IL BANCHIERE E SUA MOGLIE , Marinus van Reymerswaele, 1493 ca.-1567 ca., Madrid, Prado
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Nel 1965 Carlo Maria Cipolla dimostrava
brillantemente come fosse merito della tecnologia, delle «vele» e dei
«cannoni», non di una superiorità morale o culturale, se l’Occidente era
riuscito a imporre il suo potere sul resto del mondo.
Ma basta questa tecnologia a
dominarlo, soprattutto oggi? Parte da preoccupazioni molto contemporanee Daniel
R. Headrick nel suo Il predominio
dell’Occidente. Tecnologia, ambiente, imperialismo (Il Mulino 2011), in
particolare dalle guerre «asimmetriche» intraprese dal suo paese, gli Stati
Uniti, negli ultimi decenni: il Vietnam, i due conflitti in Irak,
l’Afghanistan. Guerre che hanno messo e mettono a confronto combattenti male
armati con eserciti ultramoderni e ipertecnologizzati. Eppure i risultati sono
sotto gli occhi di tutti: si tratta di conflitti che non possono essere vinti,
nonostante la tattica dei bombardamenti a tappeto impiegata dagli americani e
dai loro alleati.
Processi di rilancio
Le tecnologie insomma sono
importanti, ma non sufficienti; e anche in passato, sostiene Headrick, sono
servite dove le condizioni rendevano possibile il loro pieno utilizzo; altrove,
come nell’odierno Afghanistan, seminano morte e distruzione, ma non vincono la
guerra. È una storia della tecnologia militare al servizio dell’imperialismo, quella
dello storico statunitense, che mai cede il passo a discorsi sui meriti e le
ragioni di coloro che tali guerre hanno mosso e muovono: al lettore, insomma,
il compito di giudicare.
Il libro parte dalla conquista europea
delle rotte oceaniche, ossia dall’epoca a cavallo tra Medioevo e prima età
moderna, ovvero dal Rinascimento, come a partire dalla fine dell’Ottocento si è
soliti chiamare i secoli tra la fine del Trecento e il Cinquecento. Si tratta di
una periodizzazione che, come sempre, è arbitraria, ma che ha al suo interno
alcuni caratteri di uniformità. In particolare, l’Europa della seconda metà del
XIV secolo usciva da un cinquantennio drammatico, iniziato con ricorrenti
carestie e culminato nella Peste nera del 1347-50. Apparentemente distrutta e
spopolata, riuscì invece a risollevarsi rapidamente e ad avviare un processo di
stabilizzazione e rilancio che l’avrebbe preparata alla fase di espansione
oceanica della quale scrive Headrick.
Quali le cause di questa rapida
ripresa? Intanto, la lunga e possente febbre sociale, economica e spirituale che
aveva sconvolto la società europea del Trecento non mancò di provocare una
risposta da parte dei ceti dirigenti: risposta che si configurò come un vero e
proprio riassetto economico e produttivo e del quale la concentrazione dei beni
fondiari in un numero minore di mani e, quindi la riduzione numerica della
piccola proprietà agricola, è solo un aspetto. Dopo i grandi fallimenti a
catena degli anni Quaranta, le case bancarie impararono a darsi una struttura
più flessibile, in modo che il fallimento di una qualche filiale non
comportasse il cedimento dell’intero complesso.
Nuovi ceti dirigenti
Inoltre, il monopolio della
produzione tessile, fino a metà Trecento tenuto dai fiamminghi, tese a lasciare
spazio a Inghilterra, Olanda, Italia. Si facevano intanto largo anche attività
«industriali» dislocate ora non più in città, bensì in campagna, dove la
manodopera era più docile e a miglior mercato. In relazione alla ridefinizione
agricola, con la riduzione degli spazi destinati ai cereali a vantaggio di
piante «industriali», anche la manifattura tessile gettava ormai sui mercati non
soltanto panni di lana, ma anche tele di lino e di canapa, sollecitate anche da
una nuova moda che imponeva camicie e sottovesti.
