18.9.13

Le piante sentono. Dal romantico Fechner al vitalista Deleuze (Rocco Ronchi)

La «vita», difesa dalla bioetica cattolica con una intransigenza che rasenta la protervia, ha finito di fatto per identificarsi con una funzione, con la più povera e la più impersonale tra le funzioni, quella che si suole definire «vegetativa» perché ci accomunerebbe alle piante. A fungere da paradigma del vivente «umano» è infatti quella tipologia dell'anima, che, secondo la psicologia aristotelica, occupa il gradino più basso. La «vita delle piante», resa possibile secondo Aristotele dall'«anima vegetativa», è diventata il criterio ultimo e decisivo con il quale giudicare della vita e della non vita «umana». In quanto vivente, l'uomo sarebbe innanzitutto un vegetale, sul quale si innesterebbero, attraverso un processo di complicazione crescente, la sensibilità animale e, infine, una razionalità quasi angelica (lo spirito).
In modo coerente a tali premesse, la difesa della vita, per essere rigorosa, deve attestarsi, secondo i bioeticisti cattolici, su questo livello primordiale: ciò che va a priori preservata è la pianta che noi siamo - e che siamo soprattutto nei momenti «estremi» della vita: dalla condizione prenatale a quella che precede la morte. Le minacce verrebbero proprio da uno «spirito» che si vorrebbe autonomo da questo radicamento nel vitale (nel vegetativo) e che cercherebbe di padroneggiarlo, se non addirittura di (ri)produrlo. L'orrore, ad esempio, che eutanasia, suicidio assistito o eugenetica suscitano nel cattolico, è infatti l'orrore per uno spirito che rovesciando l'ordine naturale delle cose vorrebbe impadronirsi del suo fondamento vitale-vegetale. Anche per queste ragioni è utile rileggere un saggio anomalo come quello che nel 1848, il fisico e filosofo tedesco Gustav Theodor Fechner, fondatore della moderna psicologia sperimentale, scrisse sull’«anima» delle piante - Nanna o l'anima delle piante. Tradotto per la prima volta nel 1938 dal filosofo Giuseppe Rensi, è stato recentemente pubblicato da Adelphi a cura di Giampiero Moretti, uno dei più importanti studiosi italiani di filosofia romantica della natura.
Il contesto è indubbiamente romantico. Nanna, sposa del dio della luce Baldur, è nella mitologia nordica la dea del mondo dei fiori. La scienza, in queste pagine, spesso si piega alla poesia intesa come fonte onirica di un'altra visione della natura, non «cartesiana», non meccanicistica, non materialistica. Lungi dall'essere una «cosa estesa» data in spettacolo a un occhio disincarnato, la natura è pensata da Fechner come espressione della vita divina. Niente tra ciò che vive è allora privo di anima: nemmeno le piante. Se infatti così fosse si dovrebbe ammettere una lacuna nella continuità del vivente. L'anima che Fechner assegna alle piante non è, però, quella vegetativa aristotelica, che la bioetica cattolica ha assunto come paradigma del vivente. L'anima vegetativa è, secondo Fechner, una vuota astrazione dell'intelletto scambiata per una realtà concreta. Non è altro che la nostra anima, quella umana, assunta indebitamente come modello e fine dell'intero processo evolutivo, alla quale sono state tolte in precedenza tutte quelle caratteristiche essenziali che la rendono propriamente anima: in primo luogo, la sensazione che la psicologia metafisica tradizionale attribuisce solo agli animali dotati della capacità di muoversi. Ma un'anima che non sente non può dirsi in alcun modo anima.
È un pregiudizio sostanzialmente antropocentrico (nella misura in cui l'uomo è l'animale superiore) a motivare questa esclusione della sensazione dalle piante: siccome le piante crescono restando saldamente legate al loro posto invece di muoversi come gli animali, siccome non hanno un sistema nervoso come gli animali, allora si nega loro la sensazione e a maggior ragione la coscienza. Siccome servono, grazie alla fotosintesi clorofilliana, a trasformare il carbonio inorganico in carbonio organico assimilabile, esse vengono subordinate, come mezzi, a una finalità a loro esterna.

