Nel corso degli ultimi
mesi l’editoria italiana ha dedicato una particolare attenzione
all’archeologia ed ora sembra voler entrare nel merito della
disciplina con la scoperta di un genere dimenticato: il manuale. Tra
diverse traduzioni (importante quella del manuale del Barker curata
da d’Agostino per Longanesi) c’è anche il primo tentativo
italiano di cimentarsi su questo terreno. Lo ha intrapreso Andrea
Carandini, archeologo di formazione marxista, con il suo Storie
dalla terra (De Donato, 1981),
manuale di archeologia stratigrafica. Manuale, ma fino a un certo
punto, in parte per tradizione nazionale, in parte per mantenersi
sullo stretto sentiero tra vecchia erudizione e modernismo
ipertecnico. Carandini dice il suo lavoro «ad un tempo ortodosso ed
eretico». Eretico probabilmente perché non rispetta quei «divieti
d’accesso alla teoria», verso i quali l’archeologia
tradizionalmente nutre un sacro timore. La descrizione della tecnica
stratigrafica, delle sue sequenze e dei suoi procedimenti è infatti
accompagnata, anzi preceduta, dall’intento di definire la cultura
che la sorregge, una cultura specifica della ricerca archeologica. Si
tratta insomma di indicarne il territorio se non il dominio, non solo
in base a un oggetto, l’antico (che condivide con l’antiquaria e
con la storia) o a un metodo, lo scavo, ma soprattutto in base a
propri prìncipii. L’archeologia, intesa come archeologia
stratigrafica, non sarebbe dunque una scienza ausiliaria o, peggio
ancora, una semplice tecnica buona per verificare le ipotesi
formulate dallo storico, ma una disciplina dotata di prospettiva
culturale autonoma e di propri strumenti di conoscenza. Una
disciplina in grado di individuare i problemi e i quesiti che la
terra stessa formula con le sue sedimentazioni, indipendentemente
dagli interessi degli storici. E questo con lo scopo principale di
svelare quella parte del reale, della vita trascorsa, che la
tradizione letteraria e artistica ha ignorato o volutamente omesso.
La terra si trasforma così da semplice ostacolo che deve essere
rimosso per raggiungere ciò che vi è sepolto e dimenticato, in
oggetto di indagine, momento di ampliamento delle conoscenze già
acquisite in senso non solo quantitativo, ma anche qualitativo.
Disseppellire significa insomma raccogliere messaggi, scoprire le
leggi che sottendono i rapporti fisici tra le diverse unità
stratigrafiche, tradurre questi rapporti in periodizzazioni e infine
in microstoria. L’autonomia dell’archeologia è anche quella del
suo oggetto, il «sepolto» «non più solo un aggettivo», ma una
realtà con sue caratteristiche peculiari e distinta dall’antico in
generale. Ma Carandini non si ferma a questa peculiarità. Il
sepolto, il mondo del sottosuolo, sarebbe anche munito di una sua
logica, una particolare struttura, uno specifico linguaggio. Ci sono
insomma due modi di essere nettamente distinti: quello delle cose
vive e quello delle cose morte. E qui Carandini si avventura in un
paragone classico, ma che per essere qualcosa di più che suggestivo
dovrebbe fare i conti con complessi problemi teorici: il paragone tra
archeologia e psicanalisi che, figlie della stessa epoca, cercano
rispettivamente ciò che si è perduto nelle profondità del
sottosuolo e in quelle dell’Inconscio. Psicanalisi e archeologia
che storicizzano, sottoponendolo alla coscienza del presente, quel
che è sepolto nell’anima e nella terra.
Al paragone classico si
aggiunge poi, secondo Carandini, una particolare affinità tra i
principi della stratigrafia e la teoria dell’inconscio di Matte
Blanco. Come l’inconscio non sarebbe semplice luogo del rimosso, ma
struttura dotata di una propria logica, diversa da quella che domina
il mondo della coscienza, cosi il sottosuolo si rivelerebbe
sottoposto a leggi diverse da quelle che regolano il mondo dei vivi.
Il paragone si ferma qui, accennato, più repentinamente blasfemo che
argomentatamente eretico, fragile e pur tuttavia indicativo della
difficile posizione che l’archeologia occupa, tra il monopolio
narrativo della storia e la subalternità della tecnica, tra le
parole degli uomini e il silenzio delle cose. Posizione che
facilmente si accorda (e si appaga) con una concezione bilogica:
storia inconsapevole delle masse e storia celebrata delle classi
dominanti, cocci e monumenti, esemplari unici e infinite ripetizioni,
ordine sociale narrato e chaos del quotidiano taciuto, grande e
piccolo, microstoria e macrostoria.
