L'attore italiano Gino Cervi nei panni del commissario Maigret |
Signor Simenon, perché
è diventato romanziere?
"Perché ho sempre avuto il desiderio di scrivere
romanzi. E, certo, non sono l'unico esemplare di questa specie. Per quanto mi
riguarda, comunque, è stata quasi una ricerca di me stesso. Ci si mette nella
pelle di un personaggio senza avere la minima idea di dove questo ci porterà.
Si segue il personaggio giorno per giorno, e solo quando si è arrivati all'
ultimo capitolo si comprende che cosa gli accade. Quando fu chiesto a Balzac: 'Che
cos'è il personaggio di un romanzo?' , lui rispose: 'Qualsiasi uomo della
strada è un personaggio da romanzo, purché scavi nel fondo di se stesso. Noi
tutti, invece, non arriviamo mai a scavare nel fondo di noi stessi...' . Il
romanzo consiste nel creare un gruppo sociale - cinque o sei persone, il numero
non ha importanza - intorno a un personaggio centrale; dopo di che all'autore
non resta che mettersi nella pelle di questo protagonista".
Attraverso i suoi
personaggi, lei ha cercato dunque di compiere una specie di operazione
psicoanalitica?
"Pressappoco. Voglio dire che ho tentato di capire se
quel tipo di uomo avrebbe reagito in un certo modo piuttosto che in un altro. E
mi creda, non c'era bisogno di dargli una spinta. Fino all'ultimo capitolo, io
non sapevo come il romanzo sarebbe andato a finire: il protagonista seguiva una
logica che non era la mia. Io vivevo la sua crisi; ed era una fatica
estenuante. E' questo il motivo per cui ho smesso di scrivere".
Prendiamo il suo personaggio favorito: Maigret. Forse perché
ha finito con l'assomigliarle - o il contrario -, Maigret manifesta una certa
concezione del mondo e dei contatti umani che sembrano essere i suoi.
"All' inizio Maigret era piuttosto semplice: un
omaccione mite, che credeva anche lui nell'istinto più che nell'intelligenza o
nelle impronte digitali o in altre tecniche poliziesche. Ne faceva uso perché
vi era costretto, ma senza farci troppo affidamento. A poco a poco, abbiamo
finito effettivamente con il somigliarci. Non saprei dire se è stato lui che si
è avvicinato a me, o io a lui. Certo è che io ho preso alcuni dei suoi vizi e
lui ha preso alcuni dei miei. Per esempio, ci si è spesso domandati perché
Maigret non avesse figli, lui che li desiderava tanto. E' questo il suo grande
rimpianto. Ebbene, la cosa è dovuta al fatto che, quando cominciai a scrivere
le storie di Maigret - devo averne scritte almeno una trentina, prima di
diventare padre - la mia prima moglie non voleva avere figli. Mi aveva fatto
giurare, prima che ci sposassimo, che non ne avremmo avuti. Io ne soffrivo
molto, perché adoro i bambini, proprio come Maigret. Perciò non potevo
raccontare di Maigret che torna a casa con due bambini che lo aspettano. Cosa
avrebbe detto ai figli, come avrebbe reagito alle loro grida, come avrebbe dato
loro il biberon di notte, nel caso che la signora Maigret fosse stata
indisposta? Lo ignoravo. Di conseguenza, ho dovuto creare una coppia che non
poteva avere figli".
Maigret ha un modo di
interessarsi alla gente che somiglia al suo. Una certa capacità di simpatia,
che in un poliziotto è insolita.
"E' vero. E' uno dei pochi personaggi da me creati, se
non l'unico, che abbia dei tratti in comune con me. Tutti gli altri, o quasi
tutti, non hanno nulla a che fare con ciò che io sono".
Si ha però la
sensazione che Maigret non creda molto nella giustizia, che per lui non vi
siano colpevoli, ma solo vittime.
"Io non credo che ci siano dei colpevoli. L'uomo è
talmente disarmato nell'affrontare la vita, che giudicarlo colpevole significa
quasi farne un superuomo... Non a caso la mafia è nata in America nel settore
più povero di New York, a Brooklyn. Per la strada, tra i ragazzini che
cominciavano ad azzuffarsi tra loro. Quando si prendono delle coltellate a nove
o a undici anni, cosa vuole che si diventi in seguito? Un bandito,
naturalmente".
Vi sono messaggi
coscienti, nella sua opera?
"In tutta franchezza, io ho tentato di creare dei
personaggi; e, facendolo, ho anche tentato di comprendere un po' meglio gli
uomini. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, è dai critici che ho appreso
ciò che avevo voluto dire. Scrivendo, non ne ero consapevole. D'altronde quando
scrivevo ero in un tale stato! Buttavo giù un capitolo di venti pagine in circa
due ore, perdendo otto etti di peso. E' una cosa che ho verificato: Teresa
pesava i miei vestiti prima che io li indossassi. Ebbene, ad ogni seduta
perdevo otto decilitri di sudore".
Più di cinque chili a
romanzo?
