27.10.10

Antimafia. Impastato, Gatì, Saviano, Santino: a ciascuno il suo.

Ho già “postato” qui un pezzo su Giuseppe Gatì, un mio compaesano di cui vado fiero, il giovane che aveva coraggiosamente contestato Sgarbi in una sua “uscita” agrigentina sul finire del 2008.
Morì qualche settimana dopo in un incidente sul lavoro. http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/02/giuseppe-gati-un-mio-compaesano-di-cui.html)
Oggi mi ha commosso il vederlo ricordato da "L'altra Agrigento", un giornale agrigentino on line, che ne rievoca la morte, ma anche la scelta umana e politica: ne ricorda cioè la volontà di non andare via, di restare in Sicilia a combattere per il riscatto civile ed economico della propria terra contro le mafie, l’affarismo politico, il clientelismo.
(http://www.laltraagrigento.it/index.phpoption=com_content&view=article&id=1382%3Alultimo-scritto-di-giuseppe-gati-il-giovane-che-contesto-sgarbi-ad-agrigento&catid=39%3Aspeciali&Itemid=488).
Nel post si può leggere anche uno scritto di Gatì, presentato come l’ultimo della sua bella vita, una sorta di lettera a Peppino Impastato, il militante comunista rivoluzionario assassinato a Cinisi da Cosa Nostra, di cui, con le armi dell’impegno politico-sociale e della controinformazione, aveva denunciato i traffici, gli affari e i legami con la Democrazia Cristiana, partito che al tempo governava l’Italia, la Sicilia e il Palermitano.
Questa lettera ha di molto intensificato la mia commozione: di Peppino sono stato amico fraterno e compagno di lotta per un periodo breve, ma nel tempo delle grandi passioni e delle grandi speranze.
Una sola cosa un po’ mi amareggia (ma non mi sorprende del tutto): Giuseppe Gatì si rivolge a Impastato come se fosse soltanto o soprattutto un militante antimafia. Chi lo ha conosciuto e gli è stato vicino sa che così non è: la violenza mafiosa e criminale per Peppino, marxista e comunista, era manifestazione estrema della società capitalistica e la sua lotta alla mafia non era affatto tesa al ristabilimento della legalità “borghese”, a un mercato regolato senza pizzo o concorrenza sleale, a un capitalismo buono, ma piuttosto alla realizzazione di una società senza proprietà privata dei mezzi di produzione e senza sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Non casualmente egli riteneva che la forza principale dell’antimafia non fossero i magistrati e i poliziotti dello “Stato borghese”, utili ma del tutto insufficienti, ma i grandi movimenti sociali e culturali, i contadini, gli operai, gli studenti, l’intellettualità diffusa: a loro si rivolgeva con le sue denunce, non ai carabinieri o ai procuratori.
I cento passi di Marco Tullio Giordana sono un film che ha molto contribuito a far conoscere alle nuove generazioni la figura e la ricca personalità di Peppino. E' opera meritoria per tanti aspetti: la denuncia rigorosa dei depistaggi che coinvolsero organi dello Stato, per esempio. E tuttavia in quel film il comunismo, ch’era un aspetto fondamentale del modo di pensare e vivere del giovane Impastato, è poco più che uno sfondo e l’immagine che il film comunica della sua ribellione mi pare perciò monca di un elemento importante, quasi fondante.
Non credo che questa rimozione sia consapevole e intenzionale: essa è frutto di un tempo in cui sia la critica radicale del capitalismo che l’idea socialista e comunista di una società senza classi sembrano ormai, anche a sinistra, anacronistiche e improponibili. Viene anche da quel film, per tanti aspetti valido, l’immagine un po’ riduttiva di Peppino Impastato come un eroe della “legalità” e di un’antimafia senza aggettivi, passata tra i giovani, non escluso Giuseppe Gatì.
E invece l’antimafia di Impastato era accompagnata da aggettivi forti: antimafia sociale, antimafia rivoluzionaria. M’è capitato di scrivere di ciò in aprile su “micropolis” e a quel mio articolo, postato in questo blog, rimando.
(http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/04/comunista-patentato-da-micropolis.html).
Non nutro alcuna volontà polemica, in ogni caso, contro l’antimafia “borghese”, “militare” e “religiosa”, quella di magistrati, poliziotti, carabinieri, imprenditori, preti, giornalisti etc., che hanno fatto della legalità la loro bandiera e spesso hanno duramente pagato il loro impegno e il loro coraggio, nessuna sottovalutazione. Sono impegnato in “Libera”, punto di convergenza di associazioni e persone che insieme affermano valori e perseguono obiettivi comuni, pur riconoscendosi diversi.
Qui mi preme toccare un’altra questione. Un recente libro di Roberto Saviano, La parola contro la camorra, dedicando qualche pagina a Peppino Impastato ed alla sua storia, ha attribuito al film di Giordana il merito di aver messo fine ai depistaggi e di aver fatto riaprire le indagini. L’affermazione è del tutto inesatta: quando, sul finire del 2000, il film uscì, era già stato incardinato il primo processo sull’omicidio di Cinisi e la Commissione Parlamentare Antimafia aveva già aperto il caso Impastato anche in riferimento ai depistaggi. Erano i risultati di una battaglia che la famiglia di Peppino, i compagni più vicini, il Centro Studi Impastato diretto da Umberto Santino, avevano condotto prima in totale solitudine, poi con scarsi sostegni e appoggi, poi con un riscontro sempre più ampio di opinione pubblica. Si può dire che lo stesso film è frutto di questo diuturno lavoro di informazione.
Saviano ha mostrato nella sua storia professionale e civile coraggio e impegno, ma questa volta la rabbia contro di lui di Santino e del Centro Impastato, con la conseguente richiesta di rettifica, mi pare fattualmente fondata e politicamente giustificata. Credo che si sbaglino di grosso coloro che ad alte grida sui giornali o sulla rete considerano la cosa provincialismo, ricerca di protagonismo e simili.
Ignorare l’impegno dei compagni di Peppino, di coloro che più di tutti ne hanno continuato “l’antimafia sociale” negli studi e nella proposta politica, non è un peccato veniale, una  piccola manifestazione di spocchia e superficialità perdonabile in un grand’uomo come Saviano, ma contribuisce a mantenere in vigore una censura grave quasi quanto il depistaggio. Non si tratta, infatti, solo di rivendicare una battaglia controcorrente, condotta senza battage pubblicitari e senza il sostegno della grande stampa o di grandi formazioni politiche, ma di salvaguardare l’identità stessa di un combattente, il suo onore di comunista, di dare a Peppino ciò che è di Peppino. Non so se un intervento come questo, di un illustre sconosciuto in un blog poco frequentato, possa mai giungere al popolare scrittore, ma, se ciò accadesse, vorrei suggerirgli di sanare la ferita, di rimediare all’errore. Non sarebbe una diminutio capitis, ma un’azione di cui essere orgogliosi in pubblico e in privato.

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