, invitato alla corte di Wittemberg per ammaestrare non nso quali principi; quivi spesi alquanti dei suoi migliori anni, fu rimandato con il dono di una scatola di tabacco! Ai nostri giorni i principi par che non abbiano altro di mira che premiare il naso; pensandovi sopra a me sembra trovare la cagione vera, ed è questa: onorando il naso sopra ogni parte della testa umana vogliono significare che non amano gli occhi perché vedono, gli orecchi perché sentono, la bocca perché parla, il cervello perché medita… e che per andare a genio a costoro bisogna nascere, o convertirsi tutti in naso. 
Da Note autobiografiche, Le Monnier, Firenze, 1899 in Forse Queneau, Zanichelli 1999

Il dogma ovunque (da "Etimologiario" di Maria Sebregondi)


L'uovo metafisico - Foto di Giuseppe Borsoi
‎Dogma, sostantivo maschile (dall'inglese "dog" - cane): inconfutabile verità canina. Gli scambi e le metatesi tra "eto"logia e "teo"logia rivelano che i cani hanno indiscutibilmente ragione: il cane è lo specchio di Dio (dog/god). 
Ovunque, letteralmente qualunque uovo, ma anche "l'uovo qualunque", movimentò che suscitò una generale ovazione. Onnipresenza della forma archetipica dell'uovo, l'infinita ovalità del tutto.
Slogato, aggettivo: privo di logica. Caviglia slogata: caviglia che pronuncia frasi incomprensibili ai più.
Ufficio, sostantivo maschile (derivato dall'interiezione "uff" o "uffa"): il doveroso atto dello sbuffare. per estensione: luogo preposto allo sbuffo individuale e/o collettivo, provvisto in genere di ampi e pazienti scaffali ove si archiviano stizza, noia e impazienza.
 
P.s.
Concludere, verbo transitivo (dalla locuzione latina "concisus ludere"): giocare in modo breve e stringato. Attività difficile e leggermente schizofrenica: la rapida essenzialità richiesta dalla conclusione contrasta fortemente con l'atteggiamento ludico, per sua stessa natura assolutamente superfluo e perditempo.

23.10.10

Porco o mondo? L'ossimoro inatteso.


Il "giocologo" Ennio Peres

Quando in una stessa locuzione si accostano due parole che esprimono concetti contrapposti come nel caso di acuto imbecille, si crea la figura retorica dell’ossimoro, termine che deriva appunto da questo accostamento delle due parole greche oxis (acuto) e moròs (imbecille). Vorremmo far notare come possano saltare fuori degli ossimori inattesi analizzando con la lente del “doppio senso” frasi apparentemente normali. 
A volte il meccanismo è diretto, come nel caso della scritta stabile pericolante, che viene apposta sugli edifici scricchiolanti, o del termine ripresa interrotta, usato frequentemente in ambito sportivo, o ancora dell’imprecazione porco mondo, tenendo presente che “mondo” significa anche “puro, casto”. Molto più spesso si riesce ad approdare a un ossimoro solo dopo aver sostituito opportunamente alcuni vocaboli con i loro sinonimi. Per esempio, un abile schieramento progressista può essere sinteticamente definito una destra sinistra; così un bieco schieramento conservatore si trasforma in una sinistra destra
Quali ossimori si celano nelle seguenti frasi? 1) Acconciatura frivola – 2) Parente separato – 3) Due meno – 4) Celebri carceri – 5) Fede fasulla – 6) Musica sconosciuta – 7) Dipinto circolare – 8) Club equilibrato – 9) Diga accessibile – 10) Conclusione intelligente.
Ecco la risposta: 1) Permanente effimera – 2) Congiunto diviso – 3) Abbondante insufficienza – 4) Note segrete – 5) Vera falsa - 6) Note ignote  - 7) Quadro tondo – 8) Circolo quadrato – 9) Chiusa aperta – 10) Chiusa aperta.
 “L’Europeo” n.7, 17 febbraio 1989.

