Andrea Zanzotto |
Fantasie di avvicinamento (Le
letture di un poeta) (Mondadori 1991): con questo titolo calamitante e
autolimitativo, il lettore trova raccolti in volume gli scritti critici di
Andrea Zanzotto, o almeno una parte di essi riguardanti autori nati in secoli
precedenti il nostro (l'autore indica nella premessa il progetto di altri due
volumi, uno ancora di critica su autori del Novecento, l'altro di «poetica
minima» sui mutamenti del proprio percorso creativo).
Si tratta di un libro «leggibile»
e sorprendentemente chiaro, pur nella complessità di cultura da cui attinge
(psicoanalisi e antropologia soprattutto), e questo va detto subito per
invogliare quel lettore che della poesia di Zanzotto mantiene una idea di
difficoltà, concentrazione e spiazzamento di senso, a partire dalla svolta
«linguistica» e glossolalica del suo libro più ostico (La Beltà, 1966).
Il volume si apre con un saggio
del 1953 su Montale, e si chiude con un discorso ancora inedito pronunciato a
un convegno su Giacomo Zanella, dunque un cosiddetto minore dell'Ottocento. Ma
la vera chiusura sublimale del libro sta forse nel penultimo saggio, davvero
splendido, sulla poesia di Umberto Saba.
Da Montale a Saba, insomma, così
diversi e entrambi così (necessari» al percorso di Andrea Zanzotto: il poeta
dell’indifferenza e dei simboli in cui si nasconde il residuo vitale, la
maceria geologica dell'esistenza sulla terra; e il poeta di tutta la vita,
della fatica di dare un senso chiaro al dolore privato e di tutti. Le
descrizioni di Zanzotto non sono affatto di fantasia, ma aprono i testi presi
in esame e gli autori a varie sollecitazioni, che si possono riassumere in un
interesse stilistico cui corrisponde un fondamento umano, psicologico, e una
aspirazione di indagine conoscitiva allargata al tema forte della
responsabilità etica della poesia.
Questa responsabilità è
dichiarata nel cuore esplicito di questo libro, che fa rimpiangere a ogni
pagina il suo italiano netto e ricco, preciso e affabile, nel confronto con il
paesaggio della saggistica più superficiale di oggi: si tratta di una
responsabilità pedagogica, del tentativo di legare a sé dì nuovo il futuro, e
cioè l'infanzia, dell'insistenza da vero maestro con la quale Zanzotto entra
nell'animo del lettore per scuoterlo, ridargli il senso di cosa possa essere
l'arte della parola: un'arte sociale e comunicativa che può far di nuovo
incontrare l'infanzia di ognuno e la poesia dello stupore per ciò che è vivo e
degno di amore: «Ancora, il bambino e il poeta (o soltanto certi poeti?)
continuano a ritrovarsi nella sovrabbondante, tolta aura dello stupore,
riscoprendo in essa brillìi e rilievi di eventi che a molti sono inavvertibili
e richiamando in essa anche gli altri uomini».
Siamo alla lode del
«particolare», della singolarità anonima capace di riconoscersi nel «dialetto»
delle cose. La ricognizione dei rapporti tra poesia e infanzia vive in questo
saggio (Infanzie, poesie, scuoletta) in un percorso a tre direzioni: il mito
letterario dell'infanzia nella poesia degli ultimi due secoli (il tema del
«puer» in Rimbaud, in Pascoli, Ungaretti, Montale, Sbarbaro, ecc.); i tentativi
di poesia per l'infanzia, spesso melensi e conformistici, ma anche vitalistici
come nel caso analizzato di Gianni Rodari; e la poesia dei bambini stessi,
«ricca assai spesso di una fecondità immagnifica e di un impeto espressivo da
rientrare nella poesia, al di là di ogni intento artistico».
