Sul “Ponte”, la prestigiosa
rivista fiorentina fondata da Piero Calamandrei, nel numero di luglio è apparso
un commento dell’ex giudice Ferdinando Imposimato che ricorda Giulio Andreotti.
Imposimato si ferma in particolare sulla vicenda del rapimento e dell’uccisione
di Aldo Moro, di cui è profondo conoscitore. Posto qui un ampio stralcio
dell’articolo, che mi pare netto nei giudizi e molto ben documentato. (S.L.L.)
Giulio Andreotti non fu un grande
statista, come sostengono molti suoi ex vassalli e cortigiani, e purtroppo
anche uomini delle istituzioni, come sembra di capire dalla sibillina locuzione
del presidente Giorgio Napolitano, che porta al divo Giulio «il saluto della
Repubblica». Ma io credo che il primo diritto degli italiani sia quello di
conoscere la verità, anche oltre le sentenze assolutorie e gli ipocriti
incensamenti ufficiali.
Giulio Andreotti, il primo
responsabile del disastro dei conti pubblici che stiamo pagando amaramente, era
legato al maresciallo fascista Rodolfo Graziani, che abbracciò e salutò
pubblicamente, e fu amico ed estimatore del mafioso Michele Sindona, mandante
dell'assassinio di Giorgio Ambrosoli, ed ebbe l'ardire di commentare il barbaro
omicidio con un cinico «se l'è cercata».
Già questo basterebbe a
descrivere la statura morale e politica del personaggio. Ma c'è di più: fu -
come a suo tempo fu testimoniato dalla segretaria di Gelli, Nara Lazzerini -
seguace e sodale del "venerabile" aretino, di cui raccolse le
indicazioni nella nomina di importanti vertici dello Stato e dei servizi
segreti. Non ebbe remore a incontrare Sindona mentre era latitante, anzi lo
definì «salvatore della lira», mentre costui frodava milioni di risparmiatori
facendo fallire quelle sue banche attraverso le quali riciclava il danaro
sporco di origine mafiosa. Ebbe intensi rapporti con esponenti di Cosa Nostra,
frequentando per anni mafiosi siciliani del calibro di Stefano Bontade, capo
della cupola, come fu testimoniato da Leonardo Messina, Gaspare Mutolo,
Francesco Marino Mannoia e Tommaso Buscetta. Buscetta lo accusò addirittura di
essere stato il mandante dell'omicidio del giornalista Mino Pecorelli, delitto
da cui però venne assolto in Cassazione, dopo una condanna a 23 anni in appello
a Perugia e un'assoluzione in primo grado.
Egli seppe, in una riunione con
Stefano Bontade a Catania, nella primavera-estate 1979, del progetto dello
stesso Bontade di uccidere Piersanti Mattarella, presidente della Regione
siciliana, che voleva moralizzare la vita politica siciliana, e non informò il
collega di partito, suo avversario politico, del pericolo imminente,
lasciandolo nel mirino della mafia, che poi lo uccise. Ricevette, nel suo
studio romano, il capomafia Tano Badalamenti, che poi sarebbe stato accusato e
condannato come mandante dell'omicidio di Peppino Impastato.
Questi episodi dovrebbero bastare
a giustificare il giudizio dato da un lucido Aldo Moro: «un regista freddo,
impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana
[...] indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria».
Scrisse Moro: «Lei durerà un po' più, un po' meno, ma passerà senza lasciare
traccia» (Memoriale di Aldo Moro,
trovato in via Montenevoso).
Andreotti fu anche l'uomo delle
trame occulte, della doppia impossibile fedeltà alla Costituzione repubblicana
e alla loggia di Licio Gelli. Fu l'uomo della copertura delle trame nere, come
ammise il capitano Antonio Labruna, e di un'organizzazione illegittima, Gladio, usata nella strategia della
tensione per fini politici interni. Il capitano Antonio Labruna del Sid si
attivò, secondo il racconto di Stefano Delle Chiaie alla Commissione
antiterrorismo, perché il neofascista uccidesse Mariano Rumor - che, quale
futuro presidente del Consiglio, stava tentando di portare i socialisti al
governo - e aprisse il varco alla guida del governo a Giulio Andreotti,
«l'unico che poteva salvare la patria», come disse Delle Chiaie in una
dichiarazione che poi sparì dagli atti della Camera.
Ma Giulio Andreotti è stato anche
una concausa dell'uccisione di Aldo Moro. Quale presidente del Consiglio
istituì, il 16 marzo 1978, assieme a Francesco Cossiga, per la gestione del
sequestro Moro, un «comitato di crisi» composto da uomini della P2, ostili a
Moro e al «compromesso storico». Il comitato agi per interferire nelle
decisioni della magistratura, impedendo l'esecuzione di ordini di cattura e di
perquisizione, escludendo dalle indagini la Procura della Repubblica e
l'Ufficio istruzione di Roma, tenuto all'oscuro di importanti notizie acquisite
nel corso dei 55 giorni, tra cui la scoperta della prigione di Aldo Moro.
Del comitato di crisi - istituito
illegittimamente - facevano parte Federico Umberto D'Amato (tessera P2 n. 554),
capo dell'Ufficio affari riservati del Viminale; il generale Giuseppe Santovito
(tessera P2 n. 1630), capo del Sismi, vertice di Gladio controllato da
Andreotti e da Cossiga; il generale Giulio Grassini (tessera P2 n. 1620), capo
del Sisde; il generale Raffaele Giudice (tessera P2 n. 535), comandante della
Guardia di Finanza; il prefetto Walter Pelosi (tessera P2 n. 754), capo del
Cesis; Giovanni Torrisi (tessera P2 n. 631), capo di Stato maggiore della
Marina militare; Franco Ferracuti (tessera P2 n. 2137), agente della Cia;
Pietro Musumeci (tessera P2 n. 487), vicecapo del Sismi - tutti affiliati, e
dico tutti, alla Loggia di Licio Gelli. La scelta di questi personaggi,
coinvolti in trame parallele contro la democrazia, venne decisa da Andreotti di
concerto con Cossiga.
