25.12.17

Gandhi. Dove sei, profeta scalzo? (Beniamino Placido)

Cosa sarà di noi quando non ci saranno più le librerie vere e i librai all'antica, quelli che riconoscono i libri buoni al fiuto (o al tatto, o chissà come) e che ci orientano con i loro saggi consigli? Il vecchio libraio romano da cui mi servo, alla domanda perché non avesse negli scaffali nessun libro su Gandhi — né nuovo né vecchio, né italiano né straniero — mi ha risposto: «...ma Gandhi è triste...».
È vero: Gandhi è triste; la sua figura non ispira pensieri allegri. Ma perché? Non certo perché sia finito male, tragicamente, ucciso dalla rivoltellata del fanatico hindu Nathuran Godse, il 30 gennaio 1948. Tanti eroi popolari finiscono male, finiscono tragicamente, e lasciano tuttavia un ricordo allegro, esaltante, di sé.
Oppure: Gandhi è triste perché è triste quello che è accaduto dopo di lui. L’India alla quale egli aveva predicato la non-violenza si è fatta le sue guerricciole e le sue centrali atomiche. La società indiana alla quale egli aveva additato la fedeltà all’artigianato antico, al telaio familiare, il «Charca», si è fatta i suoi bravi piani quinquennali (più o meno realizzati) ed aspira allo sviluppo industriale. Ma è accaduto lo stesso un po' dappertutto. E allora?
No, se Gandhi è triste è perché c’è qualcosa di triste nello stesso ideale di non-violenza. Che è — intendiamoci — un ideale altissimo, e di altissimo fascino. Così come è di inesauribile fascino quel periodo di tre secoli — fino all’Editto di Costantino — in cui i cristiani predicano e praticano la non-violenza. «Mihi non licet militare, quia christianus sum», dice il martire. E Lattanzio gli ricorda che è preferibile farsi uccidere piuttosto che uccidere: «Morietur potius quam occidat».
Forse la non-violenza è triste perché ha dentro qualcosa di sfuggente, di vile? Nemmeno questo è vero. L’esempio cristiano dimostra semmai che è vero il contrario, e Gandhi ha delle parole estremamente esplicite in proposito. Si possono leggere, queste parole, nella raccolta che ne ha fatto Richard Attenborough, il regista del film sul Mahatma (e che tra poco pubblicherà Longanesi in Italia: Le parole di Gandhi, pagg. 110, lire 9.000): «Posso immaginare un uomo armato fino ai denti che sia, in cuor suo, un codardo. Il possesso di armi implica un elemento di paura, se non di vigliaccheria. La vera non-violenza è invece impossibile ove non si possegga un indomito coraggio».
E tuttavia Gandhi continua ad essere triste. Perché? Sarà la tristezza dei profeti disarmati che — diceva Machiavelli — «ruinorno», mentre quelli armati vinsero? Non è così. A parte quello che è accaduto dopo la sua morte, in vita questo profeta scalzo e disarmato le sue battaglie — contro le discriminazioni razziali, per l’indipendenza nazionale — le ha vinte.
Ma come, e dove, le ha vinte? Qui si cominciano ad intravedere i limiti — esterni — della non-violenza. Gandhi ha vinto in presenza di colonizzatori, di nemici — gli inglesi— che erano colonizzatori e nemici un po’ particolari. Particolarmente attenti al rispetto delle regole.
Non si vuole riaprire qui il discorso sul colonialismo inglese in India: se sia stato un colonialismo buono, o cattivo, o pessimo. Certamente è stato colonialismo, e non ci piace. Ma altrettanto certamente si è trattato di un colonialismo un po’ particolare. Ho presente una vecchia vignetta. Si vede un ufficiale inglese, Lord Willingdon, il viceré, che si appresta a fare anche lui lo sciopero della fame. Come a dire: siamo inglesi, siamo nel ’900, stiamo in India. La repressione non la possiamo praticare. Cos’altro ci resta, se non imitare questi benedetti «ribelli», e fare lo sciopero della fame anche noi?
In circostanze come queste, la non-violenza si può praticare. In altre no. E Gandhi lo sapeva benissimo: «Credo fermamente che laddove non ci sia da scegliere che fra codardia e violenza, si debba consigliare la violenza. Perciò, quando il mio figlio maggiore mi chiese come avrebbe dovuto comportarsi se fosse stato presente allorché io, nel 1908, venni aggredito e ridotto quasi in fin di vita, io gli risposi che sarebbe stato suo dovere difendermi, anche a costo di usare violenza».
Questi i limiti esterni della nonviolenza. Ma c’è qualcosa di più interno, e di più triste. I fatti che sono accaduti un po’ dappertutto, dopo la morte di Gandhi, hanno insinuato dentro di noi il sospetto che non siamo affatto dei non-violenti. Che siamo anzi — chi più, chi meno — tendenzialmente violenti. Che, se rimossa in modo meccanico, la violenza tende a tornare con maggior forza. Come quella certa ingordigia di guerra di cui proprio Gandhi parlava: «È probabile che uno dopo aver fatto una indigestione di dolciumi, se ne astenga per un certo periodo, ma poi tornerà a mangiarne con raddoppiata voracità, una volta passata la nausea».
E come abbiamo visto intorno a noi, proprio in questi anni, la stessa retorica radicale della non-violenza può presentarsi in termini aggressivi, incalzanti, tendenzialmente «violenti».
No, non è Gandhi che è triste. Siamo tristi noi. Perché pur amando, pur ammirando questo personaggio, non sapremmo più dove metterlo. Perché è diventato più difficile nutrire le sue grandi illusioni.


“la Repubblica”, 8 febbraio 1983

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