Il boia a sorpresa (di Franco Carlini)

Franco Carlini
Questa storia paradossale ed intrigante è parte di una recensione di libri di logico-matematica giocosa, pubblicata nel dicembre 1985 su “latalpalibri”, inserto storico de “il manifesto”. Ne è autore l’indimenticabile Franco Carlini, uno dei pilastri del “quotidiano comunista”. Ricercatore di Cibernetica e Biofisica al Cnr vi collaborò per decenni e, da grande sostenitore di un uso democratico di Internet, inventò l’inserto “Chips & salsa”. Morì a soli 63 anni nella sua Genova il 30 agosto 2007. (S.L.L.)
Particolarmente brillante, tale da creare delle vere e proprie vertigini del pensiero è un vecchio paradosso, di incerta origine. Di certo si sa che apparve per la prima volta nella rivista inglese “Mind” nel 1949 e che suscitò una appassionata discussione tra i logici. E’ la storia di un condannato a morte a cui il giudice un sabato dice: “Verrete giustiziato in uno dei prossimi sette giorni, ma non saprete in anticipo in quale giorno, perché sarete informato solo all’ultimo momento".
Il condannato, una volta in cella, tira un sospiro di sollievo, perché, così formulata, la sentenza è ineseguibile: infatti se arrivasse al venerdì senza essere giustiziato, avrebbe la certezza di esserlo il sabato, ma allora non sarebbe più una sorpresa e dunque non può essere il sabato. Potrebbe avvenire il venerdì? No, perché sapendo che il sabato è impossibile, arrivando al giovedì ancora vivo, il condannato avrebbe la certezza che sarà di venerdì. Per lo stesso motivo, andando a ritroso, non può essere nessuno degli altri giorni e il condannato è salvo.
Il paradosso ha un seguito drammatico, emerso dalla discussione successiva: il giovedì arriva il boia ed esegue la sentenza.
Come mai? Dato che il condannato, a filo di logica, si era convinto di essere salvo, l’arrivo del boia per lui è una sorpresa, e perciò le regole del gioco non vengono violate.

Stefano Bartezzaghi a Capri. Le bizzarre etimologie.

Il brano che segue è tratto da “Tuttolibri” Anno XIV n.610, l’inserto letterario de “La Stampa”, su cui Stefano Bartezzaghi curava una rubrica di giochi (di parole soprattutto). Nel mio ritaglio manca la data esatta, ma doveva essere sabato 2 luglio 1988. Il titolo dell’articolo dedicato a Le etimologie bizzarre (e un po’ salvatiche) dei nostri lettori è Il bisogno è quella cosa che ci appare due volte per notte. Ne propongo qui l’accattivante conclusione isolana.
Capri, via Tragara
Sono abbastanza sans façon, alla buona, per voler chiamare le “paretimologie” (o “etimologie creative”) con espressioni di minore solerzia scientifica.
Avevo proposto “etimologie selvagge, selvatiche, salvatiche”. Ciò avveniva su questa pagina il 30 aprile di quest’anno. Facciamo dell’autobiografia. Una settimana dopo, il 7 maggio, ero a Capri, dove ci sono quelle scalinatelle longhe longhe che da via Tragara portano giù ai faraglioni. Lì, in basso, c’è una villetta molto caprese, bianca e azzurra, tutta a spazi quadrati. Sul campanello, invece che dei nomi e cognomi, c’era un motto, e vorrei saperne di più (è “storico?” è “apocrifo”?). Comunque me lo ricordo ancora:
“Salvatico è chi si salva”. Leonardo.
Sul campanello non c’era scritto altro.

22.10.10

Troppa grazia ("micropolis", novembre 2004)

La riproposizione in questo blog di vecchi articoli dal taglio laicista ed anticlericale non documentano soltanto una mia attività intellettuale per i pochissimi che ne fossero curiosi, ma segnalano una sorta di escalation nel processo di riclericalizzzazione delle istituzioni in Italia dopo la breve stagione democratica e libertaria degli anni 70. Risulterà chiaro che il ritorno, in forze, del prete non è prodotto esclusivo di una destra in cerca di sacre legittimazioni, ma anche di una sinistra che vorrebbe perdonato chissà quale peccato originale. L'articolo che segue è la cronaca di un'edizione di Umbrialibri, una sorta di kermesse fieristico-culturale organizzata da una di quelle regioni che un tempo si chiamavano "rosse", emblematica di un momento storico, di una temperie culturale. Non è propriamente un articolo sulle ingerenze dei chierici e le genuflessioni dei laici, ma già a quel tempo ne accadevano di cotte e di crude.  (S.L.L.)
Il cardinale Ersilio Tonini

