Cosa
sarà di noi quando non ci saranno più le librerie vere e i librai
all'antica, quelli che riconoscono i libri buoni al fiuto (o al
tatto, o chissà come) e che ci orientano con i loro saggi consigli?
Il vecchio libraio romano da cui mi servo, alla domanda perché non
avesse negli scaffali nessun libro su Gandhi — né nuovo né
vecchio, né italiano né straniero — mi ha risposto: «...ma
Gandhi è triste...».
È
vero: Gandhi è triste; la sua figura non ispira pensieri allegri. Ma
perché? Non certo perché sia finito male, tragicamente, ucciso
dalla rivoltellata del fanatico hindu Nathuran Godse, il 30 gennaio
1948. Tanti eroi popolari finiscono male, finiscono tragicamente, e
lasciano tuttavia un ricordo allegro, esaltante, di sé.
Oppure:
Gandhi è triste perché è triste quello che è accaduto dopo di
lui. L’India alla quale egli aveva predicato la non-violenza si è
fatta le sue guerricciole e le sue centrali atomiche. La società
indiana alla quale egli aveva additato la fedeltà all’artigianato
antico, al telaio familiare, il «Charca», si è fatta i suoi bravi
piani quinquennali (più o meno realizzati) ed aspira allo sviluppo
industriale. Ma è accaduto lo stesso un po' dappertutto. E allora?
No,
se Gandhi è triste è perché c’è qualcosa di triste nello stesso
ideale di non-violenza. Che è — intendiamoci — un ideale
altissimo, e di altissimo fascino. Così come è di inesauribile
fascino quel periodo di tre secoli — fino all’Editto di
Costantino — in cui i cristiani predicano e praticano la
non-violenza. «Mihi non licet militare, quia christianus sum», dice
il martire. E Lattanzio gli ricorda che è preferibile farsi uccidere
piuttosto che uccidere: «Morietur potius quam occidat».
Forse
la non-violenza è triste perché ha dentro qualcosa di sfuggente, di
vile? Nemmeno questo è vero. L’esempio cristiano dimostra semmai
che è vero il contrario, e Gandhi ha delle parole estremamente
esplicite in proposito. Si possono leggere, queste parole, nella
raccolta che ne ha fatto Richard Attenborough, il regista del film
sul Mahatma (e che tra poco pubblicherà Longanesi in Italia: Le
parole di Gandhi, pagg. 110,
lire 9.000): «Posso immaginare un uomo armato fino ai denti che sia,
in cuor suo, un codardo. Il possesso di armi implica un elemento di
paura, se non di vigliaccheria. La vera non-violenza è invece
impossibile ove non si possegga un indomito coraggio».
E
tuttavia Gandhi continua ad essere triste. Perché? Sarà la
tristezza dei profeti disarmati che — diceva Machiavelli —
«ruinorno», mentre quelli armati vinsero? Non è così. A parte
quello che è accaduto dopo la sua morte, in vita questo profeta
scalzo e disarmato le sue battaglie — contro le discriminazioni
razziali, per l’indipendenza nazionale — le ha vinte.
Ma
come, e dove, le ha vinte? Qui si cominciano ad intravedere i limiti
— esterni — della non-violenza. Gandhi ha vinto in presenza di
colonizzatori, di nemici — gli inglesi— che erano colonizzatori e
nemici un po’ particolari. Particolarmente attenti al rispetto
delle regole.
Non
si vuole riaprire qui il discorso sul colonialismo inglese in India:
se sia stato un colonialismo buono, o cattivo, o pessimo. Certamente
è stato colonialismo, e non ci piace. Ma altrettanto certamente si è
trattato di un colonialismo un po’ particolare. Ho presente una
vecchia vignetta. Si vede un ufficiale inglese, Lord Willingdon, il
viceré, che si appresta a fare anche lui lo sciopero della fame.
Come a dire: siamo inglesi, siamo nel ’900, stiamo in India. La
repressione non la possiamo praticare. Cos’altro ci resta, se non
imitare questi benedetti «ribelli», e fare lo sciopero della fame
anche noi?
In
circostanze come queste, la non-violenza si può praticare. In altre
no. E Gandhi lo sapeva benissimo: «Credo fermamente che laddove non
ci sia da scegliere che fra codardia e violenza, si debba consigliare
la violenza. Perciò, quando il mio figlio maggiore mi chiese come
avrebbe dovuto comportarsi se fosse stato presente allorché io, nel
1908, venni aggredito e ridotto quasi in fin di vita, io gli risposi
che sarebbe stato suo dovere difendermi, anche a costo di usare
violenza».
Questi
i limiti esterni della nonviolenza. Ma c’è qualcosa di più
interno, e di più triste. I fatti che sono accaduti un po’
dappertutto, dopo la morte di Gandhi, hanno insinuato dentro di noi
il sospetto che non siamo affatto dei non-violenti. Che siamo anzi —
chi più, chi meno — tendenzialmente violenti. Che, se rimossa in
modo meccanico, la violenza tende a tornare con maggior forza. Come
quella certa ingordigia di guerra di cui proprio Gandhi parlava: «È
probabile che uno dopo aver fatto una indigestione di dolciumi, se ne
astenga per un certo periodo, ma poi tornerà a mangiarne con
raddoppiata voracità, una volta passata la nausea».
E
come abbiamo visto intorno a noi, proprio in questi anni, la stessa
retorica radicale della non-violenza può presentarsi in termini
aggressivi, incalzanti, tendenzialmente «violenti».
No,
non è Gandhi che è triste. Siamo tristi noi. Perché pur amando,
pur ammirando questo personaggio, non sapremmo più dove metterlo.
Perché è diventato più difficile nutrire le sue grandi illusioni.
“la
Repubblica”, 8 febbraio 1983
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