21.9.13

Il parente licatese. Dai racconti dello zio Umberto (S.L.L.)

Lo zio Umberto
Dai racconti di mio zio Umberto Genovese ho saputo di un vecchio zio o forse di un giovane prozio del suo amico Stefano che s’era trasferito a Licata e lì aveva messo radici. Era arrivata, via pescivendolo, la notizia che, se non era morto, stava per farlo. Stefano mise 5 mila lire di benzina nella Bianchina e partì: la vecchia strada, 25 chilometri di curve, con quella ad U al passaggio a livello della stazione di Sant’Oliva. 
La casa era piccola, a pianterreno, così piena di gente, che qualcuno stava fuori, sulla strada. Ma a Stefano, parente forestiero, fu fatto spazio nella camera da letto. Erano una ventina quelli che avevano trovato posto lì, a osservare il vecchio corpaccione per cui dicevano non esserci speranza e che molti già piangevano per morto. Ma il morto, a un certo punto, aprì gli occhi, si levò e si mise a sedere. Gridò: “Siete una masnada di farabutti!”. Stefano commentò: “Sta proprio bene! Ci ha riconosciuti tutti”. 
Non si sbagliava. Dopo quella specie di morte lo zio di Stefano campò per diversi anni ancora: i rari incontri e le notizie del pescivendolo lo rappresentavano generalmente in buona salute, seppure non esente da qualche acciacco dell’età avanzata. 
Poi arrivò, di nuovo, notizia del suo passaggio a miglior vita. Stefano trovò sull’uscio della casetta licatese un paio di cugine, figlie del defunto che, all’uso siciliano, infarcivano il pianto di domande: “Ma come sei potuto morire? Ma quale fu la disgrazia che ti ha portato via?”. 
Stefano, dopo averle abbracciate e baciate, osò suggerire: “Forse è meglio chiederlo al medico curante”.

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