Sandro Penna con Pier Paolo Pasolini |
Sandro Penna «è il più
grande, e il più lieto, poeta italiano vivente». Davvero? Ignoro
perché Pasolini, presentando nel 1970 l’edizione di Tutte le
poesie, arrivasse a questa strana iperbole. E Montale? E
Palazzeschi? Non erano né grandi né lieti? La definizione
pasoliniana, che identifica grandezza ed erotismo e vede
nell’erotismo (di Penna) un’esperienza di letizia e santità
addirittura francescana, ha qualcosa di sofistico e crepuscolare.
Penna, al contrario, è un “poeta in luce” (Garboli) e tra il suo
basso e il suo alto - tra orinatoio e stelle - non c’è nessun
ponte cognitivo né emotivo ma solo un’abissale sospensione di
senso. La luce fredda, l’estremo nitore della sua poesia, «dove
tace ogni virtù» (Sole senz’ombra), sono dovuti in effetti
a un’eccezionale estraneità del poeta al proprio stesso fatum
e a ogni eventuale incremento di formazione.
Ma oggi? Sono passati
anni nei quali a Penna non si è prestata l’attenzione che ad altri
poeti, come Giorgio Caproni ad esempio, critica e lettori hanno
opportunamente prestato. È molto benvenuto, dunque, il volume di
poesie e prose (con inediti e corredato da una importante Cronologia
di Elio Pecora) che Roberto Deidier, autore anche dell’eccellente
saggio introduttivo, ha appena licenziato per i Meridiani Mondadori.
Di Penna, che conosce perfettamente «l’arte di dire poco» (così
Alfredo Giuliani, nel 1958, sul «Verri»), questo volume ci dice
tutto ciò che è possibile dire: dalle trouvailles
all’indomani della morte e allo stupore (di Pecora) «per la cura
riservata alle sue carte da parte di un autore che i suoi stessi
esegeti hanno sistemato fra i meno affidabili quanto a chiarimenti
sulla propria opera»; al sodalizio e al piccolo carteggio con
Montale, che battezza Penna “Piumino” e presentandolo a un’amica,
per un impiego, di proposito non accenna «alle poesie e tantomeno
allo scabroso penchant che esse rivelano (o ostentano?)»; ai critici
migliori, da Giuliani a Garboli (così ancora Giuliani: «era una
specie di polinesiano capitato per caso e da perfetto estraneo in
mezzo alla società cristiano-borghese dell’Occidente. Gli dèi
avevano concesso proprio a lui l’arte di dire sempre una sola cosa
e in quel poco alludere a una necessità infinita»).
Ben più perfettamente
straniero di quel persiano che, nelle Lettres di Montesquieu,
quando è a Parigi non fa che comparare e distinguere tra Oriente e
Occidente, questo “polinesiano” si mantiene intatto e refrattario
nel suo stato di natura, nella vita in sé che gode come Anacreonte
godeva scolando «un orciolo di vino» e cantando «una serenata alla
ragazza»: Il mio dio se ne va in bicicletta/ o bagna il muro con
disinvoltura. Non c’è un solo verso di Penna che proceda da un
impulso concettuale né da un pensiero, né grande né piccolo, né
essenziale né trascurabile. Se la poesia italiana del Novecento, a
partire da Leopardi, è essenzialmente e necessariamente legata a
un’evoluzione o a un infarto speculativo, Penna al contrario appare
libero, sciolto da ogni scrupolo, dissolto nella vita, incurante di
una tradizione che tuttavia non ignora (Pascoli, D’Annunzio, la
strofetta metastasiana...). Cesare Garboli ha scritto che, stricto
sensu, Penna non è neppure un poeta, ma un fenomeno, una specie
di animale straordinario, un esemplare purissimo «di una specie che
forse si sta estinguendo». I suoi versi, aggiungeva, «arrivano di
sorpresa, ti prendono alle spalle e ti rubano il fiato».
