Uno dei "monocromi" di Alphonse Allais |
Lo spritz e il velo
di Maria
In questa stagione così
torrida, al calar della sera un buon Spritz ghiacciato, magari
all’Aperol o al Campari, col suo colore rosso, sembra allontanare
per un momento il calore opprimente. L’immaginazione, liberata
dallo spirito mercuriale dell’alcool, trasporta la mente in quel
microcosmo colorato che scende nel nostro corpo mentre sussurra
segretamente alla nostra anima, anch’essa assetata, ma di una
trascendenza mai del tutto oscurata dalla luce feroce della
modernità.
Da dove viene il potere
evocativo di quel rosso fluente, profondo, corposo, il fascino
misterioso e sensuale di un pigmento un tempo naturale che ci da
ancora l’illusione di tenere in mano un pulsante cuore liquido? Di
bere, come allegri vampiri incoscienti, un poco di sangue, dolce e
amarognolo al tempo stesso? Ancora una volta è alla Grande Dea
dell’Evo cristiano, alla sua figura di teotoca, di Madre di Dio,
che ci dobbiamo rivolgere per capire ciò che lega psiche a psiche,
cioè anima a frescura.
Il Maphorion di
Maria
Per riannodare il filo
delle suggestioni, spesso inconsce ma non per questo meno potenti,
che ci attirano verso il colore rubino del nostro Spritz, dobbiamo
risalire a com’era colorato in origine il velo delle donne sposate
nell’antica Galilea, ed in particolare al colore del Maphorion di
Maria di Nazareth. Cominciamo da questo: nella tradizione bizantina
l’indumento viene raffigurato com’era in origine: dipinto di
rosso. Ci riferiamo a Bisanzio perché notoriamente la fede nella
Madonna è in Oriente molto più radicata e potente di quella
Occidentale. A questo proposito basta ricordare come il Velo di Maria
fosse ritenuto la reliquia che proteggeva da ogni male la città di
Costantinopoli.
Torneremo tra poco sulla sua storia; per ora basta
dire che esso fu portato dalla Palestina, nel 473, e posto nella
chiesa della Panaghia delle Blacherne.
Panaghia in greco
è un attributo mariano e significa Tutta Santa. Nell’iconografia
del cristianesimo orientale si trovano diverse raffigurazioni della
Panaghia. Ad esempio la Panaghia Platytera, «la più grande dei
cieli»: in questa raffigurazione Maria ha le braccia alzate e porta
sul petto un grosso cerchio con il Bambino benedicente. Altro nome è
Blachernitissa, secondo l’icona di questo tipo venerata in modo
speciale appunto nella chiesa del quartiere delle Blacherne a
Costantinopoli, nella quale fu traslato il Santo Velo. Altre
raffigurazioni sono la Panaghia Odighitria, «che indica la via»
(hodòs), chiamata così da una chiesa di Costantinopoli nella
quale erano solite ritrovarsi le guide delle carovane dei pellegrini,
e la Panaghia Nikopoia «che dà la vittoria»: maestosa e severa
tende con ambedue le mani il Bambino verso l’osservatore.
Ma forse la più
simbolica è la Panaghia Strastnaia, che rappresenta la Madre di Dio
sofferente perché vede dinnanzi a sé la passione del Figlio. Qui la
Madonna non è altro che la trasposizione cristiana della Grande
Madre della paganità preclassica, che generava il suo figlio-paredro
per poi sacrificarlo e resuscitarlo, secondo il ciclo indistruttibile
della zoé. La Madre di Dio che ne vede già la Passione, infatti,
sarà anche quella che gli restituirà la vita.
Qui, tra le altre cose,
si ravviva la relazione tra dionisismo e cristianesimo, ma ci
porterebbe troppo lontano, ed Elémire Zolla, nella sua splendida
introduzione all’antologia Il dio dell’ebbrezza, l’ha
magnificamente trattata.
