L'articolo che segue non contiene rivelazioni. Quel che descrive è una realtà della quale - chi più chi meno - abbiamo avuto qualche assaggio. Sarebbe sbagliato vedere in tutto ciò soprattutto emarginazione e razzismo, insomma qualcosa di lontano, di altro da noi, su cui riversare buoni e caritatevoli sentimenti impropriamente chiamandoli solidarietà. In verità ghetti come quello di cui si racconta rischiano di crescere in numero ed ampiezza, inglobando in misura sempre maggiore indigeni, non solo immigrati. (S.L.L.)
Da lontano non si vede. Campi sterrati, campi appena
piantati, campi in maturazione. Campi dietro campi: devi arrivare a cinquanta
metri per vedere le prime «case», accolte in una leggera infossatura del
terreno che le nasconde alla vista, ombelico della terra: il Ghetto. Lo chiama
così chi ci abita: il Ghetto. Non «il ghetto di Foggia», il Ghetto. Un nome,
non un giudizio. È una città: con le sue strade, gli assi ortogonali che di notte
diventano «il corso», le piazze là dove ci sono i bidoni dell’acqua potabile, i
rubinetti di quella non potabile per lavarsi. Una città che ospita in questi
giorni mille e trecento persone, in larga parte giovani maschi africani che di
giorno vanno a fare i braccianti nei campi in Capitanata, la seconda pianura
d’Italia dopo la val Padana.
Il primo impatto è straniante. Baracche, nient’altro. Un
lusso le pareti di bandone o lamiera. Di regola le colonne portanti sono di
assi di legno su cui viene inchiodato compensato di risulta e vecchi cartelloni
pubblicitari. All’esterno grandi plastiche a fasciare le strutture, solidamente
fermate dai tubi dell'irrigazione inchiodati sul legno. Vecchi infissi
ripescati in discarica, rare e piccole le finestre, la luce entra dalla porta,
a volte protetta da un porticato; gran uso di tapparelle come staccionata.
È cominciato così: qualche casa colonica abbandona, occupata
e riattata per la stagione. L’anno dopo accanto alle case, ecco le prime
baracche, che l’inverno venivano smontate, ma già qualcuno si fermava nelle
case. Poi le baracche si sono moltiplicate, molte sono abitate anche d'inverno.
Dopo i fatti di Rosarno, vi si sono rifugiate 150 persone. Lo scorso dicembre
c’erano 250 abitanti e, dopo la chiusura di «Emergenza Nordafrica», in maggio
c’erano già 500 persone. L’anno scorso erano 900, quest’anno 1.300.
Eppure l’uniformità del sistema di costruzione dà uno stile,
una riconoscibilità a queste abitazioni molto diverse dalle baracche degli
immigrati campani o abruzzesi alle porte di Roma fino agli anni ‘80 affogati
nel degrado. Qui grazie alla Regione Puglia c’è l'acqua, potabile e no. I bagni
chimici. La raccolta dei rifiuti; se qualche plastica viene portata per i campi
via dal vento battente è perché i sacchi accuratamente chiusi non vengono tutti
raccolti, e i randagi li lacerano a morsi nella notte. Due volte a settimana
c’è il furgone di Emergency che fa ambulatorio (ma la Asl?). C'è persino Radio
Ghetto, affiancato dalle Brigate di solidarietà attiva, che trasmette nelle
moltissime lingue che si parlano in Senegal, Mali, Guinea Bissau, Costa
d’Avorio, Guinea Conakry.
Non c’è luce: di notte sono i punti di ritrovo a colorare di
neon la strada principale. Da luglio a settembre c’è il campo di lavoro di «Io
ci sto», ragazzi e non che dalle 17 alle 21 insegnano italiano e insieme ai
ragazzi senegalesi e maliani riparano le biciclette, indispensabile strumento
di mobilità. Due volte a settimana ci sono gli «avvocati di strada» che
informano su diritti del lavoro e permessi di soggiorno. Ogni tanto compare
qualche sindacalista, ma senza un luogo attrezzato, una postazione, un
appuntamento fisso.
È vero, non c'è solo il Ghetto. In Capitanata sono 22 mila
residenti, a cui si aggiungono per la stagione della raccolta altre 16 mila
braccianti. Oltre agli africani. Sono gli europei (rumeni, polacchi, albanesi)
che occupano i ruderi delle case coloniche o trovano altri ricoveri di
necessità e a volte vengono segretari e schiavizzati. Ma il Ghetto è un'altra
cosa. Un bel libro, L’urbanistica del
disprezzo, descrive come vivono in Italia i rom, e perché. Più che il
disprezzo, per il Ghetto c'è invece «l’urbanistica dell’esclusione», dello
sfruttamento. Lontani dalla città quando c'è scuola un pullman garantisce
almeno il collegamento con Rignano, d'estate c’è solo una corsa alle 7.40 con
ritorno verso le 10 nemmeno visibili, chi sta al Ghetto non ha che da lavorare,
dormire, mangiare.
C’è qualche «ristorante» che funziona anche da bar e a volte
da bordello, frequentato anche da italiani, c’è un barbiere, uno spaccio, il
mercato: qualche ambulante che vende abiti usati e stoffe: soprattutto tende,
grandi tende da interni che vengono drappeggiate nelle stanze per nascondere le
pareti e abbellirle con cura. C'è un mercato informale, a volte illegale. Ma
c’è anche solidarietà, nessuno rimane digiuno anche se non ha trovato lavoro.
