Nel settimo centenario della
nascita di Francesco Petrarca, “il manifesto” accompagnò la notizia delle
celebrazioni con questo saggio di approfondimento. A mio giudizio ottimo.
(S.L.L.)
Nel 1374, alla vigilia della
morte, Francesco Petrarca consegna con estrema cura, alle carte del codice oggi
conservato presso la Biblioteca Vaticana, la redazione definitiva del Canzoniere: si tratta dell'ultimo atto
di un monumentale progetto autobiografico inaugurato almeno nel 1342, che
trascina nel corso degli anni un inarrestabile susseguirsi di rimaneggiamenti,
aggiunte, incontentabili manipolazioni; e che culmina nel libro di versi
(originariamente intitolato Rerum
vulgarium fragmenta) a cui viene affidata l'esemplare parabola esistenziale
di un amante - oltre che di un poeta.
«La sfinge è scoperta: l'uomo è trovato»
affermerà poi trionfalmente, nel 1870, Francesco De Sanctis, in
quell'avvincente epopea che è la sua Storia
della letteratura italiana, per dare addio ai «miti», alle «astrattezze
teologiche e scolastiche» offuscate e sepolte dall'apparizione di questo testo
miracoloso. Ma l'uomo che fa il suo spregiudicato ingresso, grazie a quei
versi, sulla ribalta della scena letteraria del ‘300 non è inerme, né sprovveduto:
la sua stupefacente epifania è sostenuta dagli ingranaggi di un solido
progetto, deve essere integrata nei meccanismi di una grande macchina da difesa
in cui tout se tient.
In versi e in prosa, il racconto
di sé
Per rendersene conto basta del
resto pedinare le mosse di Petrarca, riportare a galla il complesso itinerario
che gravita attorno alla composizione di alcune forme dei Rerum vulgarium fragmenta e le incorpora in un imponente, solidale
sistema: che comprende anche le Epistolae
metricae (anteriori al 1350), le lettere Familiares (concepite nel 1345, maturate nel `50 e assemblate
soltanto nel `66) e Seniles (rimaste
incompiute). Ne emergerà un disegno piuttosto articolato: è come se Petrarca,
di anno in anno, si preoccupasse di predisporre pazientemente le carte per
guadagnare alla propria autobiografia un legittimo spazio di rappresentanza e
architettare, pezzo dopo pezzo, un originale impianto espressivo in cui parlare
di sé. In verso e in prosa; in volgare e in latino: perché tutti gli scritti - Familiares, Seniles ed Epistolae in
testa - d'improvviso desiderano obbedire all'esigenza di volgersi indietro «e
ripercorrere, misurandole ad una ad una, le pene della giovinezza»; vengono
chiamati a collaborare con l'orbita autobiografica della lirica in volgare e
diligentemente spinti a concentrarsi sulla narrazione della storia di un
individuo. Che, per parte sua, non sembrava bisognoso di ulteriori
celebrazioni: la «gloria» gli era già stata consegnata, nel 1341, grazie a una
fastosa incoronazione in Campidoglio, allestita con ogni scrupolo e preceduta
da un favoloso esame effettuato alla corte di Napoli alla solenne presenza di
Roberto d'Angiò; era legata alla circolazione di scritti parziali - in latino e
in volgare - e all'erudizione conquistata a contatto con l'élite intellettuale
avignonese.
Petrarca, all'inizio degli anni ‘40,
era già l'uomo «illustre», di cui parla la breve notizia biografica composta
nel 1342 dal suo amico Giovanni Boccaccio. Ma questi onori non gli erano
sufficienti, come del resto non doveva soddisfarlo la sua maniera di fare
letteratura: soprattutto dopo gli avvenimenti di una data cruciale - il 1348 -
che, con una terribile peste, aveva sterminato i protettori del poeta; lo aveva
privato, al tempo stesso, del suo ruolo privilegiato e dell'oggetto di
desiderio, sottraendogli la «Laurettam»
che - stando alla notizia di Boccaccio - si diceva egli amasse «ardentissime». Era a questo punto
necessaria una decisa inversione di rotta: forse anche per rilanciare la
scommessa, e fare in modo che quell'io reso famoso dalla storia e dalla storia
stessa detronizzato, riacquistasse l'antico vigore grazie alle procedure della
letteratura. Anche se per arrivare alla meta era necessario scavalcare gli
interdetti di un sistema repressivo.
