26.12.17

Archeologia anni 80. Andrea Carandini e l'autonomia del sepolto (Marco Bascetta)

Nel corso degli ultimi mesi l’editoria italiana ha dedicato una particolare attenzione all’archeologia ed ora sembra voler entrare nel merito della disciplina con la scoperta di un genere dimenticato: il manuale. Tra diverse traduzioni (importante quella del manuale del Barker curata da d’Agostino per Longanesi) c’è anche il primo tentativo italiano di cimentarsi su questo terreno. Lo ha intrapreso Andrea Carandini, archeologo di formazione marxista, con il suo Storie dalla terra (De Donato, 1981), manuale di archeologia stratigrafica. Manuale, ma fino a un certo punto, in parte per tradizione nazionale, in parte per mantenersi sullo stretto sentiero tra vecchia erudizione e modernismo ipertecnico. Carandini dice il suo lavoro «ad un tempo ortodosso ed eretico». Eretico probabilmente perché non rispetta quei «divieti d’accesso alla teoria», verso i quali l’archeologia tradizionalmente nutre un sacro timore. La descrizione della tecnica stratigrafica, delle sue sequenze e dei suoi procedimenti è infatti accompagnata, anzi preceduta, dall’intento di definire la cultura che la sorregge, una cultura specifica della ricerca archeologica. Si tratta insomma di indicarne il territorio se non il dominio, non solo in base a un oggetto, l’antico (che condivide con l’antiquaria e con la storia) o a un metodo, lo scavo, ma soprattutto in base a propri prìncipii. L’archeologia, intesa come archeologia stratigrafica, non sarebbe dunque una scienza ausiliaria o, peggio ancora, una semplice tecnica buona per verificare le ipotesi formulate dallo storico, ma una disciplina dotata di prospettiva culturale autonoma e di propri strumenti di conoscenza. Una disciplina in grado di individuare i problemi e i quesiti che la terra stessa formula con le sue sedimentazioni, indipendentemente dagli interessi degli storici. E questo con lo scopo principale di svelare quella parte del reale, della vita trascorsa, che la tradizione letteraria e artistica ha ignorato o volutamente omesso. La terra si trasforma così da semplice ostacolo che deve essere rimosso per raggiungere ciò che vi è sepolto e dimenticato, in oggetto di indagine, momento di ampliamento delle conoscenze già acquisite in senso non solo quantitativo, ma anche qualitativo. Disseppellire significa insomma raccogliere messaggi, scoprire le leggi che sottendono i rapporti fisici tra le diverse unità stratigrafiche, tradurre questi rapporti in periodizzazioni e infine in microstoria. L’autonomia dell’archeologia è anche quella del suo oggetto, il «sepolto» «non più solo un aggettivo», ma una realtà con sue caratteristiche peculiari e distinta dall’antico in generale. Ma Carandini non si ferma a questa peculiarità. Il sepolto, il mondo del sottosuolo, sarebbe anche munito di una sua logica, una particolare struttura, uno specifico linguaggio. Ci sono insomma due modi di essere nettamente distinti: quello delle cose vive e quello delle cose morte. E qui Carandini si avventura in un paragone classico, ma che per essere qualcosa di più che suggestivo dovrebbe fare i conti con complessi problemi teorici: il paragone tra archeologia e psicanalisi che, figlie della stessa epoca, cercano rispettivamente ciò che si è perduto nelle profondità del sottosuolo e in quelle dell’Inconscio. Psicanalisi e archeologia che storicizzano, sottoponendolo alla coscienza del presente, quel che è sepolto nell’anima e nella terra.
Al paragone classico si aggiunge poi, secondo Carandini, una particolare affinità tra i principi della stratigrafia e la teoria dell’inconscio di Matte Blanco. Come l’inconscio non sarebbe semplice luogo del rimosso, ma struttura dotata di una propria logica, diversa da quella che domina il mondo della coscienza, cosi il sottosuolo si rivelerebbe sottoposto a leggi diverse da quelle che regolano il mondo dei vivi. Il paragone si ferma qui, accennato, più repentinamente blasfemo che argomentatamente eretico, fragile e pur tuttavia indicativo della difficile posizione che l’archeologia occupa, tra il monopolio narrativo della storia e la subalternità della tecnica, tra le parole degli uomini e il silenzio delle cose. Posizione che facilmente si accorda (e si appaga) con una concezione bilogica: storia inconsapevole delle masse e storia celebrata delle classi dominanti, cocci e monumenti, esemplari unici e infinite ripetizioni, ordine sociale narrato e chaos del quotidiano taciuto, grande e piccolo, microstoria e macrostoria.
