9.9.13

Gioco d’azzardo patologico. Lo Stato è come un pusher (Leopoldo Grosso)

Leopoldo Grosso, vice presidente del Gruppo Abele, è intervenuto di recente sul “manifesto” affrontando la questione del “gioco d’azzardo patologico”. Mi pare che la sua denuncia sia chiara, argomentata ed efficace, perciò ne suggerisco la lettura. (S.L.L.)

L’estensione dei danni provocati dal gioco d’azzardo patologico è largamente sconosciuta. Non si dispone in Italia – lo dice anche l’ultima relazione del Dpa al Parlamento - di alcuna rilevazione sistematica su questo e i numeri cui ci si affida sono mutuati per analogia dagli studi di altri paesi, oppure indiziari, oppure estrapolati da qualche volonteroso studio locale. Valutare l’impatto del GAP (gioco d’azzardo patologico) è invece importante, perché significa sapere come attrezzare i servizi, capire quali investimenti effettuare per le cure, significa soprattutto voler "vedere" il problema e smascherare l’ipocrisia che fino ad ora, sul gioco d’azzardo, ha consentito di capitalizzare i tanti profitti (dell’industria delle scommesse, dello Stato, della criminalità) ignorando i costi della dipendenza.
Non c’è giocatore d’azzardo patologico che non si sia indebitato con qualche finanziaria per decine di migliaia di euro. Alcuni sono diventati facile preda degli usurai. Altri sono andati in rosso coi conti bancari, poi hanno chiesto tutti i prestiti possibili a parenti e amici, e infine hanno dilapidato i risparmi di casa, lacerando i rapporti familiari. Quando subentra la patologia, le sicurezze affettive consolidate sono messe in crisi dall’irrompere di emozioni negative e dall’insinuarsi di sentimenti ostili: all’inizio lo shock, quando la famiglia scopre l’impensabile, poi lo spavento e lo sgomento di fronte all’ammanco economico, la delusione per il tradimento del patto di lealtà domestica; poi la rabbia per il danno subito e il rancore di fronte alla difficile quotidianità dei debiti da sanare. Si instaura in famiglia un clima di tormentato sospetto, che cresce di fronte alle reiterate e disattese promesse di smettere, avvelenando così i rapporti. La vergogna, ancora più che la colpa, getta un’ombra di fallimento che tramite il giocatore avvolge l’intera famiglia. E’ la cronaca a dirci che, ogni tanto, qualcuno "non regge" e si ammazza.
E sempre la cronaca ci ha recentemente raccontato la notizia di un bambino trovato chiuso in auto dai suoi genitori, totalmente "presi" dalle slot-machine: è il tipo di episodio che generalmente costituisce la classica "prova manifesta", la "pistola fumante" in base alla quale i Tribunali dei Minori sottraggono la potestà genitoriale a madri e padri tossicodipendenti da eroina.
Il Codice Penale (artt. 718-723) vieta il gioco d’azzardo, ma la legislazione in deroga, tramite le concessioni rilasciate da Monopoli di Stato, fa dell’Italia una delle nazioni al vertice mondiale per il fatturato del settore. Se si applicasse all’azzardo la terminologia utilizzata per le droghe illegali, si parlerebbe di «pusher» per chi ne favorisce la diffusione e di «cupole» per quanti ne traggono profitti, spesso illeciti. Forse è per questo che si vuole continuare a negare la realtà della dipendenza da gioco, chiaramente indotta dall’abnorme espansione dell’offerta, a sua volta resa possibile dalla progressiva liberalizzazione del settore, avallata da 15 anni di governi, che si sono succeduti continuando a marciare nella direzione del profitto (nel 2011, circa 80 miliardi di euro di fatturato legale, di cui quasi 9 miliardi sono andati allo Stato). Le richieste di porre un freno, di correggere il tiro, di assumersi la responsabilità delle conseguenze e di cambiare rotta poste dalle associazioni che raccolgono i cocci di questa dipendenza indotta, sono rimaste puntualmente e totalmente inevase. Al contrario, sulle droghe si mantiene il pugno duro e la Fini-Giovanardi non si tocca. Consentiteci una domanda ingenua: qual è la logica di tutto questo?


“il manifesto”, mercoledì 14 agosto 2013

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