Grazie alle informative dei
vertici militari di Gladio, che avevano individuato la prigione di Moro, in via
Montalcini n. 8, interno 1, fin dalla terza decade di marzo 1978, Andreotti e
Cossiga sarebbero stati informati dell'ubicazione della prigione e tenuti
costantemente al corrente degli sviluppi della prigionia da uomini guidati dal
generale Gianadelio Maletti, che da Forte Braschi impartiva ordini per il
controllo, la videoripresa e la registrazione. Alla morte di Moro, Andreotti
diede un contributo attivo, oltre che omissivo, avallando la vergognosa e
macabra messinscena del Lago della Duchessa, attuata la mattina del 18 aprile
1978.
D'accordo con Cossiga, consentì
la diffusione del falso comunicato n. 7 delle BR, redatto materialmente da un
mafioso della Magliana legato ai servizi segreti. Andreotti sostenne, contro la
verità, che quel comunicato era vero e autentico e proveniva dalle Brigate
Rosse, mentre esso era stato redatto per ordine di Cossiga e con l'assenso
dello stesso Andreotti, ed ebbe lo scopo principale di spingere le BR a
uccidere Moro.
La "scoperta" del covo
di via Gradoli, già noto ai servizi da prima del sequestro Moro, venne usata
contro il presidente della Dc per creare un'operazione di facciata contro le
BR, allo scopo di dissuadere il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, pronto coi
suoi Gis venuti a Roma da Milano, dalla decisione di liberare Moro, ridotto in
condizioni umilianti e degradanti a causa della lunga prigionia. Ma
l'operazione Lago della Duchessa non fermò il coraggioso generale dell'Arma e
gli uomini della Polizia di Stato, guidati da Emilio Santillo, i Nocs, che
avevano deciso di intervenire l'8 maggio 1978. Il commissario Pasquale
Schiavone, all'epoca responsabile dei Nocs, partecipò, con Santillo, Dalla
Chiesa e il capo gabinetto del ministro, Arnaldo Squillante, a una riunione al
ministero della Marina, qualche giorno dopo l'operazione Lago della Duchessa,
per mettere a punto un piano di intervento armato per la liberazione di Moro.
Tre "gladiatori" - un
ex bersagliere, un carabiniere e un ufficiale dell'esercito - hanno raccontato
che era stato programmato, per l'8 maggio 1978, un intervento armato in via
Montalcini, da eseguire da parte di uomini dell'Arma e della Polizia per
liberare Moro, e che da tempo tenevano sotto osservazione la prigione di Moro.
L'operazione prevedeva l'irruzione di un commando di otto persone appartenenti
ai Gis dei Carabinieri, sotto la guida di Carlo Alberto Dalla Chiesa, e di
altrettanti uomini della Polizia di Stato, appartenenti ai Nocs, ma fu annullata
il 7 maggio 1978 per ordine del ministro Cossiga, con l'avallo di Andreotti,
stando alla testimonianza di Oscar Puddu, un ufficiale che faceva parte di
Gladio.
L'appartamento in cui era
ristretto Aldo Moro era tenuto sotto controllo con sofisticate apparecchiature
di microtelecamere, intercettazione e registrazione dei colloqui che avvenivano
nella prigione, come testimoniato da due militari che speravano di salvare Aldo
Moro, dai servizi segreti italiani, inglesi e tedeschi, che si erano installati
nella casa sovrastante la prigione all'interno 3. A informare costantemente
Cossiga e Andreotti era un fedele collaboratore di Cossiga, il sottosegretario
Nicola Lettieri, nome in codice «l'Aquila», vicecapo del comitato di crisi, che
trasmetteva agli uomini di Gladio a Forte Braschi «gli ordini dei due esponenti
del governo».
(…)
Il ruolo di Cossiga e Andreotti
nella vicenda Moro è stato confermato da Steve Pieczenik, del dipartimento di
Stato Usa, venuto a Roma subito dopo il sequestro Moro. Pieczenik disse al
giornalista francese Emmanuel Amara: «Cossiga era un uomo che aveva capito
molto bene quali fossero i giochi. Io non avevo rapporti con Andreotti, ma
immagino che Cossiga lo tenesse informato. La decisione di fare uccidere Moro
non è stata una decisione presa alla leggera, abbiamo avuto molte discussioni
anche perché io non amo sacrificare le vite umane. Ma Cossiga ha saputo reggere
questa strategia e assieme abbiamo preso una decisione estremamente diffìcile,
diffìcile soprattutto per lui. Ma la decisione finale è stata di Cossiga e,
presumo, di Andreotti».
Se tutto questo è vero, ed è
difficile sostenere che non lo sia alla luce delle molte testimonianze, ogni
commento sulla statura morale e politica di Andreotti è veramente superfluo.
Non c'è bisogno di aspettare il giudizio della storia, come si pensa in alto
loco.
“Il Ponte”, Anno LXIX n.7, luglio
2013
1 commento:
E poi ci sono piscine comunali a rito scozzese..come spiegato in più articoli su il mensile La Strada del 09-10-2007 e su La Stampa di Cuneo del 13-11-2007. A Silvio Pellico altro massone di tutt'altre vedute a vedere i nuovi massoni gli verrebbe il vomito!
Morando
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