Come diventare un buon comunista è il titolo italiano di un libretto di Liu Shao-Chi, presidente della Repubblica Cinese negli anni Cinquanta e Sessanta, destituito e mandato a farsi rieducare in campagna durante la Rivoluzione Culturale (1966-1969), di cui fu uno dei principali bersagli. Il libretto, che era in uso come manuale nelle scuole cinesi di Partito ed era stato diffuso anche in Italia dai gruppetti filocinesi prima che esplodesse lo scontro al vertice del PCC, fu sottoposto a critica serrata dalle Guardie Rosse, che vi vedevano il concentrato del "moderno revisionismo" e la base pedagogica di costruzione di una "nuova borghesia", quei dirigenti del partito che si comportavano come padroni e gravavano sulla schiena del "popolo" piuttosto che porsi al suo servizio. Due aspetti se ne criticavano in particolare: il suggerimento di una "obbedienza" quasi servile dell'inferiore al superiore nella gerarchia di partito e quello di "far coincidere i propri interessi personali con quelli del partito", interpretato come un peana all'opportunismo carrieristico. Al libretto di Liu (il cui titolo originale era qualcosa come "l'autoeducazione del comunista") le Guardie Rosse cinesi contrapponevano gli slogan più libertari di Mao Tsetung come "Osare pensare, osare parlare, osare agire" o "Ribellarsi è giusto".
L'articolo che segue, un breve reportage dal "manifesto", racconta della grande quantità di giovani che aspirano a diventare membri del partito e di come si diventa comunisti in Cina. I criteri della selezione iniziale e, probabilmente, anche quelli della carriera di funzionari e dirigenti, oltre alle conoscenze teoriche e storiche, sembrano essere quelli che le Guardie Rosse e Mao contestavano: la disciplina cieca e il conformismo. Del resto i valori dell'attuale "società armonica" e dell'apparato dirigente dello stato e del partito cinesi, hanno radici assai profonde che risalgono ben oltre Liu Shao-Chi e rimontano alla tradizione della casta mandarinale, agli esami per la sua selezione, alla filosofia confuciana. Mao era l'anticonfucio ed è stato duramente sconfitto. Gli onori formali che in Cina il Pcc continua a rivolgergli, sottolineando che ha fatto più cose buone che cattive (il 60%), sono probabilmente un rito per tenerne buono il fantasma e impedire che torni ad aggirarsi tra gli sfruttati della città e della campagna e tra i giovani ribelli. (S.L.L.)
Tre milioni di nuovi tesserati in un anno. Il percorso per diventare
del Pcc è duro, ma poi si trova un lavoro
Il fascino indiscreto di un
Partito che ha saputo attuare una rivoluzione ed è ancora al potere, o l’ideologia
comunista con caratteristiche cinesi, o ancora il «sogno cinese» del presidente
Xi Jinping, o forse - e più probabilmente - solo una scorciatoia per trovare
lavoro e una sacca di potere da gestire nel proprio futuro.
Le risposte rimangono valide, anche
se c’è chi propende per l’ultima, ma il punto di partenza è certo e univoco:
secondo una ricerca del ministero della Pubblica Istruzione, gli studenti
cinesi si iscrivono in massa al Partito Comunista (Zhonguuo Gongchandang). Solo l’anno scorso se ne sono iscritti tre
milioni, nel prossimo anno è previsto che otto su dieci sceglieranno di avviare
il percorso per far parte del Partito Comunista più grande del mondo.
La notizia, che secondo alcuni
media di Hong Kong deprimerebbe chi spera nel crollo del Partito in Cina, in realtà
non fa che confermare un dato, ovvero la straordinaria capacità del Partito
Comunista cinese di farsi immagine e carico delle aspettative di gran parte dei
cittadini, con ogni strumento a sua disposizione. Durante gli anni
rivoluzionari il Partito era visto come sbocco finale di una ideologia che
aveva saputo mettere in atto una rivoluzione, sconfiggere di fatto i giapponesi
e proporre un paese socialista nel mondo che andava verso la Guerra Fredda.
Dopo la morte di Mao, con Deng Xiaoping e Jiang Zemin, il Partito aveva saputo
attrarre i «nuovi capitalisti» cinesi e mantenere saldo il controllo nelle zone
rurali, anche grazie al mutamento teorico fornito dalle «tre rappresentanze».