Ora c’è chi vorrebbe cancellarlo. Una vergogna, dicono:
buttiamolo giù. Meglio una tendopoli, ingressi controllati, mensa e polizia (e
magari qualche nuovo posto di lavoro per italiani). Ma chi non ha il permesso
di soggiorno sarebbe escluso, di nuovo. Di nuovo dovrebbe costruirsi una
baracca nascosta. Il Ghetto è una vergogna. Sotto però c’è un’altra vergogna:
quella dello sfruttamento, del caporalato che, nonostante la legge lo vieti, è
più vivo che mai. Una vergogna le paghe da fame, 3.50 euro l’ora contro le 7.36
del contratto. E c’è qualche azienda che si spinge anche più in basso: domenica
scorsa una squadra di undici braccianti si è sentita proporre una paga di 2.50
euro. Hanno rifiutato, e ci vuole coraggio, sono tornati al Ghetto.
Alla grettezza delle aziende si aggiunge il giogo del
caporalato. I caporali, o i «capineri» (africani che ormai li hanno quasi
sostituiti), tengono i contatti con le aziende, organizzano le squadre e le
portano sul posto di lavoro riscuotendo 5 euro a testa, contrattano e ritirano
le paghe e ci fanno una congrua cresta. Di norma strappano alle aziende 5 euro
l'ora, ma al bracciante ne arriveranno 3.50. Meccanismo perfettamente descritto
dal corto Caponero Capobianco
(http://www.iocisto. eu/i-media/video-2/162-caponero-capobianco.html)
Se un bracciante avesse un contratto normale, potrebbe
pagare un affitto e vivere a Foggia. Questo è il modo giusto per distruggere il
Ghetto. Qualcuno ce la fa, una sessantina di persone almeno tornano al Ghetto
solo per ritrovare gli amici. Giacché il ciclo delle culture si è ampliato (si
comincia con l'orzo e il grano, poi pomodoro, zucchine e melanzane, cipolle e
zucche, uva e olive, broccoletti e finocchi e carote) qualche rara azienda ha
scelto di dare un contratto. Ma sotto molti dei contratti registrati all’Inps
c’è un inganno: si assumono parenti e amici che non andranno mai nei campi ma
riscuoteranno contributi e cassintegrazione invernale, così chi lavora davvero
è truffato 2 volte.
Lavoro pulito e dignità, questo è il piccone che può
distruggere il Ghetto. Ogni alternativa lascia intatto il problema e lo
nasconde sotto un tappeto diverso. In quella città negata c’è «un serbatoio
prezioso dice Arcangelo Maira, sacerdote scalabriniano con un lungo percorso da
migrante e missionario, direttore di Migrantes per la diocesi
Manfredonia-Vieste-s.Giovanni Rotondo e animatore di Io ci sto di energie e
speranze per questi ragazzi migranti. E ci sono piccole azioni positive. Come
la scuola di italiano, che dà uno strumenti indispensabile di cittadinanza.
Come la ciclofficina, che mantiene in efficienza un mezzo di trasporto
economico così da bypassare il caponero e andare direttamente a contrattare la
giornata di lavoro. Ma soprattutto l’incontro tra giovani italiani e giovani
braccianti, i cui contatti con gli italiani si limitano spesso a poliziotti,
caporali, mafiosi e sfruttatori. L’incontro produce rapporti, fermenti,
fiducia.
I braccianti hanno l'obiettivo di mandare 50 euro al mese a
casa, per i loro villaggi è uno stipendio rispettabile. Ma se avessero più
giustizia, una paga decente, una casa, una famiglia, magari investirebbero qui.
Trent’anni fa noi italiani raccoglievamo pomodori per 12.000 lire l'ora, 6
euro. Oggi i braccianti ne prendono 3.50 e nei mercati il pomodoro costa tre
volte di più. Perché il bracciante prende la metà e il consumatore paga il
triplo?». La colpa è dell'ago della bilancia, la grande distribuzione che
determina il prezzo, decide quanto comprare e da chi. I loro nomi non
circolano, ma le loro azioni, qui nel Tavoliere, si vedono chiaramente.
Intanto sotto il tendalino della scuola di italiano, vicino
alla bandiera della pace, si impara a scrivere, la testa china sui fogli,
l'emozione di sentirsi capaci, sorrisi e risate. E, alla fine, tutti in cerchio
a spizzicare taralli e fare conversazione, dalla poligamia al cibo, dalla moda
a come si lavora nei campi. Su quel che è avvenuto, ad esempio, qualche
settimana fa: lo scorso anno 287 braccianti hanno lavorato due mesi per la
stessa azienda che, alla fine, non li ha liquidati. «Alcuni non si sono arresi -
dice Arcangelo Maira hanno deciso di fare vertenza - di combattere per i loro
diritti. Abbiamo cercato i loro compagni, ormai dispersi per l'Italia, in
cinquanta hanno chiamato in causa una grande azienda. Un bel segno di
speranza».
“l’Unità” 1 settembre 2013
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