Rievocazione maschilista delle
cosiddette “case chiuse”. Il “grosso personaggio” della repubblica cui si
allude è Giovanni Spadolini. (S.L.L.)
Mentre Yvonne, la polesana, e
Wanda, l' emiliana capace di tenere un turacciolo sotto il pelo dell' acqua di
un bicchiere con il frenetico guizzare della lingua, accendevano di promesse
erotiche i salottini della tolleranza, poteva succedere davvero di tutto.
Niente di dannato, niente che assomigliasse a un inferno del sesso. Il
"tutto" che succedeva fuori, al di là delle persiane chiuse, perché
"quelle case", soprattutto se non erano di battaglia e di marchette
all' ammasso, rappresentavano una succursale dei caffè, un luogo di chiacchiere
fra amici vivificate dal balenare di un capezzolo, dai languori o dai
disponibili fervori di lussuria di quegli harem a prezzo fisso. Succedeva di
tutto. Nei pomeriggi e nelle sere di una società maschile che, al di là delle
ore familiari e dei vigilatissimi fidanzamenti, escludeva le donne, il casino
diventava persino luogo di studio. Si faceva flanella, preparando gli esami di
maturità. La "maîtresse" cantilenava: "In camera, andate in
camera. Date commercio", ma chiudeva un occhio su quei due ragazzi che,
nel "prima categoria" di San Remo, erano intenti al latino e
alternavano Seneca ai rapimenti per la bionda Wally: uno studio proficuo, se si
pensa che quei due liceali sono, oggi, fra i protagonisti di vertice del
giornalismo e della letteratura. Facevano flanella da "Saffo", a
Firenze, quelli della "Voce", continuando gli alti discorsi
politico-culturali iniziati al caffè delle "Giubbe Rosse" e
incuriosendo le quindicine al punto da legittimare, come ricorda Pietrino
Bianchi nel suo libro Le signorine d'Avignone,
le vanterie di Ardengo Soffici che assicurava: "Noi della Voce abbiamo
lettrici attentissime nelle case chiuse".
L' irsuto cattolicesimo di
Giovanni Papini, capintesta di quelle intelligenze, si ribellava alla singolare
propaganda di Soffici, ma non si ribelleranno Attilio Bertolucci, Spagnoletti e
Cesare Zavattini se la testimonianza di un mentore dell'intellettualità
parmense li cita nel gruppo che dal caffè Tanara di piazza Garibaldi portava le
sue discussioni di poesia, il suo accanimento letterario nel salotto verde di
Borgo Tasso, dove la signora Gina riceveva gli ospiti di riguardo e permetteva
lunghissime e dotte flanelle. Una decina d'anni prima, gli avanguardisti del
teatro che Bragaglia radunava in una cantina della romana via degli Avignonesi
non mancavano di traslocare le loro febbri artistiche fra le femmine del
"N. 10", fra le veneri a tassametro, fra le quindicine di primissima
scelta reclutate dai tenutari Tabucco e Bottiglion. Avevano diritto a uno
sconto sulla "doppia", purché rispettassero senza indiscrete
curiosità il grido di "libero, libero" che la "maitresse"
lanciava a mo' di ordine tassativo, quando si preannunciava la visita di un
personaggio di riguardo. Nel gergo dei casini, quello era il "momento del
monsignore".
Non si trattava di alti prelati
posseduti da improvvise tentazioni. I "monsignori" erano gli
altolocati, i clienti che non volevano essere riconosciuti. Ne vantava anche il
"Porlezza" di Milano che, nonostante la tariffa (25 lire per la
"semplice"), era, negli anni Trenta, la consueta tappa serale dei
"cappotti lisi", il gruppo degli intellettuali che avevano trovato
lavoro da Rizzoli, da Mondadori, ma non avevano ancora sfondato e tiravano la
vita con i denti: Salvatore Quasimodo, il futuro Nobel, Leonardo Sinisgalli,
Raffaele Carrieri, Giuseppe Marotta, Alfonso Gatto, Arturo Tofanelli. Furono
loro i ciceroni delle giornate milanesi di Le Corbusier che era già un mito
dell' architettura. "Organizzarono un giro by night", racconta
Gaetano Afeltra che era, allora, un ragazzino, "Mangiammo al "Pesce
d' oro" di largo Santo Stefano. Poi, via nella notte. Lì accanto, c' erano
le case del Bottonuto, del Poslaghetto. Ma, dopo una carrellata del liberty,
uno sguardo alla "Ca' bruta" di Muzio e ai nascenti marmi dello stile
piacentiniano, puntarono verso i veli e i profumi, gli scuri legni di "San
Giovanni sul Muro", detto anche "Porlezza" perché faceva angolo
con quella via. Io c'ero già stato nel pomeriggio, per festeggiare i miei
diciott'anni. Sciura Maria, la portiera, mi vide e borbottò
"ancora!". Era sospettosa. Sapeva che quei tipi avevano la
frequentazione facile e la "consumazione" difficile, dati i prezzi.