UmbriaLibri 2004 e le politiche culturali
Mentre scriviamo, l’edizione 2004 di UmbriaLibri, la decima della serie, è in pieno svolgimento. Il bilancio, oggi assolutamente prematuro, sarà probabilmente illustrato in una apposita conferenza dall’assessore regionale alla Cultura; come d’uso. Azzardiamo tuttavia, da quanto abbiamo visto nei primi giorni, una previsione: il resoconto sarà dolce e lusinghiero. La manifestazione, infatti, aiutata da un meteo propizio (giornate fredde, ma senza precipitazioni), avrà un gran numero di visitatori e saranno molti i dibattiti affollati. Niente di paragonabile ad Eurochocolate, ma sicuramente un successo.
Facciamo un esempio fra i tanti possibili. Mercoledì alle 21 era previsto nell’Aula magna dell’Università per Stranieri un incontro con Sabina Guzzanti e Marco Travaglio su Il regime delle bugie. Alle 20 e 50 erano già centinaia le persone che facevano ressa all’ingresso, bloccate dal servizio d’ordine, dato che la sala era già piena zeppa. Non c’erano solo vecchie facce della vecchia sinistra, ma anche tanti volti giovani a noi sconosciuti. E’ un buon segno, ed anche una lezione per quei politici che, come se non bastasse l’ostracismo televisivo dei berluscones, vorrebbero mettere la sordina alle denunce puntuali ed alle pungenti irrisioni contro le malefatte dei briganti neri, azzurri e verdelega, per non alimentarne il vittimismo. L’incontro è stato spostato alla Sala dei Notari, con un parte del pubblico in piazza 4 Novembre a seguirlo su uno schermo.
Tutto per bene, allora? Non diremmo. Studiamo con qualche attenzione il programma della kermesse. In copertina si preannunciano la mostra-mercato degli editori umbri ed altre mostre, le lectio magistralis, l’aperitivo musicale e il caffè letterario, gli incontri e confronti, il laboratorio di scrittura creativa, l’angolo della lettura e la pesca letteraria. Manca la caccia. L’impressione che gli organizzatori abbiano voluto stupirci con la quantità è confermata dalla prime pagine. Era inevitabile che vi comparissero i loghi degli enti organizzatori, la Regione come capofila, la Provincia e il Comune di Perugia e infine la Fondazione Cassa Risparmio Perugia, massimo finanziatore privato; ma nella facciata è collocato anche l’elenco di coloro che hanno contribuito, 31 associazioni 31. Il calendario è fitto fitto. Nei cinque giorni da mercoledì a domenica sono ottanta e più gli appuntamenti, distribuiti in luoghi neanche tanto vicini tra loro, gli spazi della Rocca Paolina, le sale della Regione, della Provincia e del Comune, le aule delle sedi universitarie, il caffè letterario, la Biblioteca Augusta.
Prendiamo ad esempio giovedì 18. Già al mattino l’appassionato trova difficile la scelta tra il poeta Adonis che fa lezione al Rettorato, il cardinale Tonini, Vauro (che poi non c’è), uno scienziato e diversi narratori alla Rocca Paolina e la presentazione di due libri sul campo di concentramento di Colfiorito. Ma il massimo della libidine si tocca nel pomeriggio. Alle 16 alla Rocca Paolina i ragazzi del Liceo Mariotti fanno un bookcrossing, alla stessa ora Belardelli, Campi, Compagna e Aldo Ricci ragionano di Lucio Colletti alla sala Brugnoli del Consiglio Regionale; alle 16,30 alla Biblioteca Augusta due preti, una studiosa ed un’attrice intrattengono il pubblico sulle Confessioni di Sant’Agostino, mentre alla sala dei Notari Bertinotti e un deputato israeliano ragionano di non violenza. Un quarto d’ora più tardi, in uno spazio della Rocca, il vescovo Chiaretti, il politico Borgognoni e lo scrittore Luise presentano un libro-intervista con Norberto Bobbio su Dubbio e mistero e un volumetto di Leonardo Boff; ma dalle cinque della sera devono subire la concorrenza di Sandro Portelli e Giacomina Nenci che parlano di operai e partigiani a Terni e in Umbria in una saletta vicina. Intanto in quattro diversi palazzi del centro storico c’è chi riscopre lo scrittore umbro Massini, chi riascolta e discute le canzoni di Fabrizio De Andrè, chi si appassiona alla politica di Giovanni Pontano e chi fa la cronaca della mostra di Venanti. Alle diciotto, mentre Crespi e Santambrogio presentano la loro rivista di teoria sociale a Palazzo Donini, Diaconale e Longostrevi parlano di morale imprenditoriale alla Rocca Paolina e, in attesa dell’aperitivo musicale, Dacia Maraini e Baldino Di Mauro intrattengono il pubblico alla Ex Sala Borsa-Merci sul Braccio da Montone di Marco Rufini. “Dulcis in fundo” (o amaro, per chi non sopporta gli zuccheri) al Circolo Zibaldone c’è la Pausa caffè di Giorgio Falco, alle 21.
