Riprendo dal “manifesto”
le prime due puntate di un'inchiesta sulla corruzione in Giappone nel
trentennio che seguì la Seconda Guerra Mondiale, una vicenda
speculare a quella di un altro paese sconfitto nella guerra,
l'Italia. (S.L.L.)
1957. Il premier giapponese Nasubuke Kishi con il presidente USA Eisehhower. Uno dei pronipoti di Nasubuke Kishi è attualmente primo ministro in Giappone |
Il regno della Nissan,
della super-produttività e delle geishe computerizzate continua a
stupire (e a preoccupare) gli osservatori economici. C’è chi teme
l’invasione del «made in Japan» e chi invece scalpita (vedi
Confindustria) per importare l’armonioso modello socio-produttivo
del Sol Levante. Critiche ed elogi — interessati o meno —
sembrano tuttavia affrontare il «modello» Olappone come una realtà
lontana, profondamente diversa, probabilmente irripetibile in
occidente.
I sindacati collaborano?
Certo, perché coscienza e lotta di classe sono ignote ai lavoratori
giapponesi... Record della produttività? Logica conseguenza, dato
che operai e dirigenti si identificano nell’azienda e ne
condividono guai e fortune. E cosi di seguito, con l’evidente
rischio di correre dietro a fantasmi e perseverare
nell’incomprensione e mistificazione del «miracolo» giapponese.
Un atteggiamento che non
favorisce certo il dibattito in un Occidente in cerca di «modelli»
e che fa invece il gioco delle transnazionali giapponesi e del
governo liberaldemocratico, lanciato da alcuni anni in una nuova,
profonda svolta reazionaria (riarmo, riforma dei testi scolastici,
fermo di polizia etc.).
Proviamo dunque a fare un
viaggio a ritroso nel pianeta Giappone, per scoprire se l’armonia
che traspare dalle immagini ufficiali (e dai reportage di certi
inviati speciali) è davvero il frutto di un modello socio-economico
che ha risolto tutte le sue contraddizioni e si avvia tranquillo a
costruire la prima società «post-industriale» del mondo oppure se
ci troviamo ancora una volta di fronte ad un «successo» di
cartapesta, costruito sulla pelle dei lavoratori e gestito, oltre che
dagli zaibatsu, da una classe politica corrotta e succube
degli Stati uniti.
Il compito di
«democratizzare» il Giappone — all’indomani della seconda
guerra mondiale — fu avocato, come è noto, dagli Usa e delegato al
generale McArthur, comandante supremo delle forze alleate nel
Pacifico. Il «programma» prevedeva, tra le altre cose, la
distruzione degli oligopoli familiari (zaibatsu), la riforma
istituzionale ed il disarmo perpetuo, disarmo che venne poi sancito
nell’art. 9 della nuova Costituzione (dettata articolo per articolo
dagli «esperti» di Me Arthur alle recalcitranti autorità
giapponesi).
McArthur si trovò ben
presto a lottare con i suoi stessi consiglieri, inviati in fretta e
furia dal Dipartimento di stato per evitare di «consegnare il
Giappone in mano ai comunisti». C’erano stati i primi scioperi, le
prime occupazioni e la nascita di un movimento di classe che non
faceva mistero di voler gestire autonomamente il processo di
«democratizzazione». La «sterzata» imposta da McArthur ha una
data precisa, il primo febbraio 1947, quando uno sciopero generale
organizzato dai sindacati legati al partito comunista minacciava di
portare a Tokyo 5 milioni di lavi ratori con lo scopo dichiarato di
far cedere il governo «fantoccio» di Shigeru Yoshida e formarne uno
di unità nazionale.
Lo sciopero venne
proibito dalle autorità americane e nei giro di un paio di settimane
si concluse l’operazione mecha-mecha: dalle patrie galere
vennero liberati decine di migliaia di criminali di guerra, mafiosi e
vecchi padroni degli zaibatsu, rimpiazzati da sindacalisti e
giovani dirigenti del Pc giapponese.
