In un'assemblea del Pd al
Palalottomatica di Roma, convocata nel giugno del 2010 dal segretario
Bersani per discutere e contrastare la manovra al tempo decisa dal
governo Berlusconi, l'attore Fabrizio Gifuni concluse il suo
appassionato intervento dicendo “Compagne e compagni … è tanto
che volevo dirlo”. Le cronache raccontano di quelli che si
spellarono le mani nell'applauso, ma anche dei dissensi, giovanili ma
non solo. contro quella parola giudicata anacronistica.
Sul tema Sandro Portelli
inviò al “manifesto” un articolo di cuore e di testa, che
partiva dal passato, quando ancora c'erano istituzioni (non prive di
limiti e difetti e tuttavia solide ed efficienti) capaci di riempire
di senso la volontà di dirsi “compagni” e di darle forza. Credo
che esso contenga, implicitamente, qualche buona indicazione su come
tornare oggi, a distanza di alcuni anni, e ancora di più domani a
dirsi ed essere “compagni”. (S.L.L.)
Fabrizio Gifuni. Ritratto fotografico di Paolo Santambrogio |
“Io entravo nelle case
dei contadini pugliesi come un ‘compagno’, come un cercatore di
uomini e di umane dimenticate istorie, che al tempo stesso spia e
controlla la sua propria umanità, e che vuol rendersi partecipe,
insieme agli uomini incontrati, della fondazione di un mondo
migliore, in cui migliori saremmo diventati tutti, io che cercavo e
loro che ritrovavo.”
Nel 1953, Ernesto de
Martino la parola “compagno” la pronunciava fa virgolette: forse
per marcare la propria dualità di studioso e di militante, che
metteva in discussione non il rigore della ricerca e della politica
ma la separatezza del ricercatore e del politico dall’umanità che
cercava di rappresentare – scrivendone nei suoi libri e
esprimendone le rivendicazioni nelle istituzioni. Compagno voleva
dire uno con cui si divide il pane, e uno con cui si divide il
cammino. Chiunque ha fatto lavoro sul campo – di ricerca
etnografica come di organizzazione politica - sa che entrare nelle
case delle persone di cui si cerca la voce significa in primo luogo
accettare un’offerta di cibo – un biscotto o un caffè – e in
secondo luogo ascoltare una storia. Essere “compagni”, cioè
sperimentare nel tempo dell’incontro un’uguaglianza che la
società nega nel tempo ordinario. Come spiegava de Martino: “l'esser
fra noi 'compagni', cioè l'incontrarci per tentare di
essere insieme in una stessa storia”.
Ma è bastato pronunciare
la parola “compagno” dal palco di un partito che teoricamente
dovrebbe essere nato proprio per “tentare di essere insieme in una
stessa storia” per rivelare una contraddizione e scatenare un
dibattito che non è solo nominalistico e un po’ assurdo come
troppo in fretta alcuni l’hanno liquidato. Perché non si tratta
solo di una differenza ideologica e simbolica, fra chi viene da una
tradizione e chi no. È la profonda differenza fra due modi di stare
nella storia: sentire, o desiderare, la nuova esperienza politica
come uno sviluppo di tutto quello che abbiamo alle spalle (ancora de
Martino, addolorato e ironico: “rammemorare anche quella loro
storia passata che non poteva in modo immediato essere attuale e
comune, e che, in ogni caso, era da ricacciare lontano e da
sopprimere"); o credere, come tutti i neonati o i “nati PD”
che la storia e il mondo cominciano con se stessi e tutto il resto è
da buttare. Ma anche: rammemorare che quella storia da ricacciare e
da sopprimere era un passato che aveva un sogno di futuro (“della
fondazione di un mondo migliore, in cui migliori saremmo diventati
tutti”).
C’è chi davvero ha
creduto non solo, come Fukuyama, che la storia sia finita col muro di
Berlino, ma anche che non sia nemmeno ricominciata. Che futuro hanno
in mente i neonati del PD (che in certi manifesti affissi a Roma si
ribattezza con raggelante gioco di parole “PDigitale”?) se non un
continuo rinnovarsi di una modernità già vecchia? Nel nostro eterno
presente, il pane e la storia non si dividono più con nessuno. Siamo
tutti individui nella folla solitaria, tutti imprenditori di noi
stessi con partite IVA mentali. Nessuno obbliga i neonati del PD a
chiamarsi compagni, ma mi domando come si chiameranno fra loro –
cioè, che cosa penseranno di essere, come si riconosceranno - gli
iscritti a questo partito agitato ma non mescolato.
Ho visto in questi giorni
un film di Rina Amato, Cessarè, sulla storia e la memoria
delle lotte contro la ‘ndrangheta nella Locride degli anni ’70.
Dopo l’uccisione del giovane comunista Rocco Gatto da parte della
criminalità organizzata, un prete di base, Natale Bianchi, scriveva
a un dirigente del Partito Comunista (cito a memoria): “Il partito
deve fare chiarezza, per non disorientare quei compagni che ancora
resistono sul piano sociale e politico”. Ma resiste ancora
qualcuno, sul piano sociale, politico e mettiamoci anche culturale?
Chi fa chiarezza? Esistono parole ancora più indicibili della parola
“compagno”: mentre l’assemblea si entusiasmava e si
disorientava per una vecchia parola, la parola “Pomigliano” non
era nemmeno pronunciata. Stanno nella stessa storia, sono “compagni”
fra loro, i quadri del nuovo partito e gli operai lacerati fra un
lavoro comunque o i diritti umani e costituzionali? Qualche dirigente
politico entra ancora nelle loro case, ascolta ancora le loro storie
e cerca di metterle insieme? Chi li rappresenta? Chi rappresenta chi?
Chi “spia e controlla la nostra stessa umanità”? Chi cerca una
storia comune?
il manifesto 23 giugno
2010
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