La «vita», difesa dalla bioetica
cattolica con una intransigenza che rasenta la protervia, ha finito di fatto
per identificarsi con una funzione, con la più povera e la più impersonale tra
le funzioni, quella che si suole definire «vegetativa» perché ci accomunerebbe
alle piante. A fungere da paradigma del vivente «umano» è infatti quella
tipologia dell'anima, che, secondo la psicologia aristotelica, occupa il
gradino più basso. La «vita delle piante», resa possibile secondo Aristotele
dall'«anima vegetativa», è diventata il criterio ultimo e decisivo con il quale
giudicare della vita e della non vita «umana». In quanto vivente, l'uomo
sarebbe innanzitutto un vegetale, sul quale si innesterebbero, attraverso un
processo di complicazione crescente, la sensibilità animale e, infine, una
razionalità quasi angelica (lo spirito).
In modo coerente a tali premesse,
la difesa della vita, per essere rigorosa, deve attestarsi, secondo i bioeticisti
cattolici, su questo livello primordiale: ciò che va a priori preservata è la
pianta che noi siamo - e che siamo soprattutto nei momenti «estremi» della
vita: dalla condizione prenatale a quella che precede la morte. Le minacce
verrebbero proprio da uno «spirito» che si vorrebbe autonomo da questo
radicamento nel vitale (nel vegetativo) e che cercherebbe di padroneggiarlo, se
non addirittura di (ri)produrlo. L'orrore, ad esempio, che eutanasia, suicidio
assistito o eugenetica suscitano nel cattolico, è infatti l'orrore per uno
spirito che rovesciando l'ordine naturale delle cose vorrebbe impadronirsi del
suo fondamento vitale-vegetale. Anche per queste ragioni è utile rileggere un
saggio anomalo come quello che nel 1848, il fisico e filosofo tedesco Gustav
Theodor Fechner, fondatore della moderna psicologia sperimentale, scrisse sull’«anima»
delle piante - Nanna o l'anima delle
piante. Tradotto per la prima volta nel 1938 dal filosofo Giuseppe Rensi, è
stato recentemente pubblicato da Adelphi a cura di Giampiero Moretti, uno dei
più importanti studiosi italiani di filosofia romantica della natura.
Il contesto è indubbiamente
romantico. Nanna, sposa del dio della luce Baldur, è nella mitologia nordica la
dea del mondo dei fiori. La scienza, in queste pagine, spesso si piega alla
poesia intesa come fonte onirica di un'altra visione della natura, non
«cartesiana», non meccanicistica, non materialistica. Lungi dall'essere una
«cosa estesa» data in spettacolo a un occhio disincarnato, la natura è pensata
da Fechner come espressione della vita divina. Niente tra ciò che vive è allora
privo di anima: nemmeno le piante. Se infatti così fosse si dovrebbe ammettere
una lacuna nella continuità del vivente. L'anima che Fechner assegna alle
piante non è, però, quella vegetativa aristotelica, che la bioetica cattolica
ha assunto come paradigma del vivente. L'anima vegetativa è, secondo Fechner,
una vuota astrazione dell'intelletto scambiata per una realtà concreta. Non è
altro che la nostra anima, quella umana, assunta indebitamente come modello e
fine dell'intero processo evolutivo, alla quale sono state tolte in precedenza
tutte quelle caratteristiche essenziali che la rendono propriamente anima: in
primo luogo, la sensazione che la psicologia metafisica tradizionale
attribuisce solo agli animali dotati della capacità di muoversi. Ma un'anima
che non sente non può dirsi in alcun modo anima.
È un pregiudizio sostanzialmente
antropocentrico (nella misura in cui l'uomo è l'animale superiore) a motivare
questa esclusione della sensazione dalle piante: siccome le piante crescono
restando saldamente legate al loro posto invece di muoversi come gli animali,
siccome non hanno un sistema nervoso come gli animali, allora si nega loro la
sensazione e a maggior ragione la coscienza. Siccome servono, grazie alla
fotosintesi clorofilliana, a trasformare il carbonio inorganico in carbonio
organico assimilabile, esse vengono subordinate, come mezzi, a una finalità a
loro esterna.
Una visione orizzontale
Liberarsi dal pregiudizio che
vuole la natura al servizio dell'uomo, inteso biblicamente come immagine
esclusiva di dio creatore, vuole allora dire ritrovare una natura che, ad ogni
grado e in modo sempre diverso, è diretta immagine di dio, un dio che, in modo
conforme alla grande lezione della filosofia della natura rinascimentale, non è
una sostanza, non è una causa o un «sommo ente», ma coincide con l'evento
stesso della natura, con il suo «aver luogo», un dio che è l'unità infinita di
una molteplicità altrettanto infinita di esseri viventi, tutti ugualmente
senzienti, seppure in modalità diverse e tra loro non comunicanti.
A rendere le piante «animate» non
è allora «ciò che io della pianta ho in me», come pensa Aristotele, «ma
precisamente ciò che di essa in me non ho». Allo schema piramidale della
psicologia metafisica che, per inclusioni successive, risale di grado in grado
dal vegetativo al sensibile al razionale, il «pampsichismo» di Fechner oppone
una visione orizzontale «democratico-ugualitaria». La sensazione è estesa a tutti
i viventi e non ha senso stabilire tra essi gerarchie di sorta. Le piante
sentono in modo certamente difforme dall'animale o dall'uomo, ma a loro modo
sentono in modo perfetto. E soprattutto sentono le stesse cose.
