Il testo che segue risale
agli anni in cui l'ingegnere Carlo Emilio Gadda lavorava per la RAI.
Fu scritto per la rubrica domenicale "Buona convivenza",
una sorta di bonario, moderno galateo, cui collaborarono Antonio
Baldini, Silvio D' Amico, Maria Bellonci, Alba De Cespedes, Lorenzo
Giusso, Vincenzo Talarico. Il testo di Gadda, in cui la sua vis
mimetica si disfrena con una sorta di divertita ferocia andò in onda
il 2 ottobre 1955. (S.L.L.)
Camerieri inguantati sono
a scodinzolare tutt'attorno gli schienali delle seggiole, o si
inscrivono tra i neri signori e i decolletés delle dame color
pervinca; si curvano sulla tavola presentando la portata, e
accuratamente servendo. Ma i due professori non c'è probabilità che
la smettano di polemizzare, di sofisticare, il controbattere l'uno la
opinione dell' altro: fra la noia di tutti. L'uno sostiene che si
deve mangiare tacendo, l'altro che si deve parlare mangiando: "a
bocca piena?" "no, sì, già, a bocca vuota": "ma
allora lei non mangia più... e semina il disordine e la confusione
tra l'andirivieni del servizio...".
L'uno dà la palma al
silenzio, al diligente lavoro dei molari, alla tacita deglutizione
dei gnocchi adeguatamente lubrificati in butirro, alla muta
eccitazione delle ghiandole insalivatrici. Tutti i commensali,
secondo lui, dovrebbero far propria la pertinace disciplina dei
ruminanti, del bove: masticare zitti zitti, con occhioni estromessi
ma cervello introvertito: quegli occhioni che non dicon nulla, ma
esprimono la preoccupazione d'aver mandato giù il non salubre
ossicino o la insaluberrima resca. "Attenti alla resca!" è
il suo motto.
L' altro vorrebbe che
"gli spiriti" degli attavolati, il fascino e il brio delle
stupende signore, incrociassero le rispettive armi, impegnassero un
unico gioco, accendessero la gran fiamma della cordialità
conviviale. La tavola, e la zona dei volti, tutto uno scoppiettare di
motti, di lampeggiamenti fascinatori. La tavola un campo di
battaglia, l'elegante campo di una intelligente battaglia: uno
schermagliare di sottili intelletti, un'accòlita di rari pezzi
grossi, una tornata accademica di lingue nobilmente favellanti.
L'assaporante lingua, per lui, è una linguaccia: un organo bestiale
che, usato per il cibo anziché per la favola, ci degrada alla
condizione delle bestie. La lingua motteggiante, guizzante, è invece
la fiamma che ci riporta verso la sfera del fuoco, verso la mobile
sfera del nostro ardore: cioè del nostro ardire, del nostro
intendere, del puro nostro vivere: “I gnocchi! le polpette! Che
volgarità! Il cibo secondo lo spirito deve disporre al meglio, col
suo profumo un tantino platonico, la parte migliore del nostro
essere, cioè la sola che sia degna di venir considerata: deve
ottenere partita vinta, comunque, contro il cibo che seduce la carne,
ossia la lingua, il palato e lo stomaco. A Platone la palma sulle
scaloppine! Allo spirito è consentita la nobile voracità
dell'apprendere, alla gola è inibita la voracità turpe del
deglutire”.
Per poco i due teologi
non si accapigliano: uno è talmente calvo che non sarebbe fair play,
non sarebbe gioco leale da parte sua il prendere l'avversario per i
capelli. Entrambi si astengono dal grattarsi la calva palla del
cranio (l'epicuréo) o il carbonioso e cresputo capillizio (il
platonico): e di ciò li lodo: ché il grattarsi la testa a tavola,
svincolando squame di forfora nell' altrui minestra o pietanza, è
pratica inelegante, nell'Ottocento, anzi, si diceva schifosa.
La signora Dirce,
biondissima fascinatrice di cuori tra le cannonate della polemica e
le conseguenti more del servizio che va rotolando verso le classiche
forme del disservizio, ha estratto il piumino dal marsupio della
trousse e si studia di dealbare il nasetto, resosi un tantino più
rubizzo, forse, di quanto sarebbe desiderabile, e da lei e da noi.