Crebbe altresì di parecchio la
domanda della seta, mentre si sviluppò in modo decisivo la manifattura del
vetro. Insomma, si ha la sensazione che dopo la metà del Trecento la
popolazione europea, per diminuita e impoverita che fosse, consumasse
globalmente di più: il volume delle merci viaggianti aumentò; il che impose
l’uso di nuovi tipi di nave, adatte a stazze più forti e tali da reggere alla
navigazione oceanica in quanto, nel frattempo, porti del Baltico e del Mare del Nord avevano
aumentato la loro importanza. Nacque così la nave da carico di tipo oceanico
per eccellenza, l’alta e panciuta «cocca», in grado di trasportare grosse
quantità di merci.
A fronte di questi progressi nel
campo del commercio e della manifattura, si inauguravano o si perfezionavano gli
strumenti della contabilità e del credito: la «partita doppia», la «lettera di
cambio» e così via. Il surplus di queste attività veniva in parte anche
reinvestito nella proprietà fondiaria: in questo modo, si andò facendo strada,
specie in Italia, un ceto imprenditoriale e dirigente nuovo, che era
contraddistinto da connotati ormai «capitalistici», ma che al tempo stesso
conduceva una vita aristocratica, in parte addirittura imparentandosi con
famiglie di antica nobiltà.
Ripercorre quest’epoca un libro di
Élisabeth Crouzet-Pavan, Rinascimenti italiani
(1380-1500) (Viella, 2012), specialista di storia di Venezia e dell’Italia in
genere. E proprio al ruolo specifico dell’Italia sono dedicate le sue pagine;
d’altra parte, Italia e Rinascimento sono impensabili l’una senza l’altra. Le
città italiane erano motori di questo rinnovamento, tanto sotto il profilo
economico quanto e soprattutto per quello culturale.
Si è infatti abituati a definire «umanistica»
la cultura italiana del Quattrocento. Termini come umanesimo e umanista sono
naturalmente moderni: essi hanno tuttavia la loro radice primaria nel culto delle
humanae litterae, cioè della cultura
propriamente filosofica e letteraria maturata soprattutto nella Roma della
cosiddetta «età aurea», vale a dire tra I secolo a.C. e I secolo d.C. Insieme
con la restaurazione di una lingua latina letteraria più bella e corretta, si
guardava evidentemente ai valori morali e politici che gli autori della
latinità «aurea» avevano proposto. Conseguentemente, ci si ispirava a un ideale
umano di moderazione e di serenità e a un ideale politico di aristocratica libertà
che era del resto molto adatto a essere apprezzato dalle élites delle città italiane tre-cinquecentesche, le quali – non
diversamente, almeno in apparenza, alla Roma del I secolo a.C. – erano incerte tra
forme di governo repubblicano e soluzioni signorili-principesche. Anche se
furono evidentemente queste ultime a trionfare.
Intellettuali artigiani
Ma il lavoro degli umanisti non
era disinteressato. Al contrario, proprio in quanto artisti e studiosi talvolta
di umile origine, essi necessitavano di mezzi e di serenità sia professionali
sia interiori, e si volgevano dunque alla ricerca di mecenati e di protettori;
che trovavano nei grandi principi del tempo. Una protezione, quella di tali
personaggi, sovente generosa, ma non gratuita. Dal poeta e dall’architetto che
proteggeva e finanziava, il principe si aspettava celebrità e gloria: la
maggior parte delle opere d’arte del Quattrocento, le migliori incluse, sono
difatti opere celebrative fatte su commissione.