Indizi di un diffuso imbarazzo
Si racconta che Ernst Robert
Curtius, indispettito dalle reticenze documentarie di Dante Alighieri, abbia
sussurrato una volta all'orecchio di Gianfranco Contini: «Dante era un grande
mistificatore». Eppure una giustificazione agli accorti silenzi di Dante
potrebbe essere rintracciata proprio fra le pagine del suo Convivio, dove il parlare di sé viene bollato come un'operazione
illecita e chi dice io risulta
condannato a essere sconfitto dall'amor proprio, a contrabbandare un'indulgente
menzogna adottando le truffaldine procedure del «falso mercatante». Sembra che
Petrarca non fosse all'oscuro di una simile convinzione: perché quando
costruisce le strutture di un grande universo letterario sulla base di quella
stessa illegittima attitudine autobiografica, pare non riesca ad avvicinarsi
alla scrittura senza dover manifestare a più riprese un disagio narrativo
insistente e diffuso.
Le correzioni insoddisfatte, le
modifiche e i continui rifacimenti a cui vengono sottoposti i lavori del poeta
in vista della divulgazione potrebbero essere interpretati come indizi
dell'intrinseco, incancellabile imbarazzo con cui la storia dell'ego diviene il
centro di una nuova, rivoluzionaria letteratura: ma anche - e in maniera
complementare - del talento retorico con cui gli ostacoli e le censure vengono
abbattuti uno dopo l'altro e trasformati in maneggevoli credenziali di
veridicità. Finché la poesia non arriva ad assumere la potenza liberatoria
dell'alibi: consisterà - secondo quanto ci dice il Secretum, un dialogo
clandestino ideato nel 1347 e poi più volte rimaneggiato - in una rigorosa,
filologica raccolta degli «sparsi frammenti dell'anima» e, pur partecipando
della generalizzata arte della menzogna autobiografica di cui parlava Dante,
sarà apportatrice di un «vero» che dovrà essere spiato «per sottilissimi
spiragli».
E tuttavia la verità non sembra
aver nulla a che spartire con la chiarezza: le numerose vicende cantate nel Canzoniere risultano invece al lettore
moderno di difficile comprensione. Quando Vittorio Alfieri, nel 1766, durante
una visita alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, si imbatte in un famoso
manoscritto autografo di Petrarca, lo respinge con fiera noncuranza: reazione
dovuta non soltanto all'ignoranza giovanile, ma anche al rancore nutrito verso
le fredde arguzie di un autore che - racconta lo stesso Alfieri nella Vita - fin dai tempi della Reale
Accademia di Torino, il piccolo Vittorio aveva tentato di decifrare (aprendone
l'opera «a caso», «da capo, da mezzo, e da piedi») senza mai arrivare a
raccapezzarne il senso.
Contro questa spinosa e
problematica difficoltà interpretativa metterà in guardia anche Ugo Foscolo,
nei suoi Essays on Petrarch, scritti
a Londra attorno al 1820; e in seguito, nel 1824, Giacomo Leopardi che, apprestando
un commento al Canzoniere, si vedrà
quasi costretto a «tradurne» molti passi per neutralizzare le oscurità
sprigionate da un complesso sistema linguistico; e infine dichiarerà,
sorprendentemente, di aver riscontrato «pochissime bellezze poetiche» lungo il
corso di un lavoro complesso e tedioso. Affermazioni strabilianti: corroborate
tuttavia da parole dello stesso Petrarca che, dipingendo un parziale
autoritratto nell'epistola Ai Posteri,
aveva accettato di definire il proprio codice espressivo «fiacco ed oscuro».
La necessità di un commento con
cui supportare la lettura del Canzoniere
si rivela dunque un'esigenza incontestabile; soprattutto se aggiungiamo che
Petrarca, come ammetteva Leopardi - forse ricordando Alfieri - non è uno di
quegli scrittori che si leggono dal principio alla fine «seguitamente», «ma qua
e là, per lo più a salti e senz'ordine».
L'edizione del Canzoniere ripubblicata quest'anno nella
collana dei Meridiani (a cura di Marco Santagata, Mondadori) in occasione di un
anniversario importante sembrerebbe lo strumento ideale per scongiurare i
rischi di un percorso frammentario, erratico, disorganizzato, che stenta a
riconoscere le ingenti, calcolate impalcature strutturali di un poderoso
congegno autobiografico: è grazie al suo commento, aggiornato e puntuale, se il
lettore può ricostruire la storia sepolta in un alterno e sorvegliato
susseguirsi di sonetti, ballate, sestine e canzoni; proseguendo addirittura la
tradizione di una lettura parziale o disordinata, senza mai perdere di vista, neppure
per un istante, la complessa disposizione sistematica a cui ogni verso
partecipa per l'edificazione progressiva di una sorta di «romanzo».