Linguaggi differenti,
utili per contrastare la colonizzazione delle discipline
gerarchicamente forti, ma ancora lontani da una teoria e da un metodo
che pongano la necessità delle connessioni rispettando la diversità
della partì. Da un polo all’altro si promettono percorsi di andata
e ritorno, ina resta una promessa, accompagnata dall’avvertimento
che tra micro e macrostoria la strada è lunga e tortuosa e non
esistono scorciatoie. È certamente vero che l’archeologo può
scovare nella terra «le testimonianze involontarie della storia» e
fra queste i prodotti di quella fatica e di quello sfruttamento la
cui storia non è mai stata narrata. Forse è anche possibile che
decifrando i messaggi che la terra contiene, l’archeologia sia
davvero in grado, come scrive Carandini, di penetrare «l’altra
metà dell’esistenza dove si addensano l’ultradefinito e
l’indefinibile», di cogliere le «atmosfere» e non solo i «nomi»
della storia, di svelare insomma anche quello che gli antichi non
hanno voluto si sapesse di loro. Ma le metà restano l’una accanto
all’altra, ciascuna parlando il suo linguaggio e nessuna capace di
spiegare fino in fondo non solo il tutto, ma neanche la sua propria
parzialità. L’archeologia sta dunque a cavallo tra due culture,
tra due mondi, tra «l’ordine del grande racconto e il disordine
della vita di ogni momento»? A cavallo appunto, e oscillante come
sempre è il cavaliere. Lacerata e circondata da molteplici
tentazioni. Ora con l’ambizione di scrivere una macrostoria della
cultura materiale, ora con la convinzione di poter attingere alla
verità concreta che smaschera le menzogne della letteratura e magari
di avere a portata di mano la realtà della vita vissuta, poi con il
desiderio di rifugiarsi nel piccolo e nella passione esasperata per
l’indizio o di abbandonarsi al culto troppo acritico e ingenuo
dell’ignoto. Dal bisogno di teoria al bisogno di pratica
l’oscillazione è spesso brusca, il percorso oscuro. Non è facile
ricondurre in un insieme armonioso questo manuale e l’anatomia
della scimmia, l’ampio studio di Carandini sulla teoria marxiana
delle formazioni economiche precapitalistiche. Eppure questo stesso
andamento discontinuo testimonia di una disciplina in movimento,
orgogliosa e timida ad un tempo, cosciente di trovarsi al centro di
nodi teorici cruciali, un’archeologia multidimensionale e
problematica, nel pieno di una difficile riflessione sulla propria
natura e di una lotta non meno difficile contro la tradizione
polverosa (ma saldamente insediata nelle istituzioni culturali
italiane) e il tecnicismo ultraspecialistico che rifugge da qualsiasi
prospettiva e da qualsiasi impegno civile.
Anche se tocca una
problematica tanto complessa, non bisogna comunque dimenticare che
Storie dalla terra resta essenzialmente un manuale con lo
scopo dichiarato di descrivere in dettaglio principi e tecniche del
moderno scavo stratigrafico. Uno scavo che attribuisce eguale
interesse a qualunque cosa possa rinvenirsi nella porzione di terra
scelta per l’indagine poiché è dai rapporti fisici, spaziali, tra
tutti gli elementi che il terreno contiene che si risalirà alle
periodizzazioni, alle interpretazioni e infine alla narrazione di
microstoria. Questo scavo si presenta più che come una operazione di
recupero, come un’operazione di chirurgia distruttiva. Tant’è
che lo «scavo assoluto», lo scavo ideale, implicherebbe in teoria
la distruzione totale del sito prescelto. Un paradosso utile per
rendere chiaro quanto questa idea di ricerca diverga dalle
tradizionali concezioni dell’archeologia monumentale (con la quale
naturalmente e fortunatamente è inevitabile il compromesso). Ma
soprattutto l’impostazione stratigrafica deve rinunciare alle
domande precostituite, poiché la ricerca di una singola cosa ne
distruggerebbe mille altre. Solo il rispetto iniziale del disordine
della terra permetterà di ricostruire in seguito, a partire da esso,
un ordine intellegibile.
“il manifesto”,
ritaglio senza data, ma 1982
Nessun commento:
Posta un commento