Linguaggi differenti, utili per contrastare la colonizzazione delle discipline gerarchicamente forti, ma ancora lontani da una teoria e da un metodo che pongano la necessità delle connessioni rispettando la diversità della partì. Da un polo all’altro si promettono percorsi di andata e ritorno, ina resta una promessa, accompagnata dall’avvertimento che tra micro e macrostoria la strada è lunga e tortuosa e non esistono scorciatoie. È certamente vero che l’archeologo può scovare nella terra «le testimonianze involontarie della storia» e fra queste i prodotti di quella fatica e di quello sfruttamento la cui storia non è mai stata narrata. Forse è anche possibile che decifrando i messaggi che la terra contiene, l’archeologia sia davvero in grado, come scrive Carandini, di penetrare «l’altra metà dell’esistenza dove si addensano l’ultradefinito e l’indefinibile», di cogliere le «atmosfere» e non solo i «nomi» della storia, di svelare insomma anche quello che gli antichi non hanno voluto si sapesse di loro. Ma le metà restano l’una accanto all’altra, ciascuna parlando il suo linguaggio e nessuna capace di spiegare fino in fondo non solo il tutto, ma neanche la sua propria parzialità. L’archeologia sta dunque a cavallo tra due culture, tra due mondi, tra «l’ordine del grande racconto e il disordine della vita di ogni momento»? A cavallo appunto, e oscillante come sempre è il cavaliere. Lacerata e circondata da molteplici tentazioni. Ora con l’ambizione di scrivere una macrostoria della cultura materiale, ora con la convinzione di poter attingere alla verità concreta che smaschera le menzogne della letteratura e magari di avere a portata di mano la realtà della vita vissuta, poi con il desiderio di rifugiarsi nel piccolo e nella passione esasperata per l’indizio o di abbandonarsi al culto troppo acritico e ingenuo dell’ignoto. Dal bisogno di teoria al bisogno di pratica l’oscillazione è spesso brusca, il percorso oscuro. Non è facile ricondurre in un insieme armonioso questo manuale e l’anatomia della scimmia, l’ampio studio di Carandini sulla teoria marxiana delle formazioni economiche precapitalistiche. Eppure questo stesso andamento discontinuo testimonia di una disciplina in movimento, orgogliosa e timida ad un tempo, cosciente di trovarsi al centro di nodi teorici cruciali, un’archeologia multidimensionale e problematica, nel pieno di una difficile riflessione sulla propria natura e di una lotta non meno difficile contro la tradizione polverosa (ma saldamente insediata nelle istituzioni culturali italiane) e il tecnicismo ultraspecialistico che rifugge da qualsiasi prospettiva e da qualsiasi impegno civile.
Anche se tocca una problematica tanto complessa, non bisogna comunque dimenticare che Storie dalla terra resta essenzialmente un manuale con lo scopo dichiarato di descrivere in dettaglio principi e tecniche del moderno scavo stratigrafico. Uno scavo che attribuisce eguale interesse a qualunque cosa possa rinvenirsi nella porzione di terra scelta per l’indagine poiché è dai rapporti fisici, spaziali, tra tutti gli elementi che il terreno contiene che si risalirà alle periodizzazioni, alle interpretazioni e infine alla narrazione di microstoria. Questo scavo si presenta più che come una operazione di recupero, come un’operazione di chirurgia distruttiva. Tant’è che lo «scavo assoluto», lo scavo ideale, implicherebbe in teoria la distruzione totale del sito prescelto. Un paradosso utile per rendere chiaro quanto questa idea di ricerca diverga dalle tradizionali concezioni dell’archeologia monumentale (con la quale naturalmente e fortunatamente è inevitabile il compromesso). Ma soprattutto l’impostazione stratigrafica deve rinunciare alle domande precostituite, poiché la ricerca di una singola cosa ne distruggerebbe mille altre. Solo il rispetto iniziale del disordine della terra permetterà di ricostruire in seguito, a partire da esso, un ordine intellegibile.

“il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1982

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