Zanzotto dà poi una definizione
folgorante dell'avventura di Rimbaud, che va riportata per intero: «Certo con
questo puer aveva a che fare soprattutto
Rimbaud, il "poeta di sette anni", che pur finisce col pronunciare la
bestemmia contro la poesia e che prefigura (ed esaurisce nel fanciullo e
nell'adolescente travolti dal silenzio, la poesia come
rivoluzione-autocombustione d'infanzia, di cui l'adulto e l'adultismo non
possono essere il momento successivo, bensì la negazione».
Ma la polemica contro l'adultismo
(«il più squallido dei miti repressivi», citando Lapassade che ci ricorda che
la vita è sempre entrata nella vita, e non uscita in una maturità
conformistica) non impedisce a Zanzotto di riconoscere, nel saggio su Saba,
l'importanza della convivenza interiore tra «padre e bambino
contemporaneamente» nel modello poetico di Dante, identificato con la
tradizione più dinamica della nostra lingua e letteratura (ma altrettanto
spazio è riservato al «fuoco» e all'«artificio» in Petrarca).
Conferma dell'importanza della
critica fatta dai poeti nel Novecento (si pensi a Pasolini), la riflessione di
Zanzotto è tuttavia meno ideologica e più cognitiva, attratta dal sapere e dai
saperi nuovi, e così la sua linea pedagogica, «orale» e affabulatoria, può
sopportare le proiezioni letterarie per radicarsi in una domanda di senso
ulteriore, meno letteraria di quanto si sia portati a pensare in un poeta così
attento al dato formale.
I saggi su Antonin Artaud e su
Henri Michaux sono in questo di una lucicità che procura un vero entusiasmo di
riconoscimento, radicando il pensiero poetico nel corpo e nella psiche di
queste due avventure ai limiti dei linguaggio (e cioè, per Zanzotto, ai limiti
della conoscenza razionale): forme e rifiuto delle forme, stile e contestazione
magmatica dello stile.
Di grande interesse anche la
ricognizione sul'Ottocento italiano, con un Manzoni grande prosatore e
inventore di ritmi nuovi nel romanzo, meno convincente nella legnosità metrica
delle sue poesie corali: e poi Leopardi, spaventoso non tanto per il suo
pessimismo e lo stato terribile del suo corpo, quanto per l'energia vitale sorprendente
che lo condanna a sentire la vita come desiderio a lui non disponibile e
furente; e infine l'infermità della persona e la voglia di combattere di
Foscolo, nostro attualissimo contemporaneo, in un tempo in cui non sembra
rimasta intatta più nemmeno una causa per cui lottare.
Parlando delle sue letture
(numerose e, come si è accennato, per niente ridotte all'italianità: Conrad,
Eluard, Lorca, Pessoa, Tolstoj, Rumi, Virgilio, lo haiku giapponese), Zanzotto
ci dice dunque molto di sé, del proprio percorso tra i libri e la vita, del suo
interesse per tutto ciò che è sorgivo, originario, natale, parentale,
infantilmente autentico e onesto.
I saggi su Montale e Ungaretti
sono, per l'aspetto di agnizione estetica, fondamentali, ma anche quelli sui «minori»
del Novecento come Solmi, Noventa, Marin, Jahier, Betocchi sono indicativi di
una certa evoluzione che qui non si può che accennare, che lo sposterà da una
poesia elegiaca e «chiusa», a una poesia che assumendo i linguaggi del sapere
acquisirà la dimensione storica e cognitiva che la critica gli ha riconosciuto,
passando da una raffinata e postuma poetica ermetica (l'assenza dietro la
presenza del paesaggio) a una antropologia plenaria della poesia come forma di
conoscenza del negativo, da indagare
con forza ma con forza maggiore da oltrepassare.
Anche l'avvicinamento critico,
infatti, sembra presupporre e confermare quel «ricchissimo nihil» che la sua
poesia ha da tempo accostato, scoprendo all'interno delle spinte distruttive
del singolo e dell'epoca, la fonte insospettata di una «mondiale tenerezza», di
un'altra storia e natura.
“il manifesto”, 13 settembre 1991
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