Gigi Meroni, con la maglia del Torino, va in gol contro la Lazio |
Dal "manifesto" una commossa e commovente rievocazione di Gigi Meroni, calciatore del Genoa e, soprattutto, del Torino nel "favolosi anni Sessanta". Egli fu una magnifica "alla destra", interpretando nel modo più romantico uno dei ruoli più romantici del calcio, purtroppo deperito nelle tattiche in voga nell'ultimo quarto di secolo. Ma, nel suo modo di essere in campo e fuori dal campo, Meroni introduceva la curiosità, l'inquietudine, lo spirito anticonformista dei ragazzi del suo tempo. Morì, anche lui tragicamente, lo stesso anno di Luigi Tenco, il 1967. Sono sempre stato convinto che non fu una mera coincidenza. (S.L.L.)
Gigi Meroni in tenuta beat e il suo autoritratto |
Dovunque sia, oggi Cristiana farà
arrivare sette rose rosse al cimitero di Como, davanti a una lapide con
l'incisione: Luigi Meroni, nato a Como il 24-2-1943 morto a Torino il
15-10-1967. Siamo a quota 245: sette ogni 15 ottobre, per 35, gli anni passati
dalla aorte dell'ala del Toro anni '60, del calciatore artista, della Farfalla
Granata. Sette come il numero della maglia. Cristiana, la sua compagna, la
«bella tra le belle», oggi penserà a quella sera di 35 anni fa, quando «la
farfalla sentì arrivare addosso a sé un peso enorme, intollerabile per le sue
fragili membrane». Era il peso di un'auto che la colpì, facendole compiere un
volo scomposto. «Ogni sua corsa, ogni sua danza si realizzavano del tutto al di
fuori delle geometriche evoluzioni... eppure lei era certa, e glielo avevano
testimoniato in tanti, che pur non ubbidendo a quei canoni essa esprimeva una
propria intima e comprensibile armonia. Ma questa volta la traiettoria non era
stata lei a deciderla. Essa se ne vergognò. Pensò che tutto il mondo l'avesse
veduta annaspare nell'aria senza ordine e nesso, e si convinse che da quella
sgradevole visione tutti avrebbero tratto pretesto per toglierle - per sempre -
la dignità di farfalla. Perciò, piena di vergogna e di timore, decise di rimanere
per terra. E di non volare più» (Nando Dalla Chiesa, La Farfalla Granata).
Ora tutti sanno che a bordo di
quell'auto c'era Attilio Romero, presidente attuale del Torino. Allora era un
ragazzetto, tifosissimo granata e in particolare di quel giocatore con i
calzettoni abbassati, la barba lunga e il tocco di palla dolce come i
gianduiotti. È il dettaglio che ha aumentato l'interesse per la storia di Gigi
Meroni, un calciatore fuori dal comune. Ma la vita di questo ragazzo comasco
morto a 24 anni, nel pieno della carriera e della sua evoluzione personale, la
leggenda la contiene in sé. È per questo che oggi la gente di Torino, o
chiunque abbia abbastanza anni per ricordare quel calcio, ricorda Meroni: è
sempre per questo che La Farfalla Granata,
il libro di Nando Dalla Chiesa ha venduto più di 50 mila copie; è per lo stesso
motivo che la vita di Gigi è diventata una piéce
teatrale e si sta tramutando oggi in un film per la televisione. Il calciatore
beat continua a far parlare, come avveniva quando volteggiava ari campi di
serie A, quando incantava la gente e la faceva discutere per i suoi
atteggiamenti fuori dal terreno di gioco. Fa parlare le persone comuni, non il
sistema del calcio italiano, tutto preso ad autoalimentare la propria spocchia
e così poco attento alla memoria.
Ricordare la Farfalla Granata è
un tuffo nel passato di uno sport che oggi non è più lo stesso, e di una
persona che ne è stata interprete unico. Perché Gigi Meroni era fuori dagli
schemi. L'hanno paragonato a George Best. Errore: «non bevo e non fumo», fu la
prima frase che scandì ad alcuni suoi compagni del Genoa, nel 1962. Aveva 19
anni, veniva da un campionato di B a Como. Arrivava un ragazzino nella testa e
nel corpo. In meno di 5 anni sarebbe diventato un personaggio e avrebbe vinto
il premio per il miglior giocatore (1966). Era nato in una famiglia di
artigiani, gli studi fino alla terza media, sostenuto dalla madre, rimasta
vedova, che manteneva i figli lavorando nel tessile. L'arrivo nelle giovanili
del Como, l'esordio in prima squadra, la serie B. Poi subito la A. Tutto d'un
fiato: poco più che maggiorenne Gigi Meroni era un calciatore professionista.