A noi, che abbiamo fatto un superficiale e disimpegnato tour pomeridiano, è capitato d’incontrare a un dibattito l’assessore Maria Prodi. Si lamentava di essere stata costretta, per ospitalità istituzionale, a girare come una trottola. Le sta bene; essendo di chiesa non può aver letto il Meglio meno, ma meglio di Lenin, autore all’Indice, ma la Temperanza non è virtù cardinale dei cristiani cattolici?
Immaginiamo una replica alle nostre insofferenze, la classica pezza peggiore del buco: “Molti appuntamenti li organizzano gli editori o altri soggetti. Alla Regione e agli altri Enti pubblici costano poco o nulla. E intanto fanno numero, a volte anche pubblico”. Si tratta in realtà di una concezione quantitativa che avvelena l’intera politica culturale della Regione e nella regione. Tutto si misura in termini di numeri (iniziative, presenze, etc,) senza una selezione di qualità, senza una gerarchia di obiettivi e una linea riconoscibile.
Per quanto veteromarxisti non abbiamo nostalgie per il “lavoro culturale” degli anni Cinquanta e Sessanta, tanto efficacemente preso di mira da Luciano Bianciardi: i cineforum impegnati, i dibattiti seri e seriosi, la musica classica, il jazz e la letteratura di denuncia. Sappiamo che le politiche culturali, anche nelle regioni di sinistra, devono contenere molte cose, di diverso orientamento, impatto e livello. Ma a tutto c’è un limite e non è affatto necessario somministrare al pubblico una congerie di iniziative in cui anche le cose eccellenti (che ci sono) si disperdono, un polpettone in cui nessun sapore è riconoscibile, una maionese impazzita.
Alla manifestazione è stato dato come titolo In nome della fede. Il titolo è un po’ corrivo, ma il tema è di una attualità per certi versi scottante. “Tantum religio potuit suadere malorum” - scrisse più di due mila anni fa un poeta grandissimo, per denunciare i danni enormi che la superstizione religiosa può produrre e i crimini compiuti in nome della fede. Ci aspettavamo delle iniziative tese a difendere e potenziare la laicità dello Stato, invece abbiamo assistito ad una inesauribile processione di preti e fedeli di tutte le confessioni. Tra i laici, confinati in un angolo, qualcuno era meglio perderlo che trovarlo. Per esempio, a discutere con un dignitario musulmano francese tra i più aperti, ci hanno messo il ministro Alemanno, della destra sociale, di quelli che continuano a dar valore alla “carta di Verona” e alla “socializzazione” di Salò. La logica dell’accoppiamento è quella televisiva del “tutto fa spettacolo”. Non vengano a raccontarci che la filosofia è anche spettacolo, che Socrate era un teatrante, che stoici e cinici si esibivano nei mercati e gli Illuministi facevano scienza nei salotti oltre che nei volumi dell’Enciclopedia. Preferiamo la conversazione conviviale di Epicuro, ma non abbiamo nulla contro le altre forme di spettacolarizzazione del pensiero; quando, per l’appunto, sia pensiero, non vuoto pneumatico, volgarità gratuita, lite preordinata, battuta che cerca l’applauso attraverso la conferma della banalità.
Nel cartellone di UmbriaLibri non soltanto i laici sono pochi (e alcuni finti), ma vi sono clamorose omissioni anche nella scelta dei temi. Nessun dibattito che alluda ai referendum sulla fecondazione artificiale. Nessuno spazio per l’ateismo militante, quello dei materialisti, intransigente sui principi e tollerante con le persone, non quello trasformato in religione di Stato dagli stalinisti. Nessuna apertura all’anticlericalismo, ateo, razionalista o protestante che fosse. E’ così potuto accadere che qualche barlume di laicità si trovasse dove meno lo si aspettava.
Il vescovo di Perugia, che abbiamo ascoltato nel nostro giro di giovedì, sembrava più aperto al pluralismo, più critico contro la superstizione e l’uso politico-militare della religione del laico Pera. Al dibattito su Lucio Colletti, poi, qualcuno ricordava che il berlusconismo del filosofo era disincantato e pessimista. Egli dichiarava di trovare consolazione solo nella frequentazione di Lucrezio e di Leopardi. Peccato che frequentasse anche Ignazio La Russa.

