Di Carola Susani e del suo libro L’infanzia è un terremoto (Laterza,
2008) ambientato nella Valle del Belice e collegato all’esperienza di
volontariato dei suoi genitori nel centro di Lorenzo Barbera, c’è già traccia
in questo blog. Quella che segue è una sua testimonianza sul “lungo Sessantotto”,
a lei richiesta da “La Stampa” per il quarantennale. Testimonianza molto viva e
bella. (S.L.L.)
Le celebrazioni di qualunque
cosa, non solo del '68, sono insopportabili, finiscono quasi sempre per
nascondere o per mentire. A volte la memoria è una brutta bestia, seleziona a
comando. Tutto il bene, tutto il male. Nostalgia o deprecazione. Disillusione o
mistificazione. A volte la memoria fa fatica a vedere le cose. Perciò abbiamo
bisogno degli storici. Perché quegli anni hanno cupezze e luminosità non emerse
ancora.
Mia madre nel '68 aveva ventinove
anni, era già grande, ma quella stagione l'ha vissuta in pieno. Lei si ricorda
poche cose. Però mi racconta che la sua generazione si sentiva senza sponda,
senza futuro. I genitori usciti da guerra e fascismo si interrogavano il meno
possibile, non sapevano comunicare ai figli molto più che silenzio, distanza,
la protezione delle quattro mura, mentre l'immigrazione interna scuoteva il
paese.
Oppure c'era l'ipocrisia. La
borghesia italiana a parole spingeva i figli verso la dirittura morale, il
rigore e poi, in silenzio, faceva tutt'altro. All'Università si trovavano di
fronte spesso un autoritarismo senza contenuto, automatismi, retorica.
Sentivano il bisogno di libertà sessuale, che per molte donne, nel Meridione,
significava prima di tutto libertà dei sentimenti.
Quello che voglio dire è che il
'68, molto prima di essere l'icona attorno a cui dibattiamo, è stata un esito.
La società era stata scossa da trasformazioni velocissime, ma la sua immagine
restava stantia. I miei genitori sono stati spinti in Valle del Belice, si sono
messi a lavorare al Centro studi iniziative, per bisogno di conoscenza e
concretezza. Ma non erano solo loro. Per sete di conoscenza e concretezza i
figli della borghesia andavano nei quartieri popolari, a giocare con i
ragazzini, a frequentare i coetanei; e dai quartieri popolari i ragazzi
andavano nelle case della borghesia. E' stata un colpo, una novità come
raramente se ne vedono. Solo il servizio militare aveva messo in contatto,
mescolato, ragazzi di condizioni sociali così diverse. E per le donne il
servizio militare non c'era.
Fa impressione la quantità di
energie, non solo gioiose, messe in moto da questi incontri. C'era
paternalismo, c'era retorica, c'era ambizione, c'era rancore, certo. Ma come
potevano non esserci? Ma c'era anche, stridente, l'incontro. E colpisce in un
momento come quello che viviamo, in cui si fa sempre più fatica a conoscere
persone che non condividano con noi entità del conto in banca, stile di vita,
cittadinanza. C'è un unico posto in cui se sei fortunato puoi incontrare
qualcuno che non ti somiglia, ed è la scuola pubblica, la scuola di massa,
durissima da far funzionare.
Io degli anni Settanta mi ricordo
adulti coraggiosi e fragili, a volte disastrosi ma non disonesti, bambini
troppo responsabili, saggi, ironici e scatenati. Spesso vivevamo senza
incontrarci, ma a volte addirittura parlavamo. Con fatica sperimentavamo,
adulti e bambini, una comunicazione che - escludendo poche famiglie - non c'era
mai stata prima. E come tutte le iniziative sperimentali comunicare tra noi non
era facile, a volte era fallimentare.
L'idea che mi sono fatta negli
anni è che un movimento che nasceva assetato di concretezza e di giustizia,
antiautoritario, libertario si sia sclerotizzato parlando una lingua che veniva
da altrove, una lingua «comunista» in una particolare accezione, una lingua che
veniva dal leninismo, dal maoismo, dal trotzkismo, che non riusciva ad aderire
alle cose. Una lingua difficile da ricordare, difficile da far risuonare, tanto
che se dovessi scrivere un romanzo storico su quel periodo, so che ci
impazzirei prima di cavare un ragno dal buco. E' stata la lingua dei gruppi
della sinistra extraparlamentare, quella stessa che mi ha portato a dieci anni,
ormai non più in Valle del Belice, ormai a Palermo, a fondare l'O.B.C.,
Organizzazione Bambinista Comunista marxista-leninista (mi dicevano che per vie
misteriose marxista-leninista voleva dire stalinista, ma io non volevo
crederci), l'OBC che propagandava la liberazione dei bambini dal giogo degli
adulti e il cui primo atto politico fu l'esclusione di mio fratello, per non
raggiunti limiti di età: troppo piccolo.
Ma forse non era solo quello.
Anni fa mi è capitato di parlare del '68 con Enzo Siciliano. Per Siciliano
c'era sin dall'inizio nel '68 una componente violenta, di rifiuto del dialogo,
di irrazionalismo, uno sberleffo dall'aria se non dalla matrice futurista. A
Siciliano le provocazioni che si volevano contro l'autorità o la borghesia, ma
finivano per essere sempre semplicemente contro le persone, sembravano
squadriste. Perciò per il '68 Siciliano aveva solo fastidio. Io però avevo in
mente mio padre e mia madre, Lorenzo Barbera e l'esperienza del Centro studi
Valle Belice, una cultura dell'intervento sul territorio, che dagli anni
Sessanta, da Danilo Dolci, ma anche dal movimento di Comunità, confluiva nel
Sessantotto, attraversava faticosamente gli anni Settanta, si infrangeva contro
il terrorismo, per scivolare carsicamente sottosuolo e spero per riemergere in
forma nuova.
“La Stampa”, 19 marzo 2008
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