23.2.10

Giuseppe Gatì. Un mio compaesano di cui sono orgoglioso.

"E’arrivato il momento, il momento dei siciliani onesti, che vogliono lottare per un cambiamento vero, contro chi ha ridotto e continua a ridurre la nostra terra in un deserto abbiamo l'obbligo morale di ribellarci. Questa è la mia terra ed io la difendo e tu?". Sono le prime righe del blog di Giuseppe Gatì, un ragazzo morto l’anno scorso mentre andava per stalle a raccogliere latte.

Giuseppe è cresciuto nel mio stesso paese, Campobello di Licata, in Sicilia. Non ho fatto a tempo a conoscerlo di persona: quando sono andato via non era ancora nato e nei miei periodici ritorni i ragazzi più giovani non li frequento. Conosco suo padre Giacomo, come compagno e come persona impegnata nella ricerca di un destino economico diverso e migliore per le nostre terre, terre ove sono comodamente insediate la mafia e la borghesia mafiosa, protette da un ceto politico corrotto e/o inetto. Di Giacomo ricordo il suo impegno pluridecennale per l’agricoltura biologica e so delle più recenti iniziative: la ricerca di razze autoctone per un caprino e un pecorino davvero speciali, un piccolo agriturismo. A differenza di tanti altri, non si è arreso.

Giuseppe lavorava con lui e, seppure molto giovane, non aveva paura di un lavoro pesante i cui risultati sono più che altro proiettati nel futuro. Era un ragazzo impegnato a sinistra, amava la legalità e ne sosteneva i difensori contro tutte le mafie; era un ragazzo normale alieno da ogni propensione all’eroismo e da ogni smania di protagonismo. La contestazione a Sgarbi per cui passò alle cronache gli venne naturale: quello era un critico d’arte, forse di valore, ma anche l’autore di infami calunnie e di volgari e gratuite offese contro i magistrati, un vigliacco che si era fatto scudo dell’immunità parlamentare. Il 28 dicembre 2008, a una sua conferenza agrigentina, Giuseppe gridò: “Viva Caselli! Viva il pool antimafia!”. Morì poco tempo dopo, il 31 gennaio. Nell’anniversario della sua morte mi pare che sia mancato del tutto (o quasi) il ricordo della Tv di stato, che concepisce il servizio pubblico come servizio ai prescritti e perciò commemora soprattutto i latitanti. Non è mancato il ricordo del movimento antimafia e dei web dell’altra Sicilia. Giuseppe non entrerà nell’elenco delle vittime della mafia che, come ogni anno, verrà scandito a Milano il 20 marzo nella Giornata della Memoria, della Legalità e dell’Impegno che Libera organizza ogni anno; ma alcuni amici di Libera, siciliani e umbri, stiamo studiando qualcosa perché il suo impegno sia indicato anche lì come esempio. Qui intanto pubblico la testimonianza sulla giornata agrigentina che Giuseppe stesso diede sul suo blog e un recente articolo di Riccardo Orioles dalla rivista catanese “U Cuntu”, secondo me molto bello.

Identiticato e perquisito

Giuseppe Gatì

"Con alcuni amici l’altro giorno mi sono recato presso la biblioteca comunale di Agrigento per contestare con volantini e videocamera Vittorio Sgarbi. Ci siamo soffermati su due punti in particolare: la condanna in via definitiva per truffa aggravata ai danni dello stato, e quella in primo e secondo grado, poi andata prescritta, per diffamazione del giudice Caselli. Dopo quasi due ore di ritardo ecco che arriva, in sala la gente rumoreggia e fischia. Subito dopo aver preso la parola, naturalmente con qualche volgarità annessa, inizia la nostra contestazione. Nel video non si vedono o sentono certe cose. Sono stato subito preso e spintonato da un vigile, mentre qualcuno tra la folla mi rifilava calci e insulti. Sgarbi, prima chiedeva che venisse sottratta la videcamera alla mia amica, e dopo cercava lui stesso di impossessarsene.

