Erano gli ultimi scampoli di
minigonne e zazzere, di figli dei fiori e speranze, prima che il gioco si
facesse duro e la politica, gli scontri, le stragi prendessero il posto della
musica. Prima che cantare e ballare diventasse roba da qualunquisti, e la
generazione dell'impegno si dividesse tra militanza e sedute di autocoscienza.
Palermo sognò come Woodstock, e per una stagione si prese la ribalta
internazionale non per la mafia, non per i Gattopardi, non per il suo passato
carico di splendori decadenti.
Diventò l'ombelico della musica,
in una kermesse che in quattro giorni di luglio del 1970 vide passare sul palco
dello stadio della Favorita Duke Ellington e Aretha Franklin, Brian Auger e
Johnny Halliday, Tony Scott e Kenny Clarke, gli Exseption e Arthur Brown. Già,
Brown, che si tirò giò i pantaloni e finì arrestato per atti osceni, con un
giovane Boris Giuliano a mettergli le manette. Parte da quel raduno,
probabilmente il più grande dopo Woodstock, da quei ventimila giovani sdraiati
ogni giorno sul prato tra spinelli e amori, Dreaming Palermo, il documentario
prodotto da Cinesicilia e firmato da Mario Bellone - film-maker, organizzatore
culturale e testimone di quegli anni - che sarà presentato stasera allo
Soasimo, nel corso del Seacily Jazz Festival 2010. Ma quell'evento, che è
prologo ed epilogo alla storia, è l'apice del racconto di una Palermo
inconsueta, dimenticata, custodita come un tesoro perduto dai protagonisti:
musicisti, giornalisti, organizzatori che sfilano davanti alla telecamera di Bellone.
Una Palermo - racconta il regista
- «che stupisce i ragazzi di oggi, convinti di appartenere a una città-palude,
provinciale, lontana dai grandi fermenti, senza sogni». E invece eccole qui -
riprese nelle belle immagini delle teche Rai - le strade che si risvegliano
dalla guerra, che archiviano la stagione del fascismo e le sue proibizioni. Nel
giro di pochi mesi, non c'è casa borghese dove il sabato pomeriggio non si
balli, mentre fioriscono i primi locali di jazz: Mirage, Miramare, Kalhesa,
Birreria Italia, Caffè Moka. E poi c'è l'Hotel Sole, dove è di casa Lucky
Luciano: sgancia dollari ai musicisti che gli fanno sentire le canzoni
napoletane.
Il jazz. Sono gli americani a
portarlo, con concerti improvvisati in strada, e in pochi anni dilaga,
conquista, risuona di libertà. Nel 1955 al Teatro Biondo arriva Louis
Armstrong. Una fotografia lo ritrae al giornale “L'Ora”, tappa obbligata di
intellettuali, artisti, scrittori di passaggio in città'. Due anni dopo, al
teatro Golden, un altro grande evento con Nat Coleman, Ella Fitzgerald, John
Johnson. Nel 1960 è il Teatro Massimo, il tempio della musica colta, ad aprire
per la prima volta al jazz. Il boom economico è alle porte, e Palermo sta per
vivere le Settimane di Nuova Musica con Stockhausen e la nascita del Gruppo 63,
con Eco e Sanguineti. Vedrà Sciascia e Guttuso bazzicare nelle gallerie d'arte,
cresciute in pochi mesi da due a quindici, o nella libreria dell'editore Fausto
Flaccovio. Vedrà i set di Visconti, Antonioni, Pasolini, ma anche La Conchiglia d'oro, kermesse musicale
con Mina, Ornella Vanoni, Enzo Tortora.
E' la vigilia di una nuova
svolta, quella stagione beat che tra il 1964 e il 1965 porterà a Palermo più di
trecento complessi. Frangette e basettoni sono socialmente e culturalmente
trasversali: padri contadini fanno cambiali per comprare la chitarra ai figli,
mentre i ragazzi di buona famiglia gremiscono i concerti del Clan 712 e dei
Gattopardi. Si suona ovunque: ai matrimoni, nei bar, negli stabilimenti
balneari, senza paletti, senza snobismi, senza soldi. E si balla, con la
minigonna e la sigaretta in bocca, mentre Franca Viola rifiuta il matrimonio
riparatore, mentre il pretore Salmeri combatte la sua battaglia contro i
manichini nudi delle vetrine, mentre si sentono i primi echi del Sessantotto.
Nel 1970 la grande kermesse di Palermo Pop 70, messa su da Joe Napoli,
il manager siculo-americano che aveva portato in Europa Chet Baker. Accanto ai
grandi nomi della scena internazionale, la cantante folk Rosa Balistreri e pure
Little Tony, Nino Ferrer, i Ricchi e Poveri, in un melting pot di alto e basso, di pop e di rock, di operai e
borghesi. Nel 1971 la replica, già in tono minore. I tempi erano cambiati, il
clima si era avvelenato, tra brigatisti, scontri, occupazioni. Per dirla con il
giornalista Francesco La Licata, «non c'era più spazio per la musica, ormai
c'era la politica».
"La Stampa", sette luglio 2010
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