Da "La Gola", anno 2 numero 4 del febbraio 1983 riprendo una parte di un gustosissimo articolo di Giancarlo Roversi sul ragù.
C’era una volta il ragù. O meglio, non c’era una volta il ragù. Proprio così perché questo inestimabile ornamento delle pastasciutte si aggira come un fantasma nei vecchi trattati di gastronomia.
Come ricorda la medievalista Gina Fasoli e come hanno ribadito Osvaldo Bevilacqua e Giuseppe Mantovano nel loro brillante libro, appena uscito, Laboratori del gusto, fin dal medioevo varie pietanze erano state elaborate alla stregua di un vero e proprio ragù: un ragù destinato ad essere mangiato così, come piatto a sé. Soltanto più tardi è invalso l’uso di servirsi di tale pietanza per condire le minestre asciutte, soprattutto i maccheroni, come risulta anche da testimonianza di Noddo d’Andrea, riportata da Maria Luisa Incontri Lotteringhi della Stufa (una nobildonna cacciatrice, selezionatrice di razze canine e autrice di due ricche storie della cucina toscana, n.d.r.), che ne indica con precisione gli ingredienti: carne di vitella, cipolla, prezzemolo, sedano, sale, pepe, vino bianco e qualche cucchiaio di brodo.
Per il resto il ragù, lo ripetiamo, rimane una primula rossa. E anche laddove dovrebbe lasciare un chiaro indizio di sé, la sua presenza appare irriconoscibile. Prendiamo, ad esempio, le tagliatelle alla bolognese di cui il ragù è il simbionte per antonomasia. Nel glorioso libro di cucina L’Opera di Bartolomeo Scappi, vanto dell’arte culinaria del secolo XVI, viene fornita (pp.77-78), una dettagliata ricetta per la preparazione di questa classica minestra asciutta… Ma, se andiamo ad analizzare il condimento, ci si accorge che esso non è neppure lontano parente di quello che apprezziamo oggi. Il bravo Scappi ci consiglia infatti di condire le tagliatelle con formaggio, zucchero e cannella. Quelli erano i gusti del tempo, dirà qualcuno. E’ vero. Fatto sta che il nostro ragù rimane dietro le quinte. Anche una veloce scorsa alla letteratura gastronomica italiana del Sei-Settecento non offre sorprese. Le tagliatelle, quando vengono citate, sono sempre ammannite con burro e formaggio o con verdure o con altri ingredienti che nulla hanno a che vedere col sovrano intingolo entrato nelle nostre abitudini.
L’unica rivelazione, è il caso di dire felice, ci è venuta da un inedito ricettario, di prossima pubblicazione, compilato alla fine del Settecento da Alberto Alvisi di Imola, già cuoco del vescovo della sua città, quel Barnaba Chiaramonti che poi salì sul trono pontificio con il nome di Pio VII. Passando in rassegna i piatti preparati per l’illustre prelato, il nostro chef ci sciorina qualla che rappresenta certamente una delle più vecchie ricette del ragù, con molti punti di aggancio a quella odierna.
Ecco gli ingredienti: lardo ben fuso, un’oncia (30 grammi) di burro, cipolla ben pestata, carne di vitello o lombo di maiale e anche, a piacere, “magoni di polli tagliati minuti”. Ed ecco il modo di esecuzione secondo le stesse parole dell’Alvisi: “Si mette tutto nella cazzeruola a fuoco violento a prendere un bel colore carico, aggiungendovi del brodo a poco a poco e un’oncia di farina acciò prenda corpo il ragù, avvertendo che esso non deve essere né troppo lungo né troppo stretto, ma di perfetta cottura e condito con sale, pepe, cannella o qualunque altra droga.. Avvertendo inoltre che per aver maggiore sostanza sarebbe necessario un po’ di selaro (cioè sedano) sicuramente, qualche funghetto tagliato e qualche poco di tartufi”.
A un imolese, cioè a un romagnolo di periferia, si deve quindi ilo merito di aver materializzato il nostro fantasma, il … ragù alla bolognese (Imola è pur sempre in provincia di Bologna). Come ad un altro romagnolo , il celebre Pellegrino Artusi, va il merito della consacrazione:
Per condire 500 gremmi e più di minestra il valente gastronomo del secolo scorso dà questi ingredienti: “carne magra di vitello (meglio se filetto) gr 150; carnesecca gr 50; burro gr.40; un quarto di cipolla; una mezza carota; due costole di sedano bianco lunghe un palmo oppure l’odore del sedano verde; un pizzico di farina, ma scarso assai; un pentolino di brodo; sale pochissimo o punto, a motivo della carnesecca e del brodo che sono saporiti; pepe e, a chi piace, l’odore della noce moscata”.
Per la preparazione l’Artusi scrive di tagliare la carne a piccoli dadi e di tritare finemente con la lunetta la carnesecca, la cipolla, gli odori, mettendo poi tutto al fuoco insieme al burro e aggiungendo un pizzico di farina con l’avvertenza di bagnare col brodo fino a completa cottura. Anche il nostro buongustaio consiglia di rendere “più grato” l’intingolo con l’aggiunta di funghi secchi oppure un fegatino cotto insieme alla carne e poi tagliato a pezzetti o, infine, con un mezzo bicchiere di panna per conferire maggiore delicatezza alla pastasciutta.
Come l’Alvisi, anche l’Artusi non prevede il pomodoro che, d’altra parte, aveva fatto la sua comparsa in cucina soltanto verso la fine del Settecento. Entrambi, poi, abbinano il loro ragù ai maccheroni “alla bolognese”. Ma maccheroni o tagliatelle poco importa (tanto più che in passato col termine “maccheroni” si designava estensivamente ogni tipo di pasta alimentare mangiata asciutta). Quel che conta mi pare sia la radice petroniana del saporoso condimento.
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