Innamorato del pallone. Era un'ala, Gigi Meroni. Un'ala pura: dribbling,
scatto, finta, assist. E qualche gol. Pochi, all'inizio. Non era importante
segnare, quantomeno non era la priorità. Non batteva punizioni, molto raramente
rigori: oltremodo facile. «Sarebbe troppo bello entrare in porta con la palla»,
disse in una delle sue prime interviste. Poco dopo ci riuscì, con la maglia del
Genoa, a Bari: uno, due, tre avversari superati e dritto nella rete. Due
campionati a Genova, poi a Torino per 350 milioni di lire, cifra record per un
giovane come lui. Il fatto è che Meroni era già diventato un campione.
Tra una partita e un'altra, Gigi
aveva anche trovavo l'amore. Era Cristiana, giovane ragazza milanese, già con
un matrimonio alle spalle. L'aveva conosciuta a Genova, dove lei si sarebbe poi
trasferita. Un amore folle tenuto nascosto all'inizio. Per andare a trovarla,
Gigi scappava da Torino di notte e rientrava all'alba: «Mi sono innamorato di
te, perché non potevo più stare solo/ di giorno volevo parlare dei miei sogni/
di notte parlare d'amor». Luigi Tenco scriveva e cantava, Gigi Meroni interpretava.
Pazzie, una dopo l'altra, pur di incontrare la sua donna.
In campo, con la maglia granata,
era uno spettacolo a ogni tocco di palla. Fuori una vita riservata, ma vissuta
in sella a quello che stava per arrivare. Della cultura beat, del nuovo modo di
vivere, l'attaccante del Torino era la personificazione: educato, ma ribelle;
aperto e libero. Così, quando Fabbri gli chiese di tagliarsi i capelli per
giocare in nazionale A, Meroni si rifiutò: l'aveva già fatto una volta,
all'inizio della carriera, nella nazionale B. Adesso che a Torino era tra i
giocatori più forti del campionato, voleva essere giudicato per quello che
faceva in campo. Ma non è solo questo che ne faceva l'interprete dei sentimenti
di una generazione: nella sua mansarda in pieno centro aveva cominciato a
dipingere. Amava la pittura, così come la musica. Poi c'era l’abbigliamento:
Gigi si disegna a gli abiti da sé. Prima solo le cravatte, poi anche il resto.
Occhiali scuri ed enormi, look stravagante: «non creo fastidi a nessuno».
Eppure una parte della critica
non accettava. Era condannato a giocare bene, altrimenti attacchi feroci e
diretti. Il bello, però, è che su quel prato Meroni si muoveva a meraviglia.
C'erano sempre le finte, i dribbling, gli assist. Aumentavano anche i gol.
Marcature strette, difensori fallosi: c'era poca speranza se partiva sulla
destra e riusciva a prendere un metro. Andare avanti, sempre: Cristiana
trasferita a Torino, l'amore vissuto apertamente, le passioni per tutto quello
che era estetico sviluppate sempre di più. Gigi Meroni l'artista. Gigi Meroni
il bohémien che prendeva e partiva per vedere un posto nuovo. Gigi Meroni lo
stravagante che una volta si fece vedere a Como con una gallina al guinzaglio.
Poi, però, puntuale agli allenamenti, rispettoso di tecnici e compagni.
Torino 1967, Il funerale di Meroni |
Sempre
più amato dalla sua gente, a tal punto che il suo passaggio alla Juventus
nell'estate '67 fu bloccato dalla sollevazione dei tifosi del Toro. Quella
stessa gente che partecipò commossa al funerale in un pomeriggio datato 17
ottobre.
Oggi sono 35 anni da quello
schianto, da quel volo, da quel momento in cui la farfalla decise di smettere
di volare: chi ha memoria ricorda, il calcio italiano forse ha dimenticato
troppo in fretta.
“il manifesto”, 15 ottobre 2002
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