Il testo che segue nasce
come recensione al celebre saggio di Emile Zola, Il romanzo
sperimentale, di cui nel 1980 le
edizioni Pratiche di Parma pubblicarono una nuova traduzione
(Ida Zaffagnini) con l'introduzione di Ennio Scolari. (S.L.L.)
Zola nel suo studio |
Il naturalismo oggi non
gode certo di buona stampa, sia in letteratura che nelle arti, ma ciò
che dobbiamo condannare è un concetto di esso ormai scaduto a luogo
comune a facile e diffusa credenza accettata da molti come soluzione
di comodo, affatto priva di rischi e di tensioni. Altra cosa era il
naturalismo ai suoi tempi buoni, quando Zola se ne faceva una
bandiera di combattimento. Allora si trattava di una temeraria e
spregiudicata ipotesi di lavoro dal taglio decisamente
avanguardistico. Anzi, la storia delle avanguardie registrò proprio
attorno a quell’«ismo» uno dei suoi primi e più vivaci episodi.
Non importa che, quasi un secolo dopo (i saggi del «romanzo
sperimentale» furono raccolti nel 1879) se ne debbano rilevare gli
evidenti limiti storici. Senza dubbio nessuna ipotesi di lavoro può
reggere per tanto tempo, ma certo, quando sia stata vissuta con tanta
intensità e dedizione, le va reso per lo meno l’onore delle armi,
e comunque c’è sempre qualcosa da imparare da chi l’ha
sviluppata fino in fondo.
Il lato coraggioso e
oltranzista del «romanzo sperimentale» zoliano stava nel sostenere
la fusione con la scienza più avanzata dell’epoca (e infatti la
formula stessa veniva ricalcata dall'Introduzione alla medicina
sperimentale di Claude Bernard, si vedano in proposito le acute
precisazioni di Ennio Scolari). Questo contro i vari idealismi di
specie romantica che miravano (e mutatis mutandis mirano
tuttora) a fare della letteratura il regno dell’«altro», del «non
so che», dell’anima: di ciò che resiste alla storia, alla
coerenza metodologica, all’impostazione rigorosa. Anche oggi, del
resto, un tratto distintivo tra chi si situa in uriarea di
neoavanguardia o di sperimentalismo e chi sta dall’altra parte, si
riconosce proprio dal fatto di voler seguire un progetto oppure no:
di scrivere enunciando ipotesi, o invece gettandole via come
tentazioni inopportune.
Fisica e romanzo
Il limite storico
dell’impresa zoliana, quindi, non consiste nell’accettare di
lavorare con ipotesi scientifiche e sperimentali, di voler adottare
un abito mentale «alla pari» con quello degli scienziati. Fu
piuttosto nel credere che ci fosse un’unica metodologia per tutte
le scienze, fondata sul primato della fisica e della chimica, con il
conseguente proposito di ridurre ad esse gli ambiti più complessi
delle scienze umane e sociali (la psicologia, i comportamenti di
massa), secondo la pretesa tanto ingenua quanto ferrea e dogmatica di
scomporre le difficili equazioni della nostra condotta nella
semplicità di pochi elementi di fondo. E siccome la scomposizione
risultava ardua, lo scrittore naturalista era costretto a chiosarla
con tutta una serie di espressioni di scusa verso i lettori: abbiate
pazienza, le scienze sodali sono giovani, poi si vedrà, oggi no, ma
domani ce la faremo. È la tipica scommessa sul futuro che anche in
altre occasioni abbiamo visto venir adottata dal riduzionista
incallito, nel tentativo di giustificare gli scacchi dell’ora
presente. Ai nostri giorni, per esempio, ci sono passati
abbondantemente i semiologi, quando tentavano di spiegar tutto a
partire dai segni della linguistica.