Basti per tutti l’esempio
del carcere di Sugamo, dove erano stati rinchiusi i principali
responsabili della guerra. In una della c’erano Ryochi Sasagawa,
Noqusuke Kishi e Yoshio Kodama: 11 primo è attualmente presidente di
un centinaio di associazioni culturali-sportive (karaté,
kendo,, etc.) e boss incontrastato del mondo delle scommesse,
dalle quali trae i fondi per corrompere buona parte del partito al
governo; il secondo, Kishi, è stato per molti anni primo ministro e
proconsole americano ed ora continua ad esercitare un vasto potere
sia come «consulente supremo» del partito liberaldemocratico, sia
attraverso una serie di società finanziarie Usa al quale è
collegato, insieme a suo genero, l’attuale ministro del Commercio e
dell’industria, Shintaro Abe. Kodama, infine, è il boss
incontrastato della ’ndrangheta giapponese (yakuza), leader
riconosciuto di una ventina di movimenti eversivi di destra, intimo
amico del famigerato Reverendo Moon e coinvolto in quasi tutti i più
recenti scandali del paese, compreso l’affare Lockeed per il quale
dovrebbe essere condannato entro la fine di quest’anno.
Il «trio di Sugamo» non va comunque sopravvalutato: nello staff americano che gestì il “nuovo corso” troviamo infatti gli stessi industriali, gli stessi banchieri, gli stessi «esperti» del Pentagono che proprio in quegli anni si opponevano strenuamente al processo di «denastizzazione » della Rft e al governo di unità nazionale in Italia, nella speranza di legare il futuro economico di questi paesi alle fortune e ai profitti delle multinazionali che rappresentavano. Tra gli anni ’48-’52 troviamo a dirigere l’Acj (American Council of Japan) personaggi come i fratelli Dulles (Allen e John Foster, già segretario di Stato), consulenti legali dell’impero Rockfeller; Douglas Dillon e William Draper (dirigenti della Cia); John Me Cloy, ministro degli esteri dell’Itt ed ex presidente della Chase Manhattan Bank, intimo amico di Kodama, Chang-kai Shek e Sukarno e un certo Compton Pakenham, che più tardi divenne capo dell’uf-fucio di corrispondenza di “Newsweek” a Tokyo. Il presidente dell’Acj, guarda caso, era Joseph Grew, ex ambasciatore Usa in Giappone e ex sottosegretario di Stato, che nell’immediato dopoguerra apri a Tokyo il più grande studio di consulenze commerciali, prima di ritirarsi nella sua piantagione di canna da zucchero nelle Hawaii e di presiedere (fino al 1971) il «Comitato internazionale per l’esclusione della Cina dall’Onu».
Il «trio di Sugamo» non va comunque sopravvalutato: nello staff americano che gestì il “nuovo corso” troviamo infatti gli stessi industriali, gli stessi banchieri, gli stessi «esperti» del Pentagono che proprio in quegli anni si opponevano strenuamente al processo di «denastizzazione » della Rft e al governo di unità nazionale in Italia, nella speranza di legare il futuro economico di questi paesi alle fortune e ai profitti delle multinazionali che rappresentavano. Tra gli anni ’48-’52 troviamo a dirigere l’Acj (American Council of Japan) personaggi come i fratelli Dulles (Allen e John Foster, già segretario di Stato), consulenti legali dell’impero Rockfeller; Douglas Dillon e William Draper (dirigenti della Cia); John Me Cloy, ministro degli esteri dell’Itt ed ex presidente della Chase Manhattan Bank, intimo amico di Kodama, Chang-kai Shek e Sukarno e un certo Compton Pakenham, che più tardi divenne capo dell’uf-fucio di corrispondenza di “Newsweek” a Tokyo. Il presidente dell’Acj, guarda caso, era Joseph Grew, ex ambasciatore Usa in Giappone e ex sottosegretario di Stato, che nell’immediato dopoguerra apri a Tokyo il più grande studio di consulenze commerciali, prima di ritirarsi nella sua piantagione di canna da zucchero nelle Hawaii e di presiedere (fino al 1971) il «Comitato internazionale per l’esclusione della Cina dall’Onu».
Il ruolo dell’Acj
risulta evidente da un rapporto segreto finito qualche anno fa nelle
mani di un giornalista americano, John Roberts, autore fra gli altri
di Mitsui, tre secoli di «affari» alla giapponese. L’autore
del rapporto, ormai pubblico, parla di una serie di incontri avvenuti
a Tokyo nell’autunno 1949, pochi mesi prima della visita ufficiale
di John Foster Dulles, divenuto nel frattempo Segretario di stato
Usa. Fu in quel mesi che tra una bottiglia di sakè, un whisky e
qualche cospicua bustarella si gettarono le fondamenta di un governo
conservatore e filoamericano, un governo che, giunto ai giorni
nostri, non si preoccupa di mentire spudoratamente al popolo
giapponese, ad esempio per quanto riguarda la presenza di ordigni
nucleari all’interno delle basi militari Usa.