Ci aveva inquadrati come flanellisti. Ma Le Corbusier la intimorì, con un gesto
che garantiva almeno una "doppia". Salimmo al primo piano. Non ricordo
se la grande firma dell'architettura consumò. Ricordo che, mentre veniva
assediato dalle signorine in quel salottino dall' arredo alberghiero, chiese
carta e matita. La signora Bigina, una " maîtresse" che non incitava
alla camera ma non ammetteva neppure pigrizie nei divani, non fiatò. Le
Corbusier cominciò a disegnare le linee di un'ideale casa di piacere. Un raptus
creativo. Quel disegno sparì. Qualcuno sospetta sia stato l'architetto Pollini,
il padre del pianista, a incamerare quel cimelio".
Soffici e Prezzolini maturavano
in casino i contenuti della "Voce". Le avanguardie di Bragaglia
rispettavano la tradizione amatoria in via degli Avignonesi. Le Corbusier
progettava al "Porlezza". Intere generazioni di italiani ossigenavano
di visioni erotiche gli studi, le meditazioni per la tesi di laurea sotto gli
sguardi, materni, protettivi delle "orizzontali", mentre le
direttrici dall' alto della cassa ruminavano lo sprone: "Fate lavorare le
signorine che sono brave". Nei casini succedeva di tutto: un tutto che
spesso aveva poco a che fare con la voglia d' orgasmo. Nella quotidianità, era
un continuare la vita, le serate al caffè, l' abitudine degli incontri al
biliardo, le amicizie, i sodalizi intellettuali, in una sorta di bagnomaria del
voyerismo, dell'occasione facilissima se d'improvviso arrivava l'uzzolo di una
"sveltina". I casotti erano ovviamente il luogo deputato dei riti
fallici legati all' addio al celibato, al debutto della virilità quando
scattavano i 18 anni (ma la scolorina e la complicità delle "maîtresse"
permettevano di anticipare quelle fatidiche date), alle feste dei coscritti, ai
riti goliardici che obbligavano le matricole di Pavia a correre, in gara, verso
la "Grotta Azzurra", trasportando in carriola un "anziano"
per vincere un'intera giornata di carezze e sgroppate. Erano la garanzia di
orgasmi igienici e digestivi, di fisiologiche cadenze settimanali per chi non
aveva mogli e amanti, per i timidi. Erano considerati la necessaria palestra di
rodaggio per i giovani e, al "Dollaro" di Napoli, Tosca, una
veemente, bruna ciociara, si pubblicizzava passando fra i clienti e
dichiarando: "Ne ho sverginati ottocento". Ma non è mai questo
aspetto più marcatamente sessuale che le melanconiche memorie degli ex clienti
portano in primo piano. Raramente, le narrate nostalgie (sono quasi sempre
nostalgie per la lontana giovinezza, non rimpianti per il sistema delle case archiviato
dalla legge Merlin) enfatizzano il lato erotico della tolleranza perché, in tal
senso, la materia era scarsa e per niente orgiastica.
I "paradisi" erano
fuggevoli assai più di quei venti minuti stabiliti, nel 1862, dal governo
Rattazzi come tempo medio di una "semplice", con una visione
piuttosto generosa delle cadenze di una marchetta. Fuggevoli e sostanzialmente
frigidi, da conigli. La memoria di quel sesso non indulge mai a descrizioni di
acrobazie, di molteplici e dannati deliri, di partite a tre, di amplessi sotto
l'occhio del "guardone" a cui, per 75 lire negli anni Cinquanta, la
"maîtresse" riservava un pertugio sulle prospettive amatorie. Grigio
di chiome e bolso di orgasmi, qualcuno tramanda le qualità erotizzanti delle
dorate sedie a trono del milanese "Disciplini" destinate ai lavori di
bocca, degli specchi di "San Pietro all' Orto" che moltiplicavano, in
un gioco di riflessi a catena, le sinuosità delle "faticatrici". Ma,
nel tema sesso, la memoria batte e ribatte su virtù lontane mille miglia dall'
idea dell' erotismo sfrenato e dannato.