Il pensiero umanistico è ricco pertanto
di realizzazioni pratiche: raramente lo studioso era un puro intellettuale da
tavolino, più sovente era anche artigiano, e nel suo lavoro arte e tecnologia
s’incontravano. Questo legame fra cultura umanistica e esercizio del potere
spiega come, nel corso del Quattrocento, si sia affermata una serie di invenzioni
e di scoperte che hanno cambiato la faccia di quello che fino ad allora era
stato il mondo conosciuto. La polvere da sparo era conosciuta da molti secoli
in Cina, dove però non serviva a scopi militari; in Europa era usata fino dal
Trecento per rudimentali bombarde che lanciavano palle di pietra; furono però i
principi del Quattrocento e i loro ingegneri a perfezionare l’arma da fuoco
fino a farne uno strumento d’assedio tanto efficace da obbligare l’architettura
militare a inventare tutta una serie di nuovi accorgimenti protettivi. Anche la
stampa era usata già da prima del Quattrocento per la riproduzione rudimentale di
brevi scritti o disegni che venivano incisi su matrici di legno e poi impressi
su fogli: fu tuttavia a partire dal Quattrocento che essa divenne un nuovo
formidabile strumento di diffusione della cultura e della propaganda. Allo
stesso modo la cosmografia – rinnovata dagli apporti antichi riscoperti dagli umanisti
–, s’impose nel secolo XV non come scienza speculativa, bensì come strumento
per l’ampliamento della terra e per l’arricchimento dei sovrani che ebbero
l’audacia e la fortuna di promuovere i viaggi oceanici e le scoperte.
Un mondo in movimento
Era un salto notevole rispetto ai
secoli precedenti, quando verso le attività lucrative la società esprimeva un
ritegno ai limiti della diffidenza. È una storia che ricostruisce Jacques Le
Goff ne Lo sterco del diavolo. Il denaro
nel Medioevo (Laterza, 2012, pp. 220, euro 11): nell’XI secolo il vescovo
Adalberone di Laon descriveva le tre funzioni che rappresentano sulla terra
l’ordine voluto da Dio e, allo stesso tempo, gli elementi che garantivano
l’armonia nelle società. Oratores, bellatores, laboratores: ai primi spettava pregare affinché la stabilità del
mondo cristiano fosse mantenuta; ai secondi combattere, perché esso potesse godere
della sicurezza; ai terzi mantenere i due precedenti «ordini» con la propria
opera. Il termine labor indicava
fondamentalmente la fatica dei campi, quindi il lavoro agricolo. Tale
ripartizione dei doveri e degli incarichi corrispondeva a una precisa divisione
del lavoro e della ricchezza.
In una società in cui il denaro non
circolava, era naturale che la Chiesa considerasse sospetto e quindi
condannabile in quanto frutto d’usura qualunque tipo di guadagno non
direttamente acquistato con il sudore della fronte e quindi guardasse con
riprovazione al prestito (bandito come «usura») e ai commerci stessi. Nel
frattempo, nuovi ceti si erano andati costituendo: e già alla fine del secolo i
rappresentanti maggiori di essi, tenuti fuori dai comuni in quanto non
appartenenti alle aristocrazie cittadine consolari, chiedevano di entrare a far
parte delle compagini di governo. Chi era questa, che Dante avrebbe chiamato
con disprezzo «gente nova»? Spesso si trattava in effetti di ceti medi rurali inurbati,
ben provvisti di mezzi e favoriti dal flusso demografico ascendente, che faceva
crescere la richiesta di derrate alimentari sul mercato e favoriva quindi chi
possedeva terra coltivabile. Nelle città di mare, armatori e mercanti si erano
arricchiti soprattutto grazie alle crociate
e ai proventi del commercio delle
spezie e degli articoli di lusso.
Primati tecnologici
In tutti i centri, il sempre più
vorticoso bisogno di moneta liquida favoriva l’attività dei prestatori di denaro,
che ben presto si trasformarono in speculatori e imprenditori («banchieri»); e
infine la richiesta di beni di produzione sui mercati europei incoraggiava
l’attività manifatturiera.
Era questa la struttura di una
società evidentemente abbastanza salda da poter reggere a un cinquantennio di
grave crisi, per poi involarsi verso i fasti del Rinascimento, verso l’accumulo
e l’investimento delle risorse, verso la creazione di un primato tecnologico e di
un’ideologia atta a sfruttarlo fino alle ultime conseguenze per il dominio del
mondo.
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