In epoca contemporanea la praticità dei cinesi si ritrova di nuovo raffigurata dalla
constatazione che per farsi strada, avere un lavoro e una fetta di potere da
esercitare nella seconda potenza economica mondiale bisogna iscriversi al
Partito; una nuova simbiosi di successo raffigurata da un elemento antico, che
assume nuove certezze: la «ciotola di riso» che negli anni precedenti le
Riforme era garantita dal socialismo, oggi diventa la «ciotola di riso di
ferro», garantita dal Pcc. Meno rurale, di sicuro meno comunista, ma più
redditizia e soprattutto più «giovane».
Intanto, come si diventa membri del
Partito Comunista? Non è mica facile, anzi, per uno studente si tratta di
svolgere alcune prove e accettare l’idea di sentirsi sempre sotto esame, non
solo dal punto di vista degli studi universitari. Jing Li è una giornalista assunta
in una delle riviste economiche più importanti del paese. Non nutre granché
fiducia nei suoi governanti, ma da anni è iscritta al Partito. All’epoca
dell’università aveva aderito per motivi che definisce «ideologici», anche se
specifica che in seguito ha capito che la tessera del Pcc era utile soprattutto
per trovare un buon lavoro. «I ragazzi si iscrivono per quel motivo», sostiene;
del resto la sua disillusione fu massima quando in procinto di realizzare la
tesi su come i media stranieri avevano parlato della crisi economica nazionale
del 1989, scoprì solo a vent’anni, quando da Wuhan si trasferì a Pechino, il
massacro di Tienanmen.
Proprio uno dei protagonisti della
rivolta del 1989, Wu’er Kaixi, ha detto al “Telegraph” che i motivi che guidano
gli studenti di oggi verso il Partito, sono tutt’altro che ideologici. «L’unica
cosa che posso dire - ha affermato l’ex leader di Tienanmen di origini uighure
- è che sicuramente non è l’ideologia che li guida. C’è un vuoto, anzi,
ideologico in Cina in questo momento».
La giornalista Li conferma i
passaggi necessari all’iscrizione, che i media, alla luce dei numeri di questi giorni
prodotti dal ministero della Pubblica Istruzione cinese, hanno raccontato.
Innanzitutto serve compilare una specie di application
da realizzare nella facoltà in cui si studia; dopo l’iscrizione per un certo
periodo bisogna scrivere delle relazioni che spieghino cosa pensa il candidato riguardo
una certa serie di temi. A quel punto per quelli selezionati comincia l’iter
vero e proprio: ogni tre mesi è necessario studiare una materia teorica extra
stabilita dal Partito (spesso si tratti di studi sulla storia del Partito);
questa prima fase si conclude con un esame.
Secondo quanto raccontato dagli
studenti, non sono ammesse assenze ai corsi. Dopo l’esame parte un nuovo
periodo di studio: una commissione analizza il comportamento del candidato, le sue
attività scolastiche ed extra scolastiche, con tanto di investigazione tra studenti
e professori. Alla fine di questo periodo c’è un voto che determina l’ammissione.
Ma prima di essere a tutti gli
effetti membro del Partito Comunista c’è ancora un periodo di «controllo» della
durata di un anno, durante il quale il candidato deve continuare la sua
produzione di relazioni.
Infine si è ammessi.
Si tratta di un processo lungo e
anche selettivo. Il Partito Comunista cinese ha infatti oltre 80 milioni di
iscritti; secondo molti dei suoi membri più influenti sarebbero perfino troppi
e anche per questo negli ultimi anni la selezione si è fatta più drastica: nel 2010
su 20 milioni di persone che hanno cominciato l’iter, solo il 14% è stato
ammesso. Il numero sempre più esiguo di persone promosse giustifica due cose:
chi entra nel Partito trova un posto di lavoro sicuro nella macchina statale e
dei funzionari e in secondo luogo dimostra che per quanto le riforme abbiano
introdotto meccanismi di mercato per i privati, lo Stato viene ancora visto
come posto sicuro in cui progettare la propria vita in Cina.
La trafila inoltre, almeno per
chi rimane nel Partito con lo scopo di diventare funzionario, prosegue unendo
modernità e tradizione (gli esami imperiali): lo studio continua, così come le
prove e gli incarichi, tanto che secondo alcuni autori, radunati dal professor
Daniel Bell in un volume di recente pubblicazione (Bell D. - Chenyang L., The East Asian Challenge for
Democracy:Political Meritocracy in Comparative Perspective, 2013) la Cina
starebbe ormai offrendo al mondo intero un esempio di meritocrazia capace di
confrontarsi con i più moderni – e spesso inefficienti - sistemi democratici occidentali.
“il manifesto”, 14 agosto 2013
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