Le "signorine", lo
scrive Mario Soldati, erano "amabili e soccorrenti figure" e i
rapporti "squisitamente e profondamente umani". Se Paolo Valera,
reporter ottocentesco nel "ventre" di Milano, descriveva spietatamente
il cadavere di Ermenegilda Bianchi, la "zia", l'imperatrice delle
"maîtresses" ("Ho provato ad alzarle la palpebra che faceva
sepolcro alle sue porcaggini e ho subìto un'impressione disgustosa"),
Soldati parla di queste registe dei casini, del "Massena", del
"Raffaello" di Torino, dei romani "Fontanella Borghese" e
"Grottino", ricordando "il garbo paziente e insinuante, la
dolcezza, la familiarità, il senso di sicurezza e di protezione". La memoria,
insomma, tradisce una realtà: in quelle case, il maschio non era gallo, ma
pulcino e spesso spaurito, bisognoso, appunto, di "figure
soccorrenti". Non è, dunque, il sesso a infittire le sempre tenere
evocazioni dalla parte dell' ex clientela. E' ricorrente, invece, una debolezza
d'orgoglio. Nell'esercito dei frequentatori, ormai nonni, sono pochi quelli che
non sbandierano un amorazzo da casino. Ai tempi, venivano chiamati, nel gergo
delle case, "lime", "capperi", "torcinoni".
Erano, scriveva Giancarlo Fusco, i "fidanzati della tolleranza". I
più spavaldi si vantavano: "L'ho fatta godere". Ma i più dicevano
agli amici: "Mi ha dato un appuntamento fuori, quando finisce la
quindicina". Nella memoria, ognuno ha una ricambiata cotta sullo sfondo di
"Borgo Tasso" a Parma, di Vico Lepre e del "Castagna" (nel
dopoguerra, la maîtresse timbrava una scheda e, ogni tre marchette, ne regalava
una) di Genova, del "Ferrovia" di Napoli, dell' "Orientale"
di Venezia. E' il solo risvolto di letto, d'alcova nei ricordi e non a caso il
sesso ne esce intenerito dall'amore, dalle passioncelle. Nessuno mitizza l'erotismo
della tolleranza, mentre le melanconie tambureggiano sugli arredi, sulla
"belle èpoque" dei lampadari, delle statue di "San Pietro all'
Orto" che era provvisto di una camera con botola e passaggio segreto sino
alla strada per chi voleva concedersi un orgasmo in clandestinità, sulla
perfetta dentatura delle ragazze del milanese "Alberto Mario" che
pagava alle "signorine" i servizi di un odontoiatra, sui profumi
delle case che era soltanto un sovrabbondare di colonie, di essenze per
debellare l'indebellabile sentore di lisoformio, di creolina, di permanganato
di potassio, di sudori e umori degli amplessi. Nella "recherche" dei
casini perduti, l' autentico "leit motiv" è quel "succedeva di
tutto", a testimoniare come i bordelli non fossero che una succursale
della vita quotidiana separata soltanto dalle persiane inchiavardate. "In
anni grami, passava in casino anche la storia e il clima del casino la poteva
cambiare", racconta un fedelissimo della "Rina" di Firenze.
Passava la politica, il fascismo e l' antifascismo. "La "Rina"
era il punto d' incrocio fra repubblicani e gappisti", racconta. "Il
capitano Carità, un commerciante di radio di via Calzaioli che si specializzerà
in torture, era un assiduo. Ma assiduo era anche Paolo Pavolini, un partigiano
che, più tardi, a guerra finita, diventerà una firma del giornalismo. Pavolini
aveva una grande dimestichezza con la "maîtresse". Ogni settimana,
portava le ragazze in carrozza alle Cascine, perché prendessero aria. Quando
gli alleati si avvicinarono alla città e i tedeschi minarono tutti i ponti
dell'Arno, "La Rina" dovette traslocare. Portò letti, specchiere e
veneri in casa di Pavolini che, intanto, aveva messo a punto un attentato: l'uccisione
di un già corposo giovanotto che aveva avuto la debolezza di collaborare a un
giornale repubblichino e che, oggi, sta nell' empireo dell'alta politica. Tutto
era pronto. Il commando avrebbe dovuto agire alle otto di mattina di un lunedì.
Ma, nel mezzo c'era la domenica e fu, nella casa di Pavolini trasformata in
compiacente "maison", una domenica di baldoria. Durante il trasloco,
"La Rina" aveva perso Dedè, la più bella della quindicina. Pianti,
ansie, preoccupazioni. Dedè riapparve proprio quella domenica. La credevamo
finita chissà dove e festeggiammo, con una mangiata, troppe bottiglie di rosso
e una nottata che la madama ci concesse senza tariffa. Festeggiò anche il
padrone di casa che avrebbe dovuto guidare il commando gappista. E, il lunedì
mattina, non si svegliò. Un pezzo grosso della nostra Repubblica deve la vita
all'umanissimo clima, alla deboscia di una casa di tolleranza, dove
probabilmente lui non ha mai messo piede".
“la Repubblica”, 27 luglio 1985
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