Per un intreccio di
motivazioni turistico-culturali, con il concorso di importanti
istituzioni sovranazionali, l'anno 1985 fu celebrato come anno degli
Etruschi. L'articolo che segue dà conto dei risultati di un convegno
fiorentino su un grande mistero relativo a quell'antico popolo, la
lingua allora e, in gran parte, ancora non decifrata. (S.L.L.)
Sono ormai lontani i
tempi in cui Alfredo Trombetti parlava, peraltro non senza grande
acume, di «etrusco-asianico» e «preindoeuropeo».
I glottologi convenuti a
Firenze tendono oggi a relegare quel 1928 nella preistoria degli
studi sulla lingua etrusca. E da allora molte cose sono
effettivamente cambiate, nell’estensione e precisione di una
documentazione archeologica liberata da ossessioni
storico-artistiche, della raccolta e classificazione delle
testimonianze epigrafiche, nello strumentario teorico delle
discipline linguistiche.
Le scritture che
cinquanta anni fa non avevano una precisa età, ricorda Helmut Rix,
sono oggi quasi tutte databili e permettono di indagare l’evoluzione
storica della lingua. Ma qualcosa, al fondo, dal 1928 a oggi è
rimasta simile: la lingua etrusca si capisce poco e si traduce ancor
meno. Inoltre, molto di quanto si pretende di sapere resta altamente
congetturale. Se questo non significa che le conoscenze sulla lingua
non sono infinitamente superiori a quelle degli anni '20, certo è
che gli specialisti generalmente rispondono alle domande del pubblico
con formulazioni ambigue e tortuose. Senza mai confessare
chiaramente, a chi dalla lettura dei testi si aspetta la trasmissione
diretta di contenuti narrativi e ideologici e del prodotto codificato
di antichi saperi, di poterli insomma leggere come un libro scritto
nella propria lingua, che a una simile lettura la conoscenza attuale
dell’etrusco non può arrivare, perché non si capisce abbastanza.
Senza contare il fatto che, nel patrimonio scritto giunto fino a noi,
in larga misura funerario, non sembra esserci granché da leggere.
Questo fatto e la caduta
di interesse per la «questione delle origini» ridimensionano molto
le aspettative di una volta sulla lingua etrusca, indicandone
nondimeno di nuove. Per esempio il fatto che la conoscenza della
macchina formale di una lingua, anche se non siamo in grado di
tradurla, può dirci molto della mentalità di un popolo, del suo
rapporto con il reale, dei suoi contatti con altri popoli, della sua
storia.
Cerchiamo in ogni modo di
tracciare, davvero in due parole, il quadro che il congresso di
Firenze ci offre dello studio della lingua etrusca oggi. Possiamo
distinguere in primo luogo tra un filone «ermeneutico», e cioè
interpretativo, e un filone, per così dire, «meccanico-strutturale».
Nel primo caso si tratta
di cogliere il significato generale di un testo, ricorrendo alla
conoscenza archeologica e storica che possediamo del suo contesto
culturale. Facciamo un esempio: se troviamo una scritta su una
statuetta votiva pur non capendola, possiamo supporre che si tratti
di una scritta dedicatoria. E se la confrontiamo con una scritta in
lingua conosciuta su una statuetta votiva analoga, prodotta in
ambiente culturale simile e magari rinvenuta in santuario dedicato
alla stessa divinità, abbiamo buone probabilità di avvicinarci al
significato della prima scritta e da questo al probabile significato
delle singole parole. Lo stesso meccanismo può funzionare in casi
più complessi di quell’immaginario che abbiamo descritto.
Si tratta del metodo
cosiddetto «bilinguistico», che fa capo a Massimo Pallottino e che,
come ha spiegato a Firenze Carlo De Simone, si fonda su un confronto
storico culturale e sul presupposto che lo stesso ambiente culturale,
anche con lingue diverse, esprime significati paralleli. De Simone
avverte comunque del pericolo: lingue diverse dicono magari la stessa
cosa, ma in modo diverso.
Il rapporto con la cosa
cambia, la filosofia del linguaggio avrebbe le sue serie obiezioni da
fare e l’etruscologo naviga nel probabilismo.
Il secondo metodo
privilegia l’interesse «morfologico», punta cioè sulla
conoscenza della «macchina della lingua» e delle sue regole di
funzionamento. Anche qui si mira indirettamente alla conoscenza di un
pensiero, ma questa volta tramite l’indagine delle regole formali
della sua espressione e del loro mutare nella storia. Se i rapporti
matematici, come le frequenze o le dislocazioni spaziotemporali,
promettono maggiore oggettività, trarne conseguenze interpretative
resta certamente arduo. Ma è sicuramente un buon test, come ha
indicato Helmut Rix, per mettere alla prova le pretese «decifrazioni»
della lingua etrusca che di tanto in tanto appaiono sulla scena.
È chiaro a questo punto
che solo dal concorso di metodi diversi si possono sperare risultati
meno parziali senza escludere neanche quel metodo etimologico,
prevalente all’inizio del secolo e oggi sospinto ai margini
dall’isolamento finora comprovato dell’etrusco da tutte le lingue
conosciute.
Del concorso di
metodologie diverse, del resto già Trombetti riconosceva
l’opportunità cinquanta anni fa. Ma salvaguardando l'«egemonia»
del suo sistema «etimologico». Cosa sia il «principale» e cosa il
«secondario», resta oggetto del contendere anche nel pluralismo mal
digerito che ancora caratterizza il suscettibile mondo degli studi
linguistici etruschi.
"il manifesto", 2 giugno 1985
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