All'udire il tuono delle severe opinioni maritali - (poiché il
polemista platonizzante è suo marito) - all'udirle prolungarsi al di
là d'ogni pazienza e speranza degli attavolati rimminchioniti, ella
profitta per far seguire alla raggiunta e perfezionata imbiancatura
dell'organo del fiuto alcuni maestri colpi di péttine inferti in
parrucca. Dalle sue chiome d'oro si libera per tal modo un pulviscolo
d'oro che un impreveduto riscontro, detto volgarmente spiffero,
conduce a indorare le fragole del vicino, con la delicatezza silente
con cui il flauto, detto volgarmente piffero, di Ermes guidatore di
greggi, conduce le più delicate anime a depositarsi ai campi elisi.
Il vicino è un terzo professore: è provveduto di lenti: ma "soffre
di denti". Lo zabaglione gelato che rinserra le fragole gli si
sdilinquisce nel mal di denti, mentre la pioggia d'oro le investe. Il
professore non avverte il fenomeno: ha preso le parti del microcosmo
contro quelle del macrocosmo sostenute da un commentatore di Goethe
che gli siede quasi dirimpetto. Feroce sostenitore del "culto
della donna, che è la fiamma di ogni ideale, il modulo di ogni più
sana prassi nella vita dello spirito" - (intende dello spirito
maschile, certo) - non ha avvertito il piumino, non ha avvertito il
pettine, non ha avvertito il pulviscolo, non ha avvertito i capelli
d'oro, non ha avvertito la biondissima Dirce (quasi Circe) che gli
siede a lato. Spara sulla prassi come un cacciatore con gli occhiali
d'oro su di una gallina scambiata per fagiano.
La signora Dirce, bionda
vincitrice di ogni cuore, s'è rassegnata ad avere per vicino di
tavola un professore di pedagogia infatuato, hélas! del "culto
della donna". Alla bisteccuzza gli aveva chiesto il sale: e lui,
senza far motto, glie lo aveva subito passato. Ma era il
portastecchi. Dall'altra parte, voglio dire dall'altro lato della
signora, c'è un critico. Non si capisce che cosa critichi, perché
dice "io sono un sincretista": parla con la bocca piena e
dà quindi ragione a entrambi i due tonanti avversari del parlare e
del mangiare; da vero ed autentico sincretinista quale si professa.
Continua a fabulare di "trasposizione" e di
"trasfigurazione in termini poetici", perché la sua, a
sentirlo, è una critica "puntuale", il che significa una
cicalata che dà il cerchio alla testa a tutte le bionde o nere
testoline tristemente ammutolite nei dintorni, coi poveri occhi (per
solito così splendidi!) chini e compunti sulla pietanzuzza. Il
sincretino va nervosamente spilluzzicando un chicco sì un chicco no
da due grappoloni dorati che stringono un gigantesco ananasso in
centro tavola, lasciando in quel trofeo di Vertunno dei vuoti, dei
neri, che ricordano ogni incisivo mancante e il conguente fòrnice in
una bocca salivosa poco sovvenuta dalle cure dello stomatologo. Il
capo cameriere bolognese lo sguarda in cagnesco e strizza i denti e
poi mormora nonostante i guanti bianchi: "Che Dio ti
stramaledica, lascia stare quel grappol d'uva che poi non è più
buono per un'altra volta". Il critico parla e parla: e a poco a
poco, e non impedito dalla bocca piena, supera il cannoneggiamento
languente dei due teologi del mangiare e del tacere. Partito a lancia
in resta contro uno scrittore "barocco", "Sì,
barocco!" urla, e tra le ultime stramaledizioni del chef, butta
là lungo disteso sulla tovaglia bianca, il calice di vin rosso che
gli era stato così cautelosamente servito da mano inguantata di fil
bianco, e ch'era gocciato così nobilmente dal collo di antica
bottiglia, incravattata di bianco tovagliolo (a ritenere la stilla!).
Il critico non beve se non acqua: il calice era colmo. Egli non si
riscalda col vino, ma con la sua stessa voce, come il 95 per cento
degli oratori. Quel rosso carmine sulla tovaglia di novemila lire è
una stilettata al cuore, per il cuore del proprietario o gestore che
fosse. "Viva! allegria!" tuona l'ingegner Pacchioni: e ci
bagna il dito, nel guazzo, e se lo porta al naso: per battezzare un
organo che, nella specifica, non ha bisogno d'esser tinteggiato col
cinabro.
“la Repubblica”, 7
agosto 1992
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