Una visione orizzontale
Liberarsi dal pregiudizio che vuole la natura al servizio dell'uomo, inteso biblicamente come immagine esclusiva di dio creatore, vuole allora dire ritrovare una natura che, ad ogni grado e in modo sempre diverso, è diretta immagine di dio, un dio che, in modo conforme alla grande lezione della filosofia della natura rinascimentale, non è una sostanza, non è una causa o un «sommo ente», ma coincide con l'evento stesso della natura, con il suo «aver luogo», un dio che è l'unità infinita di una molteplicità altrettanto infinita di esseri viventi, tutti ugualmente senzienti, seppure in modalità diverse e tra loro non comunicanti.
A rendere le piante «animate» non è allora «ciò che io della pianta ho in me», come pensa Aristotele, «ma precisamente ciò che di essa in me non ho». Allo schema piramidale della psicologia metafisica che, per inclusioni successive, risale di grado in grado dal vegetativo al sensibile al razionale, il «pampsichismo» di Fechner oppone una visione orizzontale «democratico-ugualitaria». La sensazione è estesa a tutti i viventi e non ha senso stabilire tra essi gerarchie di sorta. Le piante sentono in modo certamente difforme dall'animale o dall'uomo, ma a loro modo sentono in modo perfetto. E soprattutto sentono le stesse cose.
Esse esprimono nella loro maniera - una maniera senz'altro intraducibile nei termini del nostro sentire (ma di cui la poesia ci offre un equivalente linguistico) - quel comune centro di gravità intorno al quale ruotano tutte le «creature». «Così - conclude Fechner - ogni vita gira attorno a Dio e Dio stesso rappresenta l'unità della vita di tutte le sue creature». C'è ben poco di «cattolico» in questo dio spinoziano di Fechner che coincide con la molteplicità illimitata dei viventi, ma c'è sicuramente molto di cristiano nell'intendere lo schiudersi dei fiori come l'analogo, nel mondo vegetale, del vespro mattutino.
Contrariamente a ciò che alcuni credono, non è la concezione sistemica e cibernetica della natura di Gregory Bateson ad avere ereditato nel Novecento il pampsichismo di Fechner, quanto piuttosto quella linea di pensiero, anch'essa anomala, definita «neovitalista» o «neofinalista», che, soprattutto in Francia, ha saputo coniugare brillantemente speculazione metafisica e competenze scientifiche, muovendosi sul solco della filosofia bergsoniana e della sua intuizione centrale: la «coestensione» di coscienza e vita. In particolare è un filosofo pressoché ignorato in Italia e quasi dimenticato nella sua patria, Raymond Ruyer, ad aver costituito l'anello di congiunzione tra il «vitalismo» bergsoniano, il pampsichismo d'origine fechneriana, e le ben più conosciute posizioni di un filosofo «vitalista» come Gilles Deleuze o di un fenomenologo eterodosso come Merleau-Ponty, i quali, per altro, non hanno mai taciuto il loro debito teorico con Ruyer.
Ruyer aveva esteso anche all'universo cosiddetto «materiale» il principio dell'universale animazione psichica. Lo aveva potuto fare grazie ad una riformulazione radicale del concetto di coscienza che deve, a suo giudizio, essere liberato da ogni riferimento alla rappresentazione (e all'intenzionalità) per risolversi nell'atto immediato con cui una qualsiasi realtà pone se stessa e, finché è, ritorna su di sé come unità. Per comprendere l'immediatezza di questo atto che, secondo Ruyer, «costituisce la chiave non solo del problema della coscienza, ma del problema della vita», si può abbandonare la difficile prosa del filosofo francese e ritornare ad uno degli argomenti addotti da Fechner per giustificare la sua scandalosa attribuzione di un'anima senziente e «sveglia» anche alle piante. Si nega alle piante la capacità di sentire perché prive di sistema nervoso: i nervi sono infatti le briglia con cui il cavaliere (l'anima) legherebbe a sé il corpo e mediante le quali «sentirebbe». Nulla però ci vieta di pensare che non sia possibile, anzi che non sia addirittura più originario, cavalcare senza briglie facendo tutt'uno con il corpo dell'animale, essendo, anzi, quel movimento stesso. Questo è quanto deve avvenire nelle piante la cui coscienza, secondo Fechner, coincide con lo stesso atto vitale.
Perché vi sia coscienza, perché ci sia sentire, perché ci sia finalità, non è insomma necessaria la mediazione di una rappresentazione, non c'è bisogno del famoso rapporto soggetto-oggetto, il quale in quel trattino che separa il soggetto dall'oggetto contiene tutto il problema irresolubile della mediazione. Con la sua ardita ipotesi delle «superfici assolute», Ruyer mostra anzi che se si pensa la sensazione visiva sul modello dello spettacolo, come quando ad esempio paragoniamo la visione alla contemplazione di un quadro, si cade inevitabilmente in contraddizione. Avere una sensazione visiva vorrebbe infatti dire disporsi come spettatore della propria sensazione intesa come una immagine, il che implicherebbe una terza sensazione che avesse questo rapporto come suo oggetto e così via all'infinito...
In realtà, conclude Ruyer, io non mi metto in relazione con la mia sensazione visiva come con un quadro: io la sono, non sono altrove che in tutti i punti di essa, sono la sua unità, e non posso prendere le distanze da lei se non in un'altra sensazione alla quale però aderirò intimamente come il cavaliere al cavallo senza briglie.

Una luce imprescindibile
La pianta del «romantico» Fechner è così la «superficie assoluta» del filosofo Ruyer. Ma grazie a Fechner, Bergson e Ruyer, siamo anche in grado di comprendere l'origine della celebre affermazione antifenomenologica (e radicalmente antiumanistica) di Deleuze.
La coscienza, scrive Deleuze, non è, come credono i fenomenologi, coscienza di qualcosa, non è intenzionalità, non è rappresentazione, non è dunque qualcosa di squisitamente umano, mediato, riflesso; la coscienza, colta al suo livello originario, ad esempio a livello della vita delle piante, è piuttosto qualcosa. Non è luce gettata da un faro sulle cose ma è luce che, come al cinema, proviene dalle cose stesse e nella quale siamo già da sempre immersi.
Nessun attentato può quindi minacciare di spegnere questa luce, la quale, al pari del sole al quale i fiori, sbocciando, rivolgono la loro preghiera mattutina, è sempre «salva».


“il manifesto”, 30 dicembre 2008 

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