Nel corso della sua
visita ufficiale a Tokyo, 11 14 giugno 1948 Foster Dulles venne
presentato a 5 personaggi che in seguito sarebbero divenuti molto
importanti. L’incontro avvenne in un ristorante esclusivo di Tokyo,
a pochi metri dall’Ambasciata Usa, e fu organizzato da Kern e
Pakenham, giornalisti di “Newsweek” e abilissimi intrallazzatori
(Kern, in particolare, lo ritroveremo qualche anno più tardi sul
libro paga della Cia quale assistente di Frank Wisner, nel colpo di
Stato guatemalteco del 1961 e come «consulente» in occasione della
spedizione alla Baia dei Porci di Cuba).
I cinque «samurai, che
ottennero quella sera via libera da Foster Dulles, erano Yoshio
Kodama. Tetsuo Nakagawa (futuro rappresentante del Giappone all'Onu),
il capo della polizia Fujita, un alto funzionario del ministero delle
Finanze, Takeshi Watanabe (divenuto in seguito direttore
dell’International monetary Fund, vice presidente della Banca
Mondiale e presidente della Banca per lo Sviluppo Asiatico) e “un
uomo politico di grandi speranze per il Paese” (le virgolette sono
dello stesso Kern in una lettera che spedì un paio di settimane
prima dell'incontro al senatore Dulles), Nobusuke Kishi, sospetto
criminale guerra ma amico personale di Kern e di varie multinazionali
americane (tra cui la Exxon e la Standard Oli) che lo stesso Kern —
quando non scriveva articoli per “Newsweek” — rappresentava,
con tanto di lettere d’incarico in territorio giapponese. (Si può
a questo punto ricordare che nel 1977 la Exxon è stata condannata
dalla Securities and Exchange Commission degli Stati Uniti per aver
distribuito oltre 56 milioni di dollari a varie personalità
dell’Acj, tra le quali lo stesso Kern).
Le profezie di
«Newsweek»
L’appoggio degli Usa e
delle multinazionali spianò la strada del successo politico a Kishi,
cui si deve la nascita della hoshu honryu (corrente moderata)
all’Interno del partito liberaldemocratico, guidato a quel tempi da
Shlgeru Yoshida, una sorta di De Gasperi con gli occhi a mandorla.
Nel 1954, appena cinque anni dopo essere stato rilasciato dal carcere
di Sugamo, Kishi venne eletto segretario generale del partito
liberaldemocratico, mentre “Newsweek” (contro il parere di tutta
la stampa giapponese) lo indicava come il successore più probabile
di Yoshida alla carica di Primo Ministro (cfr. “Newsweek” del 12
febbraio 1955, in un editoriale non firmato...). Kern & soci
avevano naturalmente ragione, perché nel 1957 Kishi divenne davvero
primo ministro, inaugurando un periodo (5 anni) di autentica
restaurazione.
Fu Kishi infatti a
permettere la ricostituzione degli zaibatsu (Mitsubishi e
Mitsui), la rinascita del militarismo (con la fondazione delle
cosiddette «Forze di Autodifesa Nazionale», tutt’ora esistenti,
nonostante siano palesemente incostituzionali) e, nonostante la
fortissima opposizione popolare, la firma dei trattato di sicurezza
con gli Usa noto sotto il nome di Ampo, La ratifica avvenne in un
Parlamento semideserto con i deputati socialisti e comunisti
sequestrati dalla polizia, in una stanza attigua a quella delle
votazioni, per evitare il già annunciato ostruzionismo.
La firma del trattato
costò a Kishi il governo, ma nel frattempo erano state lanciate le
premesse della Giappone Spa: sistema pseudo-parlamentare con i
partiti dell’opposizione ridotti a elemento folcloristico; un
partito di maggioranza unito — più che dalla presenza di
un’ideologia politica — dalla pioggia istituzionalizzata di
tangenti e bustarelle; corsa al riarmo per «tranquillizzare» gli
Usa (e gli intramontabili nostalgici in patria) e soprattutto una
politica economica data in appalto al moderni zaibatsu, che,
come è noto, non si sono certo lasciati scappare l’occasione.