E sempre contro questo
scientismo univoco e riduttivo risulta inevitabile un «ritorno del
rimosso»: l’idealismo, cacciato dalla porta, rientra dalla
finestra. Pochi anni dopo la pubblicazione del «roman
experimental», in Francia e in tutto il mondo scatta l’epoca
simbolista, che vuol essere appunto una confusa e ingolfata rivalsa
dei valori complessi sacrificati al primato delle scienze naturali.
Zola, in questi suoi articoli, riesce ancora a lodare il giovane
allievo Huysmans, ma se avesse tardato a raccoglierli fino all’uscita
di «À rebours» (nell’86), avrebbe dovuto denunciarlo come un
traditore passato al nemico.
Poi venne Freud
Eppure, anche così, non
è l’idealismo che vince, o meglio, questo conferma di essere il
sottoprodotto, l’effetto distorto di una errata impostazione
scientifica. La risposta e la soluzione ai fallimenti di Claude
Bernard e di Zola, sulla via del loro sperimentalismo riduttivo, non
la danno Maeterlinck o D’Annunzio o Wilde, bensì Freud, Bergson,
Pirandello, Proust, che senza rinunciare al postulato delia
scientificità e del rigore, capiscono tuttavia che bisogna adottare
equazioni a più incognite, pluridimensionali, in luogo
dell’appiattimento unilineare caro ai loro predecessori. Eppure
l'abito mentale resta più o meno lo stesso, e non mancano le
simpatie verso i padri, rei soltanto di un eccesso di ardore
semplificante.
Del resto, tra i
narratori naturalisti come Zola e quelli dell’analisi
pluridimensionale del vissuto come Pirandello, Svevo, Musil, su su
fino a Joyce, c’è un’altra fede comune, derivante dal loro
stesso atteggiamento scientifico: la fede che il romanzo moderno sia
più che altro una questione di analisi (univoca o plurivoca, poco
importa), di studio dei caratteri e degli ambienti. Delle sei parti
canoniche in cui Aristotele suddivideva un poema-tipo, essi esaltano
la seconda in ordine di importanza, l’«ethos», mentre
disprezzano la prima, il «mythos», la trama, l’intreccio, o ne
predicano un uso limitato, appena quanto basta per piazzare il punto
di vista sullo spessore «etico».
Zola giunge a deprecare
che non si trovi una parola sostitutiva a quella di «romanzo», che
autorizza di per sé le più pazze evasioni romanzesche. E le sue
lodi vanno a Balzac e a Stendhal, grandi artefici della svolta per
cui la narrativa cessa di essere un fatto di immaginazione, mentre
affonda nel documento e nella descrizione: parola-chiave,
quest’ultima, che fra l’altro consente a Zola di condannare le
frivolezze del teatro degli Scribe, Angier, Dumas, intessuto di
«errori» e di peripezie, ma povero appunto di contenuto conoscitivo
e ambientale. Egli giunge a pronosticare la fine del teatro, se non
riuscirà ad agganciare l’esigenza moderna di dare il documento, la
«tranche de vie».
Sembra quasi che emerga
in lui l’intuizione profetica dell’avvento di un nuovo mezzo,
potentemente abilitato a offrire il vissuto, l’epidermide
dell’esistenza: il cinema.
Ma quello che Zola non
poteva prevedere, era che il cinema non si sarebbe limitato a
sconfiggere soltanto il teatro, bensì avrebbe intaccato il ruolo
stesso della narrativa. E non gli riuscì ugualmente di prevedere che
i corsi e i ricorsi della storia avrebbero portato teatro e romanzo a
effettuare un ritorno alle origini, appunto per scongiurare la
temibile concorrenza dei mezzi di riproduzione fotochimica e
elettronica (anche la televisione sarebbe ben presto entrata in
gioco). Origini che consistono in una riproposta dell’azione, del
«mythos». Rilancio della sintesi magari «fulminante», come
avrebbero detto i futuristi, contro l’analisi sperimentale, che non
fu, giova ancora ricordarlo, del solo Zola, ma anche di Proust e di
Joyce.
Tuttolibri "La Stampa", 3 maggio 1980
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