Il lettore non dovrà anzi
dimenticare che il racconto del Canzoniere
non ha solida affidabilità documentaria: a Petrarca è invece costato le
programmatiche manovre di manipolazione referenziale su cui richiama
l'attenzione la premessa di Marco Santagata. Forse è proprio questa rigida
progettualità ad avere ferito il gusto di Leopardi: non c'è nulla di «vago» nel
Canzoniere, ogni tassello del suo
splendido mosaico testuale obbedisce alle esigenze artificiali di una macchina
narrativa.
Appunti per una conversione
spirituale
La libertà e l'orgogliosa
insistenza con cui viene infranto il dantesco interdetto all'autobiografia
impongono infatti alla scrittura un procrastinato sforzo di controllo e
rifondazione narrativa dei materiali biografici e prescrivono al poeta di
effettuare dispendiosi esercizi di ingegneria strutturale. Perché qualsiasi
gratuito azzardo autobiografico, nella seconda metà del `300, deve essere
trasformato in una utile, imitabile «auto-agiografia», magari sfruttando il
modello offerto nel V secolo dalle Confessioni
di Agostino: soprattutto nel momento in cui la «realtà» degli avvenimenti
rischia di trascinare sotto gli occhi del lettore un dissidio - come quello
relativo all'amore per Laura - sempre pronto a sconfinare nell'accidia del
peccato capitale.
Fin dalle prime battute del Canzoniere, Petrarca chiama allora a
raccolta un elitario tribunale di lettori, mobilita le loro abilità perché si
dispongano ad assistere a una saggia impresa di ordinamento - etico e
letterario. In precedenza, fra le pagine del Secretum, convoca lo stesso Agostino per farsi vietare, in presenza
della Verità, la ricerca della gloria poetica (il «Lauro») e dell'eros
(«Laura»): sulla scorta di una vantaggiosa esortazione alla cura di sé, si
affretta poi a radunare e sistemare gli sparsi frammenti della sua anima - le
rime in precedenza composte e talvolta pubblicate - per costituire, con un atto
spregiudicato e rivoluzionario, un libro il cui fulcro emblematico sia
rappresentato da una supposta «conversione» spirituale. E non si preoccupa se
poi i suoi versi non saranno affatto degni di comparire al cospetto della
Verità: piega, modella, ribattezza le scansioni della propria storia d'amore
perché combacino con le equilibrate architetture di una sorta di cattedrale
autobiografica; ristruttura, corregge e modifica, nel corso degli anni,
precedenti redazioni del Canzoniere.
Laddove mettano a repentaglio l'armonia significativa del disegno globale,
impone un nuovo ordine agli originari blocchi della sua costruzione; arriva
persino a riscrivere la cronologia della propria vicenda per costituire i
solenni anniversari di un personale calendario liturgico; e quando gli eventi
scarseggiano, non esita ad aggiungere originali invenzioni poetiche alla trama
del suo organizzato «romanzo a tesi». Per poi comporre - insiste Marco
Santagata nella sua introduzione - un autoritratto ideale, fondato sulla
successione di tempi e moduli fittizi; una storia piacevole a leggersi e - come
aveva intuito Leopardi - persino più «utile» di un romanzo, dove vita e
letteratura (biografia e romanzo, appunto) sono inestricabilmente fusi, nella
straordinaria coincidenza di verosimiglianza lirica e menzogna autobiografica.
Il piacere di contemplare un
certo errore
Blandito dalla dolcezza dei
versi, dal loro «suono», il lettore, per parte sua, non deve far altro che
presenziare a una grande, salvifica impresa di mistificazione. Fino ad
alimentare il sospetto che il divieto di Agostino - non amare Laura, non essere
poeta - venga eluso subito dopo esser stato pronunciato: è anzi il divieto,
assieme alla sua complementare esortazione, a permettere e giustificare la peccaminosa
epifania del poeta, funzionando come un astuto salvacondotto. Perché Petrarca
racconta un progressivo tragitto di emendazione dalle catene passionali ma non
si concentra, come avrebbe potuto fare, sul risultato della liberazione; e se
da una parte si focalizza sul presente di una conversione ideale, dall'altra si
adopera per riesumare il passato «errore», senza riuscire a nasconderci il suo
vero piacere: che è quello - dichiarato anche dalle Familiares - di rivedersi; di rivedere e recuperare, assieme al
lettore, il meraviglioso oggetto del desiderio con le sue tensioni irrisolte,
sdegni, manifestazioni miracolose, silenzi, negazioni e irrimediabili
scomparse. La condanna finale della «realtà» perduta riesce pur sempre ad
occupare uno spazio esiguo: è comunque la letteratura, l'ordine artificioso del
romanzo in versi, a trionfare sulla verità della vita.
il manifesto, 22 giugno 2004
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