Lo "sbattezzo". Una storica battaglia di Aldo Capitini.

Pisa, Il Battistero
Il nome sbattezzo lo inventò il quotidiano cattolico “Avvenire” negli anni 50. 
Nel 1956 il vescovo di Prato aveva cacciato fuori dalla chiesa una coppia di conviventi, chiamandoli “pubblici peccatori”. Alla coppia, che osò ribellarsi e protestare, i preti, i bacchettoni, le beghine costruirono intorno una sorta di cordone sanitario. I due ne ebbero forti danni, anche economici, e contro il vescovo ricorsero alla magistratura. 
I giudici di quel tempo non erano il non plus ultra del progresso e dell’autonomia. I più, entrati nei ruoli al tempo del fascismo, servivano il regime dei democristiani e dei preti con lo stesso zelo con cui avrebbero servito il precedente; pertanto diedero ragione al vescovo. La motivazione della sentenza era curiosa: il battesimo avrebbe creato una sorta di dipendenza dal vescovo, cui si rimaneva subordinati.
Aldo Capitini, religioso ma laicissimo, reagì alla sentenza chiedendo al Vescovo di Perugia di cancellare il suo nome dalle liste dei battezzati. Fu oggetto di violenti e sgradevoli attacchi non solo da parte del clericalismo perugino, ma anche da parte dei giornali che al tempo venivano chiamati “indipendenti”. Il Vescovo, in particolare, rispose picche, dicendo che i registri parrocchiali documentavano un fatto, il battesimo, e quel fatto era incancellabile come i suoi effetti salvifici, inclusa l’obbedienza al vescovo.
“Avvenire” qualificò offensivamente la sua richiesta come sbattezzo, termine che è passato nell’uso per indicare la formalizzazione dell’uscita dalla Chiesa cattolica, mentre i dizionari registravano già il verbo sbattezzare, ma solo nel senso di “cambiare nome” a qualcuno o a qualcosa.
Da qualche anno l’Uaar (Unione atei agnostici e razionalisti) ha trovato il modo per riprendere quell’antica battaglia di principio, che non ha nulla di goliardico o folcloristico. Lo sbattezzo che viene proposto non implica alcuna parodistica ritualità, ma solo una richiesta che trova forza nelle normative europee e nelle leggi nazionali sulla privacy. Chi non vuole essere in quegli elenchi, quelli delle “loro anime” – dicono i parroci -, deve poter essere cancellato.
Il solito vescovo di Terni, monsignor Paglia, fa il furbastro: atei, materialisti e razionalisti non dovrebbero avere problemi, consapevoli come sono che la presenza del loro nome nei registri parrocchiali non limita in alcun modo la loro libertà di coscienza. L’argomentazione – ovviamente – è del tutto rovesciabile: non dovrebbe aver problemi lui a cancellare quei nomi, inseriti quando le persone che li portano erano ancora in fasce e del tutto inconsapevoli. Ma quei nomi fanno numero e per il Vaticano, come un tempo per Mussolini, il numero è potenza: serve a rivendicare un ruolo di guida, privilegi, vantaggi economici alle pubbliche istituzioni. 
E' per questo che, nonostante la chiarezza sulle norme della privacy, che hanno già obbligato i preti a tante cancellazioni, vescovi e parroci la mandano per le lunghe e oppongono obiezioni: “sbattezzarsi” è più difficile che chiudere un conto corrente in banca, ma non impossibile. Basta insistere. E’ anche per questo che l’Uaar organizza per il 25 ottobre la giornata dello sbattezzo, per promuovere - ovunque sia possibile - iniziative di informazione di modo che il diritto conquistato sia esigibile.

