Leopoldo Grosso, vice presidente
del Gruppo Abele, è intervenuto di recente sul “manifesto” affrontando la
questione del “gioco d’azzardo patologico”. Mi pare che la sua denuncia sia chiara,
argomentata ed efficace, perciò ne suggerisco la lettura. (S.L.L.)
L’estensione dei danni provocati
dal gioco d’azzardo patologico è largamente sconosciuta. Non si dispone in
Italia – lo dice anche l’ultima relazione del Dpa al Parlamento - di alcuna rilevazione
sistematica su questo e i numeri cui ci si affida sono mutuati per analogia
dagli studi di altri paesi, oppure indiziari, oppure estrapolati da qualche
volonteroso studio locale. Valutare l’impatto del GAP (gioco d’azzardo
patologico) è invece importante, perché significa sapere come attrezzare i
servizi, capire quali investimenti effettuare per le cure, significa
soprattutto voler "vedere" il problema e smascherare l’ipocrisia che
fino ad ora, sul gioco d’azzardo, ha consentito di capitalizzare i tanti
profitti (dell’industria delle scommesse, dello Stato, della criminalità) ignorando
i costi della dipendenza.
Non c’è giocatore d’azzardo
patologico che non si sia indebitato con qualche finanziaria per decine di
migliaia di euro. Alcuni sono diventati facile preda degli usurai. Altri sono
andati in rosso coi conti bancari, poi hanno chiesto tutti i prestiti possibili
a parenti e amici, e infine hanno dilapidato i risparmi di casa, lacerando i
rapporti familiari. Quando subentra la patologia, le sicurezze affettive
consolidate sono messe in crisi dall’irrompere di emozioni negative e
dall’insinuarsi di sentimenti ostili: all’inizio lo shock, quando la famiglia
scopre l’impensabile, poi lo spavento e lo sgomento di fronte all’ammanco economico,
la delusione per il tradimento del patto di lealtà domestica; poi la rabbia per
il danno subito e il rancore di fronte alla difficile quotidianità dei debiti
da sanare. Si instaura in famiglia un clima di tormentato sospetto, che cresce
di fronte alle reiterate e disattese promesse di smettere, avvelenando così i
rapporti. La vergogna, ancora più che la colpa, getta un’ombra di fallimento che
tramite il giocatore avvolge l’intera famiglia. E’ la cronaca a dirci che, ogni
tanto, qualcuno "non regge" e si ammazza.
E sempre la cronaca ci ha
recentemente raccontato la notizia di un bambino trovato chiuso in auto dai suoi
genitori, totalmente "presi" dalle slot-machine: è il tipo di episodio che generalmente costituisce la
classica "prova manifesta", la "pistola fumante" in base
alla quale i Tribunali dei Minori sottraggono la potestà genitoriale a madri e
padri tossicodipendenti da eroina.
Il Codice Penale (artt. 718-723)
vieta il gioco d’azzardo, ma la legislazione in deroga, tramite le concessioni rilasciate
da Monopoli di Stato, fa dell’Italia una delle nazioni al vertice mondiale per
il fatturato del settore. Se si applicasse all’azzardo la terminologia utilizzata
per le droghe illegali, si parlerebbe di «pusher» per chi ne favorisce la
diffusione e di «cupole» per quanti ne traggono profitti, spesso illeciti.
Forse è per questo che si vuole continuare a negare la realtà della dipendenza
da gioco, chiaramente indotta dall’abnorme espansione dell’offerta, a sua volta
resa possibile dalla progressiva liberalizzazione del settore, avallata da 15
anni di governi, che si sono succeduti continuando a marciare nella direzione
del profitto (nel 2011, circa 80 miliardi di euro di fatturato legale, di cui
quasi 9 miliardi sono andati allo Stato). Le richieste di porre un freno, di correggere
il tiro, di assumersi la responsabilità delle conseguenze e di cambiare rotta
poste dalle associazioni che raccolgono i cocci di questa dipendenza indotta, sono
rimaste puntualmente e totalmente inevase. Al contrario, sulle droghe si
mantiene il pugno duro e la Fini-Giovanardi non si tocca. Consentiteci una
domanda ingenua: qual è la logica di tutto questo?
“il manifesto”, mercoledì 14
agosto 2013
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