Tornado al mantello di
Maria, il termine Maphorion deriva dal greco omos (spalla) e
pherein
(portare). In epoca anteriore alla cristianità corrispondeva ad
un pallio, una sorta di sopravveste formata da un ampio
rettangolo o quadrato di stoffa che i Romani indossavano sopra la
tunica fermandolo sotto il mento o su una spalla con una fibbia. Di
questo gioiello ne rimangono di pregevoli al Museo di Villa Giulia a
Roma. Il mantello derivava a sua volta dall’himation greco,
adottato da chi aveva a che fare in qualche modo con questa cultura.
Il Maphorion di Maria,
abbiamo detto, è di un colore rosso porpora che, secondo la
tradizione Orientale, è simbolo della regalità acquisita dalla
persona umana Maria attraverso l’Incarnazione mistica del Cristo in
lei. Sempre secondo l’iconografia classica, infatti, per ribadire
questo Mistero, sul capo e sulle spalle il Maphorion mariano ha
impresso tre stelle, antichissimo simbolo siriaco della verginità.
La reliquia rossa
La tradizione Orientale
narra che la reliquia venne scoperta a Cafarnao, in Palestina, dai
patrizi Galbio e Candidus durante il regno dell’ImperatoreLeone I
(457-474). Le cronache dicono che in origine essa apparteneva ad una
ebrea che la teneva, naturalmente, in un’arca di legno, e che i due
bizantini riuscirono a rubarla sostituendola con una copia. Da
Cafarnao portarono quindi il Sacro Velo a Costantinopoli, dove rimase
fino alla conquista turca del 1453.
Una versione alternativa
attesta che il Maphorion mariano rimase a Costantinopoli non oltre il
568, quando fu portata ad Imola nella chiesa diSanta Maria in Regola
come dono dell’esarca Longino, che avrebbe ricostruito la chiesa
proprio in occasione dell’arrivo della reliquia.
Purtroppo dai rilievi
fatti recentemente, come nel caso della Sindone, il manufatto risulta
essere una tela a strisce, finissima, che da una parte ha i fili
rilasciati, come un vello; in sintesi la sua datazione non va oltre
il VI secolo. Originalità o meno a parte, e questo è un punto
interessante, la questione in realtà non scalfisce in nessun modo il
supposto potere taumaturgico e spirituale che viene, a torto o a
ragione, attribuito alle reliquie dalla devozione popolare.
A riprova di ciò resta
il fatto che, anche se il Maphorion di Maria si trovava ad Imola già
nel 568, il popolo bizantino non doveva essersene accorto, visto che
le cronache storiche ci raccontano di un entusiasmo popolare
alimentato grazie alla reliquia della Vergine presso la chiesa delle
Blacherne che respinse l’assedio degli Avari contro Costantinopoli
nel 626.
Ci parlano di questo
episodio alcuni versi del lungo poema di Giorgio Pisides, il poeta di
corte dell’Imperatore Eraclio (Cappadocia 575 – Costantinopoli
641): «Maria protegge la sua città e le sue mura, e con esse la sua
Casa di Preghiera attraverso la forza magica e apotropaica del
Maphorion a Lei appartenuto, Pallade e Atena cristiana». Qui dunque
il parallelo tra Atena, protettrice di Atene, e Maria di
Costantinopoli, viene reso sotto la forma della potenza magica legata
alla reliquia.
Ora, come abbiamo già
accennato, col termine reliquia si indica un qualcosa che fa parte
del ricordo di un personaggio venerato, e può comprendere qualsiasi
cosa abbia avuto a che fare con lui o, naturalmente, parti del suo
stesso corpo. La reliquia «assorbe» dunque la santità del
personaggi e la riverbera, generando così il suo stesso culto. Il
fenomeno della venerazione delle reliquie è una pratica molto
antica, che si fonda su questa convinzione apotropaica.
Ciò che spinge verso la
venerazione di una reliquia, ancora oggi, non è solo la convinzione
che attraverso di essa continuasse ad operare la Grazia, ma anche che
in qualche modo il potere taumaturgico, o di mediazione col divino,
passasse anche a chi la possedeva e la gestiva, vedi i vari culti
ostensori ancora praticati. E dunque possedere una reliquia divenne
una pratica di potere e di fama, sia per colui che se ne
impossessava, sia per il luogo in cui veniva deposta, come dimostra
ancora oggi il grande rilievo del «turismo-religioso».