Operazione San Francesco ("micropolis" - ottobre 2004)

Procede nel suo iter parlamentare, seppure con qualche intoppo, la proposta di legge per far tornare festa il giorno di San Francesco, come “giornata della pace, della fraternità e del dialogo tra appartenenti a culture e religioni diverse”. Grande è la soddisfazione del deputato diessino Giulietti, uno dei suoi principali sostenitori, grande la gioia della presidente Lorenzetti. La proposta ha ottenuto anche il sostegno di Fini, presente ad Assisi proprio il 4 ottobre.
La presidente dell’Umbria approfitta di ogni occasione per spiegare come il Poverello, con il suo messaggio di pace sempre attuale, sia alle radici dell’Umbria contemporanea. Al prossimo giro nessuno la fermerà: il riferimento alla spiritualità francescana non potrà mancare nella revisione dello statuto regionale. La gerarchia cattolica, che non è riuscita a piantare la sua bandiera sull’approvanda Costituzione Europea, potrà bearsi di aver piantato due bandierine, una sulla piccola Umbria completamente francescanizzata, l’altra sull’Italia intera. Il fatto che la festa non sia religiosa, ma laica, in versione dialogante e pacifista, non attenua ma aggrava la cosa: sotto l’ala protettrice del santo (e di santa madre chiesa) si troveranno anche coloro che non credono né in Dio, né nella verginità della Madonna, né nei miracoli di padre Pio.
In Umbria, intanto, l’operazione San Francesco sembra non trovare oppositori: laici e cattolici, destra e sinistra, verdi e gialli, tutti cercano appigli nell’assisiate, tutti rileggono e reinterpretano “il giullare di Dio” alla luce delle proprie esigenze e convenienze.
Questo “Francesco di tutti” è privo di ogni consistenza scientifica, è ideologico nel duplice senso di mistificazione propagandistica e di autoinganno. In questo senso ha un precedente illustrissimo. Il governo italiano di Benito Mussolini decretò nel 1925 che il 4 ottobre dell’anno successivo, settimo centenario della morte del mistico assisiate, fosse festa nazionale. Erano gli anni in cui si procedeva alla “rimedievalizzazione” anche urbanistica di Assisi e in cui Mussolini definiva Francesco “il più santo degli italiani e il più italiano dei santi”. In che cosa poi consistesse quest’arcitalianità non si capisce davvero, se non forse nel fatto che il duce proiettava sul santo una distorta coscienza di sé stesso e del suo italianissimo movimento: lui e le sue camicie nere erano insieme, come Francesco e compagni, ribelli e obbedienti, eversori e uomini d’ordine. Ma c’era anche un’esigenza politica immediata: al tempo i francescani avevano ottime entrature e protezioni in Curia e Mussolini ne aveva bisogno per realizzare la conciliazione concordataria, che si sarebbe firmata nel 1929. Di lì a qualche anno il giorno di San Francesco sarebbe diventato festa nazionale, pur non assumendo mai per la Chiesa il carattere di “festa comandata”. L’uso che Mussolini fece di Francesco non rese il duce mite e pacifico, ma più forte politicamente; così la Lorenzetti sarà contenta di essersi arruffianata i preti e i frati, ma non per questo si metterà a parlare con gli uccelli.
Tutto ciò ci porta ad essere particolarmente critici nei confronti di alcuni nostri amici e compagni che partecipano (o tentano di partecipare) a questa incredibile messinscena. 
Ad un convegno sull’attualità di Francesco organizzato a Perugia dalla Cisl e dal Circolo primomaggio, oltre a Gigino Ciotti e Ulderico Sbarra, padroni di casa, c’erano un prete no-global, un ambientalista, un capo scout, un editore, un pacifista di professione. Il peggio di tutti era Lotti, che andando con il prete comincia a preteggiare. Come il parroco di paese ricorda ai fedeli che Natale non è solo regali ma l’incarnazione di Dio, Lotti ripete che la giornata di san Francesco, della pace e del dialogo non dovrebbe essere solo una festa, una vacanza, ma un’occasione di meditazione. 
L’operazione San Francesco diventa insomma sempre più stucchevole. Noi ci siamo rotti da tempo. Facciano attenzione anche gli altri. A furia di tirarlo da una parte o dall’altra anche il Serafico si potrebbe rompere.

Paglia a tutto servizio. Da un sottosegretario all'altro.