"Sì. Poi li recuperavo in meno di un mese. Quando si
scrive in questo modo, non si pensa ad esprimere delle idee, si pensa solo ad
accompagnare il proprio personaggio, a restare 'in stato di grazia' , vale a
dire in uno stato di completa vacuità rispetto a se stessi, per poter essere
'l'altro' . All'inizio, riuscivo a resistere in queste condizioni per undici
giorni; poi per dieci, per nove, e alla fine per sette giorni. Se i miei
romanzi hanno finito con l' essere scritti in sette giorni, è stato perché non
ero capace di resistere più a lungo".
Lei è quindi il
romanziere del subcosciente?
"Mi è appena passata per la mente una specie di boutade. Lei mi ha chiesto per quale
ragione sono diventato scrittore. Dopo aver parlato dell'intelligenza, della
coscienza e del subcosciente, mi viene quasi voglia di risponderle che forse ho
scritto perché fin dalla più tenera infanzia sono stato sonnambulo. Da bambino
avevo delle sbarre alla finestra perché ogni tanto, di notte, venivo ritrovato
in pigiama all'angolo della strada. Talvolta mi accadeva di alzarmi durante la
notte per rifare i compiti che avevo già fatto in serata. E sonnambulo sono
ancora oggi. Non voglio dormire da solo. Non posso dormire senza
sorveglianza".
I suoi personaggi non
amano comunicare. Parlano poco tra loro, si spiegano poco, si comprendono senza
ricorrere alle parole. Come se le temessero.
"E' vero. Le parole non hanno lo stesso valore. Perciò
io impiego così poche parole nei miei romanzi - non più di duemila -, benché ne
conosca certamente qualcuna di più.
Perché?
"Secondo le statistiche, vent'anni orsono un contadino
francese utilizzava per esprimersi una media di seicento parole. Gli impiegati
e gli artigiani delle piccole città usavano fra le ottocento e le milleduecento
parole. La piccola borghesia arrivava a una media di millecinquecento; solo le
persone dotate di una certa cultura disponevano di un vocabolario di
duemila-duemilacinquecento parole. Più parole vengono utilizzate in un romanzo
o in qualsiasi altro testo, meno probabilità si hanno di essere compresi, o almeno
di essere compresi nel modo giusto. Non esistono due persone che leggano uno
stesso romanzo nello stesso modo. Le risonanze di ogni singola parola sono
diverse a seconda dei lettori. Tanto vale, dunque, ricorrere al minor numero
possibile di parole e soprattutto al minor numero possibile di parole astratte.
Fin dall' inizio mi sono imposto di scrivere, per quanto è possibile,
utilizzando parole concrete. Tutti sanno che cosa è un tavolo. Un letto è un
letto, una nuvola una nuvola. Impiegando invece termini come
"sublime" o come "esteriorizzazione" - parole astratte - la
comprensione sarà diversa secondo le categorie dei lettori. Probabilmente è per
questa ragione che i miei libri sono stati tradotti in un centinaio di lingue.
Personaggi concreti, che non raccontano i propri stati d' animo ma che
agiscono, e dei quali si vedono le azioni e i gesti, sono uguali in tutti i
paesi".
Quali sono stati i
libri importanti per la sua vita? gli scrittori che l' hanno interessato,
influenzato? "Sono cresciuto in una pensione familiare, abitata quasi
esclusivamente da studenti russi. Perciò ho cominciato con la letteratura russa
perfino prima di conoscere quella francese: Gogol, Cechov, Puskin, Dostoevskij,
Gorkij prima di Balzac e di Flaubert. In seguito mi sono appassionato a Dickens
e a Conrad. Infine, ho letto Balzac e gli scrittori francesi dell' Ottocento.
Prima ancora, comunque, da bravo studente, mi ero applicato seriamente ai
classici".
E tra gli scrittori
più noti in Francia, come Stevenson?
"Per me Stevenson è un grande scrittore. Quando abitavo
negli Stati Uniti, sulla costa del Pacifico, andai a visitare la casa da cui
lui si imbarcò per le isole, a Monterey. Presso le tribù primitive ci sono i
cantastorie; ne esistono anche nelle isole del Pacifico. Quando Stevenson se ne
andò a morire, giovanissimo, a Samoa - era tisico - scrisse: 'Gli indigeni mi
hanno conferito il titolo più ambìto che io abbia mai ricevuto: mi chiamano il
cantastorie' ".
Quali sono i libri di
Stevenson che lei preferisce?
"L' isola del
tesoro, naturalmente. C' è però anche un altro libro, meno noto: una storia
di spionaggio che ha inizio nel retrobottega di un tabaccaio, Il dinamitardo. E' un libro
straordinario. Quel retrobottega di tabaccheria è uno dei ricordi più remoti
della mia infanzia".
E qual è il suo
scrittore preferito?
"Il più grande scrittore del secolo scorso: Gogol. Il
più grande scrittore del nostro secolo: Faulkner".
"la Repubblica" 5 maggio 1985
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