Ora, tornando al nostro
Spritz Campari, perché il Velo di Maria è rosso, come possiamo
vedere in tutte le icone bizantine, e di cosa era composto quel
colore? La tradizione Orientale attribuisce a quel particolare
pigmento un significato di totalità. Esso deriva, infatti, e qui sta
l’arcano, dall’unione di due colori fondamentali opposti: il
rosso, caldo, e il blu, freddo, ottenuti in pittura con il cinabro,
che rappresenta il fuoco, e il lapislazzulo che rappresenta invece
l’acqua. Siamo dunque in presenza di un colore doppio, che
racchiude, e al tempo stesso bilancia, le opposte polarità: da ciò
il suo carattere regale.
Non dimentichiamo che gli
antichi simboli alchemici dell’acqua e del fuoco, gli opposti per
eccellenza, sono due triangoli equilateri con i vertici opposti, che
combinati insieme compongono la figura del Sigillo di Salomone.
Ma è decisamente la sua
origine organica che rende ragione, non solo del suo significato
simbolico, ma anche dell’analogia con altri pigmenti dello stesso
colore, come vedremo analizzando quello del nostro Spritz. La porpora
antica derivava, infatti, dal mollusco, oggi purtroppo estinto,
chiamato Murex Trunculus; come ci dice Plinio, è una sostanza che,
disseccata, si separa in due: una azzurra e una rossa. Ciò spiega il
famoso effetto cangiante dei tessuti tinti con questa: presentavano
infatti riflessi che andavano dal rosso all’azzurro. Il valore
simbolico è pertanto intuibile come misteriosa unione degli opposti
in una totalità. Nelle icone della Madre di Dio il Maphorion può
assumere allora le diverse gradazioni della porpora, ove prevalga il
rosso o l’azzurro.
A riprova della
complementarietà tra la Grande Dea ed il suo figlio-paredro, vale la
pena notare come i colori della veste e del manto mariano sono
l’inverso di quelli del Cristo. Infatti la Madre di Dio indossa il
Maphorion di color porpora sopra una tunica di tinta azzurra che si
intravede solitamente sul capo, sul petto e sulle maniche. I colori
rivelano che Maria è la Madre di Dio, colei che è piena della sua
Grazia; e così mentre il color porpora del manto ne simboleggia la
divinità, la sua umanità viene invece rappresentata dalla veste di
colore azzurro.
Il rosso Campari
Le correnti cruelty free,
come vedremo, hanno vinto, almeno sulle etichette, la loro battaglia:
il pigmento rosso del Campari non proviene più da un altro essere
vivente, non acquatico ma terreste, che conserva le stesse
caratteristiche cromatopoietiche dell’estinto Murex, un insetto che
vive sulle pale delle opunthie (fico d’india): la
Cocciniglia. Da non confondersi assolutamente con la Coccinella,
questo animaletto si nutre della linfa delle piante, in particolare
di quelle grasse, e si protegge dai predatori secernendo una sostanza
densa, simile alla cera: il carminio di Cocciniglia.
Solo le femmine di questa
specie hanno il pigmento rosso, l’acido carminico, ed in
particolare quelle gravide. Per ottenere la tinta bisognava quindi
raccoglierle prima che deponessero le uova. Il carminio di
Cocciniglia, una volta essiccato, veniva ridotto in polvere per
essere trattato con ammoniaca o con una soluzione di carbonato di
sodio. La parte solida è poi eliminata filtrandola, e lasciando così
il liquido purificato. Per ottenere le varie sfumature di color
porpora, dal rosso del Campari all’arancione dell’Aperol, si
aggiungeva della calce. Dunque molti insetti venivano di fatto
sacrificati sull’altare del rosso.
Sappiano inoltre le
signore cruelty free che la tinta proveniente dal carminio di
Cocciniglia veniva (viene?) anche utilizzata per prodotti di bellezza
come fard e rossetti. Il Perù produceva, sino ad anni recenti, circa
l’85% delle scorte mondiali di Cocciniglia; in Europa la produzione
si concentrava nelle Canarie e nella Spagna meridionale. L’uso
delle cocciniglie era così diffuso che, dal 1650 circa fino al 1870,
fu considerata la più preziosa merce d’esportazione del Messico
dopo l’oro e l’argento.