La Nixon Connection
La caduta di Kishi —
accusato tra le altre cose di aver intascato tangenti dalla Mitsui &
Co., società alla quale era stata delegata la liquidazione del danni
di guerra all’Indonesia — non fu certo «traumatica». Si trattò,
ancora una volta di una «crisi pilotata», e il suo successore,
Hayato Ikeda, non fece che scaldare la poltrona al fratello di Kishi,
Eisaku Sato, amico personale di Richard Nixon (quando l’ex
presidente Usa era semplice legale della Standar Oil e della filiale
americana della Mitsui) e di Richard Allen, l’ex consigliere di
Reagan dimessosi lo scorso dicembre per aver intascato mille dollari
da una giornalista giapponese, ma che già negli anni ’70 —
durante la presidenza Nixon — coniugava i doveri d’ufficio della
Casa bianca con gli interessi di alcune «società» del Sol Levante
(Toyota, Nissan, Hitachi) di cui era legale rappresentante negli Usa.
Eisaku Sato — che la
storia ricorderà come il più mediocre dei primi ministri del
Giappone, in coppia con l'attuale premier Suzuki — si trovò ben
presto implicato in uno scandalo elettorale (insieme al suo
segretario personale, il futuro premier Kakuei Tanaka, esperto come
quant’altri mai nello scucire contributi al mondo industriale), ma
la questione fu messa a tacere dal vecchio Yoshida, che in
un’intervista dichiarò apertamente: «Se si dovesse rispettare
alla lettera la legge sul finanziamento del partiti la democrazia di
questo Paese si dissolverebbe nello spazio di una settimana...».
Sembra di ascoltare Aldo Moro che difende la Dc sulla Lockheed.
Sato resse fino al 1971,
quando fu costretto a dimettersi dal nuovo astro nascente: il suo ex
segretario Tanaka.
40.000 dollari a
deputato
Corre voce in Giappone
che la carica di primo ministro sia costata a Tanaka (o meglio al suo
finanziere privato, Kenji Osano, già condannato a due anni di
reclusione per l’affare Lockheed, proprietario di un centinaio di
alberghi alle Hawaii e arricchitosi In patria grazie al monopolio
delle forniture alle basi militari Usa) qualcosa come 15 milioni di
dollari, o se preferiamo 40 mila dollari a ciascun deputato del
partito che gli avesse garantito il voto. (La circostanza, denunciata
a più riprese dal quotidiano Asahi non è stata mai smentita dagli
interessati, ma è finita nel dimenticatoio dopo l'esplosione del ben
più grave scandalo Lockheed).
Dopo aver legato il suo
nome alla firma dello storico trattato di amicizia e cooperazione con
la Cina (1972). Tanaka fu costretto alle dimissioni, ancora una volta
a causa di una serie di operazioni finanziarie che ebbero come
protagonlste alcune società da lui controllate. Lo scandalo Lockheed
scoppiò un paio di anni dopo, nel 1976, ma a differenza ddi anni più
tardi, nel 1976, ma a differenza di quanto si è portati a credere
non si trattò certo di uno scoop giornalistico, né di una
disavventura del potente Tanaka, incappato in un solerte magistrato.
A distanza di qualche
anno è ormai provato che lo scandalo Lockheed fu interamente gestito
negli Usa (come appendice del Watergate), in particolare dalla
Securities Exchange Commission e dagli ambienti più influenti di
Wall Street. Tant’è vero che delle decine di personaggi politici
giapponesi chiaramente implicati (da Kishi a Sato, passando per
l’attuale segretario generale del partito, Susumu Nikaido) soltanto
Tanaka e i suoi fidi (il boss mafioso Kodama e il finanziere nero
Osano) sono stati ufficialmente incriminati, sia pure con la garanzia
di un processo stile Piazza Fontana.
La «caduta» di Tanaka —
che nonostante il processo e la sospensione della tessera di partito
continua ad essere il leader indiscusso della maggioranza — fece
sperare in un «repulisti» generale, soprattutto quando la carica di
primo ministro venne affidata a Takeo Miki prima e Masayoshi Ohlra
poi, con l’intervallo di Takeo Fukuda, erede politico di Kishi e
come lui esperto di «consulenze incrociate», leggi bustarelle.
I timidi tentativi di
riforma inaugurati da Miki e Ohira erano comunque destinati al
fallimento [...]
“il manifesto”, 21 e
23 luglio 1982
Nessun commento:
Posta un commento