Il Sottosegretario ai Trasporti e alle Infrastrutture Mario Mantovani è un berlusconiano doc del Milanese (è stato sindaco di Arconate) ed è anche un po’ baciapile. Di recente ha scritto un libro dal titolo Carità, verità e Buongoverno. Il Magistero di Benedetto XVI e l’azione del governo Berlusconi. Il tomo si propone di dimostrare la tesi che la dottrina cattolica e il pastore tedesco sono il faro dell’azione del governo Berlusconi. Una presentazione del libro si è svolta il 20 ottobre nella chiesa di Santa Marta in Piazza del Collegio Romano. Con l’autore c’erano il prefatore Bondi, la celebre Binetti e monsignor Vincenzo Paglia vescovo di Terni. Paglia, ai tempi di Wojtila, era dato come cardinale in pectore, ma probabilmente il “pastore tedesco” ha altri intendimenti nel suo cuore e sembra avere fino ad oggi frustrato tutte le aspirazioni di scalata del Paglia. Il Paglia ha perciò profittato dell'occasione per un atto d'omaggio, un lecca-lecca senza precedenti nei confronti di Ratzinger. Ne dà conto una nota dell’Adnkronos che si può ritrovare nel sito del senatore Mantovani, ove così si può leggere: “La carità e la verità come energie in grado di unire i cattolici per offrire quella visione e quel sogno di cui hanno bisogno l'Italia, l'Europa e il mondo nell'epoca della globalizzazione”. Sarebbe questo il messaggio lanciato dal Paglia, in occasione della presentazione romana del libro. Secondo il gerarca ciociaro il volume ruoterebbe intorno all'ultima enciclica del Papa Caritas in veritate, “un documento, sottolinea Paglia citando una frase del ministro dell'Economia Giulio Tremonti, che rappresenta il testo politico più alto sulla globalizzazione che sia stato scritto”. 
Domani, sabato 23, a Terni sarà inaugurato il nuovo oratorio “Santa Maria della Gioia” nella parrocchia di San Giuseppe lavoratore a Cospea, in via XX settembre 166. La cerimonia avrà inizio con la celebrazione della messa presieduta dal vescovo Paglia e proseguirà con la benedizione e inaugurazione dell’oratorio. Nell’oratorio c’è un’area, “Aiutamoli a vivere”, dedicata alla solidarietà col Terzo Mondo e questa giustifica la presenza di un altro sottosegretario, Vincenzo Scotti. Per il monsignore si presenta una nuova possibilità di dichiarare la sua servile fedeltà al “pastore tedesco” del Vaticano e le sua non ostilità al "cattolicissimo" governo di Berlusconi.

Monsignor Paglia e i prodigi di Dio.

Il culto della personalità del vescovo di Terni Paglia c’era noto, ma esso presenta addirittura alcuni risvolti che in miscredenti come me suscitano allegre sensazioni e reazioni. Ridicoli? risibili? ridanciani? Non oso dirlo. Vi offro in lettura il brano conclusivo della pagina dedicata a monsignor Vincenzo Paglia dalla parrocchia di S. Francesco d’Assisi in Terni (http://www.parrocchie.it/terni/sanfrancescosdb/il%20vescovo.htm). (S.L.L.)
Con l'arrivo di Mons. Paglia l'aria si è fatta davvero accattivante. Uomo di lavoro, che ama toccare il cuore della gente con i fatti e con l'adesione fattiva alla parola del Vangelo. La sua cappella privata aperta ogni giorno alla messa, gli incontri diocesani sempre più folti di gente "nuova", la processione del Corpus Domini, per sua volontà eseguita in giorno feriale e con un itinerario, iniziato nella nostra chiesa di San Francesco con la Celebrazione Eucaristica, poi insinuatosi davanti a scuole e uffici, Comune compreso. Da anni, questa processione non vedeva accorrere tanti ternani.
Non da ultimo il Giubileo Diocesano a Roma il 18 ottobre scorso con oltre 10000 ternani! Questa mobilitazione di fedeli da una Diocesi verso Roma, dall'inizio dell'anno Giubilare, si stima sia la seconda per numero di partecipanti dopo la Diocesi di Milano (15000).
Insomma, don Vincenzo si sta facendo il portavoce di tutti, l'anima della nostra chiesa locale e se vogliamo, anche se il termine è sfruttato in questo tempo giubilare, il nostro vescovo sta divenendo la "porta" che ci apre verso il futuro e verso la speranza.
Grazie Signore per averci donato santi pastori; grazie per don Vincenzo Paglia, grazie per i prodigi che pian piano operi e opererai nella nostra terra!

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