Naturalmente, si potrebbe
dire che estraniarsi dal pensiero, dichiararsene immune, è un modo
di pensare. Ma si farebbe torto a Penna. Il suo canzoniere non è che
una estesa e ostinata serie di variazioni sul sesso che, fin dai
primi materialisti del Seicento, risulta il solo antidoto alla noia
del pensare e il solo principio di persuasione alla vita conosciuto
dagli uomini. Giovinetti nell’estate «ancora fresca», fanciulli
dalle «piume leggere», operai distesi sui prati, marinai dinnanzi a
«un mare tutto fresco di colore», garzoni, amici «odorosi di
stalla»... Che altro? Sempre fanciulli nelle mie poesie!/ Ma io
non so parlare d’altre cose./ Le altre cose son tutte noiose. E
ancora: Il problema sessuale/ prende tutta la mia vita./ Sarà un
bene o sarà un male/ mi domando ad ogni uscita. Questi
innumerevoli fanciulli, di cui non distinguiamo il volto «nascosto
dietro la nube dell’idea fissa» (Garboli), costituiscono la
pretesa di una poesia non evolutiva, non soggetta alla legge del
“nuovo”, e concepita al di là del logos e della corrente stessa
che forza gli argini della nostra traditio, da Petrarca a
Montale.
Incorniciata di lune,
mari azzurri, treni ed arse campagne, questa figura fissa di
fanciullo che non ha nome, né storia, né spirito, è la sola su cui
lo straordinario “animale” Penna costruisce il suo canzoniere.
Nel tempo che “sosta”, addormentato/ entro il dolce rumore
della vita, il poeta vagheggia la sua icona ossessionante che è
tuttavia una moltitudine, una folla di immagini, mai un’unica
immagine dominante o un volto singolare e drammatico. Chi è,
dopotutto, questo ragazzo-fanciullo privo di sé al punto da non
essere che il riflesso replicabile di una «brama monotona»? Il
Marinaio e l’Operaio in posa in un piccante gioco di tarocchi o in
un aggiornato Portier des Chartreux? O addirittura l’Amato,
l’Unico, in una declinazione modulare e al grado zero dell’amore
romantico?
All’assoluta mancanza
di spirito di Penna, al suo distacco dalla cosiddetta storia e al suo
dannunzianesimo fondamentale quanto a concentrazione stilistica
assoluta, nella realtà evaporata, corrisponde peraltro
un’intuizione: Penna non esiste. Arso completamente dalla vita/
io vivo in essa felice e dissolto. Reso indistinguibile dall’onda
della vita, reso nessuno, il poeta ama qualcuno che non è mai
qualcuno, effettivamente identificabile nella sua umanità, ma una
forma sessuale pura. La stessa parola “amore”, così frequente
fin dalle prime poesie, ha in Penna il significato ampio di amore per
la vita più che quello convenzionale e lirico e orientato alla
“bella persona”: Ecco, fanciullo, io ti ho portato a questo/
luogo selvaggio, a notte, per che fare?/ Non so. Non posso soffocare
io questo/ amore della vita. E sotto è il mare.
Una poesia amorosa che
cancelli e sfumi i soggetti del discorso amoroso - l’io, il tu - a
tutto vantaggio di un indeterminato (seppur travolgente) amore in sé
o «amore della vita», è un’eccezione formale nella lirica
italiana, da Aspasia di Leopardi agli Xenia di Montale.
Chi ama chi? L’oblazione di sé, segnalata da Beckett come la
celestiale svolta della poesia leopardiana nella modernità, è qui
diretta a una specie di raddoppiata jouissance. Nel crollare e
sciogliersi fuori di sé e nuotare senza orientamento in un’acqua
accogliente, Penna stabilisce il suo nuovissimo codice espressivo
insieme al suo inderogabile obbligo carnale. Poesia e “problema”
(sessuale), ispirazione e ossessione non sono, come pensava Garboli,
distinguibili in lui. La poesia non è affatto “più grande”
dell’ossessione. Nessun dono dialettico, nessun recupero al livello
di nessuno spirito emancipa Penna dalla sua servitù, dal suo “male”
che tuttavia esattamente coincide con «una strana gioia di vivere».
Se Penna tocca la
perfezione, è perché non ha mai attribuito alla poesia un
idealistico potere di trasvalutazione di quel male-gioia di vivere.
Se un nero treno parte/ scopre - là in fondo - il mare./ Ed io
lascio le avare/ inutili mie carte: l’acuta malinconia di un
attimo (“avare” o “sudate”, in un certo senso, le carte sono
sempre inutili?) non esime Penna dall’essere un poeta tutto di
carne e colore, interamente estraneo agli appelli, o ai trabocchetti,
dello spirito. La sua piccola e lampante perfezione, la sua grazia,
la sua estrema evidenza sono relative al dominio della materia. «Il
cielo è vuoto». Ma questo vuoto non è sotto gli occhi, non è
raggiungibile dai sensi. È come se non ci fosse.
“Il Sole 24 Ore”,
Domenica 30 luglio 2017
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