Ma perché parliamo al
passato? Perché, almeno in Italia, questo pigmento rosso di origine
animale, denominato con la sigla E120, è stato sostituito, almeno da
quanto si evince dalle etichette, dall’E122 di origine sintetica.
Questo, se da una parte rende appunto il nostro Spritz cruelty
free, dall’altra non ci garantisce affatto che i nuovi pigmenti
artificiali siano innocui come certamente lo era il carminio della
Cocciniglia che, peraltro, è ancora molto usato in alcuni prodotti
delle Americhe che non ammettono l’uso dell’E122 perché
considerato potenzialmente tossico.
Ma esiste un prodotto,
rosso quanto altri mai, il cui nome, almeno quello, ricorda ancora
non solo l’insetto fatale, ma mette in relazione il suo colore al
potere taumaturgico della Vergine.
L’Alchèrmes
Dall’arabo al-qirmiz,
che significa «il verme», in particolare proprio la Cocciniglia,
che indica da dove deriva il suo color cremisi, può considerarsi un
prodotto tipico italiano, e più precisamente fiorentino. Nel
capoluogo toscano l’Alchèrmes arrivò dalla Spagna moresca: si
narra che il liquore, considerato come una specialità medicinale,
fosse già prodotto come elisir di lunga vita dalle suore fiorentine
dell’Ordine di Santa Maria dei Servi, fondato nel 1233. Alla fine
del Quattrocento sappiamo della sua preparazione da parte dei frati
di Santa Maria Novella.
Nel Rinascimento aveva un
ruolo di primo piano tra le bevande preferite alla corte di Lorenzo
il Magnifico. Apprezzato durante le riunioni dei circoli
neoplatonici, se ne tessevano le lodi a partire dal colore, fatto
oggetto di eruditi studi simbolici. Pico della Mirandola, ad esempio,
si domandava quale influenza potesse avere sugli «umori» del corpo
quel fermentato rosso e liquoroso ottenuto da animali vivi,
sorseggiato sia da pontefici come Leone X e Clemente VII, sia dalla
regina Caterina, che ne portò la ricetta in Francia, dove divenne
noto con il nome di «Liquore de’ Medici». Forse, si domandava
Marsilio Ficino, il rosso che ricordava la porpora della Vergine,
poteva in qualche modo influenzare lo stato dell’anima nella sua
ascesa verso il divino?
Ma, anche qui, il
pigmento della Cocciniglia è stato sostituito con quello
artificiale, depotenziandone, almeno secondo testimonianze
direttamente raccolte dallo scrivente in Sicilia, l’originale
potere vermifugo, attribuito proprio alla produzione dall’insetto
naturale, perché legato al simbolismo del rosso velo mariano di cui
abbiamo detto.
Anticamente in Sicilia
questo liquore, chiamato «Archemisi», veniva infatti utilizzato
contro i «vermi da spavento», tipici dei bambini. In questi casi,
fatta la debita diagnosi, i parenti somministravano un cucchiaino o
due di questo liquore, allora preparato con il rosso della
Cocciniglia raccolta dai fichi d’india siciliani. Ma, perché la
terapia avesse effetto, era necessario il combinato disposto tra il
rosso estratto dalla Cocciniglia e l’invocazione alla Vergine
Maria, cui quel colore veniva attribuito come simbolo della sua
Passione di Madre del Salvatore. Oggi, con la scomparsa della
Cocciniglia, tutto questo non ha più luogo, dunque «non ha luogo».
Ma i simboli non
tramontano mai, ed anche se non ce ne accorgiamo, continuano ad
esercitare il loro influsso su di noi, E così tra simbolismo sacro e
medicina tradizionale profana, il colore del nostro Spritz si
scioglie nella gola mentre si ricompone nell’anima la memoria delle
sue origini.
Il Manifesto/Alias- 8
luglio 2017
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