Ma è importante sapere cosa succede dopo. I miei amici vanno via perché impauriti, mentre io vengo trattenuto dai vigili. Si avvicina un uomo in borghese, che dice di appartenere alle forze dell’ordine e cerca di perquisirmi perché vuole la videocamera (che ha portato via la mia amica). Io dico che non può farlo e lui mi minaccia e mi mette le mani addosso. Arriva un altro personaggio, e minaccia di farmela pagare, ma i vigili lo tengono lontano. Dopo vengo preso e portato in una sala appartata della biblioteca, dove la polizia prende i miei documenti e il telefonino. Chiedo di vedere un avvocato (ce n’era addirittura uno in sala che voleva difendermi), per conoscere i miei diritti, ma mi rispondono di no. Mi identificano più volte e mi perquisiscono. Poi mi intimano di chiamare i miei amici, per farsi consegnare la videocamera, ma io mi rifiuto. Arriva di nuovo il presunto appartenente alle forze dell’ordine in borghese e mi dice sottovoce che lui dirà di esser stato aggredito e minacciato da me. Non mi fanno parlare, non mi posso difendere. Dopo oltre un’ora e mezza mi dicono che non ci sono elementi per essere trattenuto ulteriormente, mi fanno fermare il verbale di perquisizione e mi congedano con una frase che non posso dimenticare: “Devi capire che ti sei messo contro Sgarbi, che è stato onorevole e ministro…”.

Che cosa c’insegna quel ragazzo qualunque

Riccardo Orioles

"Sono nato ad Agrigento il 18/10/1986, residente a Campobello di Licata (AG), cittadino libero. Ho voluto specificare il mio status per combattere il servilismo che ogni giorno di più avvolge il nostro Paese. Ho scelto di rimanere in Sicilia, di non andare via anche se vivere qui è duro...". E’ l’incipit del blog di Giuseppe Gatì, morto un anno fa d’incidente mentre aiutava suo padre al lavoro, in campagna.

Della sua breve vita, qualcuno ricorda ancora le fiere parole - “Viva l’antimafia! Viva Caselli!” - con cui interruppe gli insulti di un servo del potere mafioso venuto a fare il suo sporco lavoro. Lo afferrarono le guardie e se lo portarono via. Lui ricominciò la sua esistenza normale: organizzare l’antimafia, aiutare la famiglia, portare avanti il blog. Il filo era diventato assai breve, tutto ciò che Giuseppe avrebbe mai potuto dare al mondo era ormai concentrato in quei diciannove anni. Ma abbastanza per ricordarlo, per essere orgogliosi di lui, e profondamente grati. Servono le persone così, molto più che i grandi eroi. La storia di Giuseppe ci è venuta provvidenzialmente davanti mentre ci arrabbattavamo per esprimere l’indignazione per le ruberie, per le prostituzioni, per le insolenze di piccoli e grandi mascalzoni che sono ormai la fauna abituale di questa decadenza in cui viviamo. Difficile trovare le parole, e trovarne soprattutto di non volgari; perché la volgarità è contagiosa. A furia di scrivere e raccontare di anime basse qualcosa di quel grigiore s’insinua dentro di noi; e la mediocrità, la povertà umana, la svendita di se stessi, a un certo punto appaiono, senza accorgersene, qualcosa di riposante e di normale. Non puoi scrivere di Bertolaso senza diventare almeno per un milionesimo di te stesso arrogante e servile. Non puoi attraversare le elucubrazioni dei Di Pietro, dei Bersani o dei D’Alema senza vergognarti impercettibilmente dei compromessi compiuti dal te stesso politico (certamente minori e, anche qui, “a fin di bene”). E Bossi, e Berlusconi, le due violenze, non hanno davvero nulla, per un maschio adulto italiano, di machiavellicamente affascinante? Ecco: a tutte queste putredini, a queste debolezze, risponde come un soffio d’aria un essere come il nostro Giuseppe. Non ha vissuto niente di tutto questo, Giuseppe. Non si è mai rapportato coi Vip, non ha mai voluto esserlo e nemmeno, per un istante fugace, gli è apparso il fascino del rifiutare (che è quasi esercitare) un potere; queste cose nel suo mondo non sono mai esistite, semplicemente. Così, questo ragazzo come tanti altri, semplice buono e civile, assolutamente non-eroe, è quello che ci insegna di più; almeno a me. Vogliamo sconfiggere Berlusconi ma così, distrattamente, senza troppo appassionarcene nè dargli maggior peso del dovuto. Combattemo il razzismo e le altre cose disumane per quello che sono, cioè estranee alla vita, indialogabili. Cammineremo nella storia, faremo la nostra parte, ma senza mai prenderla sul serio più di tanto. Sapendo che la storia profonda, quella che gl’intellettuali non vedono e che non è potere, è la più importante di tutte. E neanche sapremo esprimere queste cose in parole lucide, da poveri intellettuali del Novecento; ma ci arrenderemo a questo limite, umilmente. Infatti, basta il viso di un ragazzo buono qualunque - il viso di Giuseppe, per esempio - per raccontare con chiarezza ciò che serve. Che altro?

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