Esse esprimono nella loro maniera
- una maniera senz'altro intraducibile nei termini del nostro sentire (ma di
cui la poesia ci offre un equivalente linguistico) - quel comune centro di
gravità intorno al quale ruotano tutte le «creature». «Così - conclude Fechner
- ogni vita gira attorno a Dio e Dio stesso rappresenta l'unità della vita di
tutte le sue creature». C'è ben poco di «cattolico» in questo dio spinoziano di
Fechner che coincide con la molteplicità illimitata dei viventi, ma c'è
sicuramente molto di cristiano nell'intendere lo schiudersi dei fiori come
l'analogo, nel mondo vegetale, del vespro mattutino.
Contrariamente a ciò che alcuni
credono, non è la concezione sistemica e cibernetica della natura di Gregory
Bateson ad avere ereditato nel Novecento il pampsichismo di Fechner, quanto
piuttosto quella linea di pensiero, anch'essa anomala, definita «neovitalista»
o «neofinalista», che, soprattutto in Francia, ha saputo coniugare
brillantemente speculazione metafisica e competenze scientifiche, muovendosi
sul solco della filosofia bergsoniana e della sua intuizione centrale: la
«coestensione» di coscienza e vita. In particolare è un filosofo pressoché
ignorato in Italia e quasi dimenticato nella sua patria, Raymond Ruyer, ad aver
costituito l'anello di congiunzione tra il «vitalismo» bergsoniano, il
pampsichismo d'origine fechneriana, e le ben più conosciute posizioni di un
filosofo «vitalista» come Gilles Deleuze o di un fenomenologo eterodosso come
Merleau-Ponty, i quali, per altro, non hanno mai taciuto il loro debito teorico
con Ruyer.
Ruyer aveva esteso anche
all'universo cosiddetto «materiale» il principio dell'universale animazione
psichica. Lo aveva potuto fare grazie ad una riformulazione radicale del
concetto di coscienza che deve, a suo giudizio, essere liberato da ogni riferimento
alla rappresentazione (e all'intenzionalità) per risolversi nell'atto immediato
con cui una qualsiasi realtà pone se stessa e, finché è, ritorna su di sé come
unità. Per comprendere l'immediatezza di questo atto che, secondo Ruyer,
«costituisce la chiave non solo del problema della coscienza, ma del problema
della vita», si può abbandonare la difficile prosa del filosofo francese e
ritornare ad uno degli argomenti addotti da Fechner per giustificare la sua
scandalosa attribuzione di un'anima senziente e «sveglia» anche alle piante. Si
nega alle piante la capacità di sentire perché prive di sistema nervoso: i
nervi sono infatti le briglia con cui il cavaliere (l'anima) legherebbe a sé il
corpo e mediante le quali «sentirebbe». Nulla però ci vieta di pensare che non
sia possibile, anzi che non sia addirittura più originario, cavalcare senza
briglie facendo tutt'uno con il corpo dell'animale, essendo, anzi, quel
movimento stesso. Questo è quanto deve avvenire nelle piante la cui coscienza,
secondo Fechner, coincide con lo stesso atto vitale.
Perché vi sia coscienza, perché
ci sia sentire, perché ci sia finalità, non è insomma necessaria la mediazione
di una rappresentazione, non c'è bisogno del famoso rapporto soggetto-oggetto,
il quale in quel trattino che separa il soggetto dall'oggetto contiene tutto il
problema irresolubile della mediazione. Con la sua ardita ipotesi delle
«superfici assolute», Ruyer mostra anzi che se si pensa la sensazione visiva
sul modello dello spettacolo, come quando ad esempio paragoniamo la visione
alla contemplazione di un quadro, si cade inevitabilmente in contraddizione.
Avere una sensazione visiva vorrebbe infatti dire disporsi come spettatore
della propria sensazione intesa come una immagine, il che implicherebbe una
terza sensazione che avesse questo rapporto come suo oggetto e così via
all'infinito...
In realtà, conclude Ruyer, io non
mi metto in relazione con la mia sensazione visiva come con un quadro: io la
sono, non sono altrove che in tutti i punti di essa, sono la sua unità, e non
posso prendere le distanze da lei se non in un'altra sensazione alla quale però
aderirò intimamente come il cavaliere al cavallo senza briglie.
Una luce imprescindibile
La pianta del «romantico» Fechner
è così la «superficie assoluta» del filosofo Ruyer. Ma grazie a Fechner,
Bergson e Ruyer, siamo anche in grado di comprendere l'origine della celebre
affermazione antifenomenologica (e radicalmente antiumanistica) di Deleuze.
La coscienza, scrive Deleuze, non
è, come credono i fenomenologi, coscienza di qualcosa, non è intenzionalità,
non è rappresentazione, non è dunque qualcosa di squisitamente umano, mediato,
riflesso; la coscienza, colta al suo livello originario, ad esempio a livello
della vita delle piante, è piuttosto qualcosa. Non è luce gettata da un faro
sulle cose ma è luce che, come al cinema, proviene dalle cose stesse e nella
quale siamo già da sempre immersi.
Nessun attentato può quindi
minacciare di spegnere questa luce, la quale, al pari del sole al quale i
fiori, sbocciando, rivolgono la loro preghiera mattutina, è sempre «salva».
“il manifesto”, 30 dicembre
2008
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