26.12.17

Etrusco, la lingua contesa. A che punto era il “puzzle” nel 1985 (Marco Bascetta)

Per un intreccio di motivazioni turistico-culturali, con il concorso di importanti istituzioni sovranazionali, l'anno 1985 fu celebrato come anno degli Etruschi. L'articolo che segue dà conto dei risultati di un convegno fiorentino su un grande mistero relativo a quell'antico popolo, la lingua allora e, in gran parte, ancora non decifrata. (S.L.L.)

Sono ormai lontani i tempi in cui Alfredo Trombetti parlava, peraltro non senza grande acume, di «etrusco-asianico» e «preindoeuropeo».
I glottologi convenuti a Firenze tendono oggi a relegare quel 1928 nella preistoria degli studi sulla lingua etrusca. E da allora molte cose sono effettivamente cambiate, nell’estensione e precisione di una documentazione archeologica liberata da ossessioni storico-artistiche, della raccolta e classificazione delle testimonianze epigrafiche, nello strumentario teorico delle discipline linguistiche.
Le scritture che cinquanta anni fa non avevano una precisa età, ricorda Helmut Rix, sono oggi quasi tutte databili e permettono di indagare l’evoluzione storica della lingua. Ma qualcosa, al fondo, dal 1928 a oggi è rimasta simile: la lingua etrusca si capisce poco e si traduce ancor meno. Inoltre, molto di quanto si pretende di sapere resta altamente congetturale. Se questo non significa che le conoscenze sulla lingua non sono infinitamente superiori a quelle degli anni '20, certo è che gli specialisti generalmente rispondono alle domande del pubblico con formulazioni ambigue e tortuose. Senza mai confessare chiaramente, a chi dalla lettura dei testi si aspetta la trasmissione diretta di contenuti narrativi e ideologici e del prodotto codificato di antichi saperi, di poterli insomma leggere come un libro scritto nella propria lingua, che a una simile lettura la conoscenza attuale dell’etrusco non può arrivare, perché non si capisce abbastanza. Senza contare il fatto che, nel patrimonio scritto giunto fino a noi, in larga misura funerario, non sembra esserci granché da leggere.
Questo fatto e la caduta di interesse per la «questione delle origini» ridimensionano molto le aspettative di una volta sulla lingua etrusca, indicandone nondimeno di nuove. Per esempio il fatto che la conoscenza della macchina formale di una lingua, anche se non siamo in grado di tradurla, può dirci molto della mentalità di un popolo, del suo rapporto con il reale, dei suoi contatti con altri popoli, della sua storia.
Cerchiamo in ogni modo di tracciare, davvero in due parole, il quadro che il congresso di Firenze ci offre dello studio della lingua etrusca oggi. Possiamo distinguere in primo luogo tra un filone «ermeneutico», e cioè interpretativo, e un filone, per così dire, «meccanico-strutturale».
Nel primo caso si tratta di cogliere il significato generale di un testo, ricorrendo alla conoscenza archeologica e storica che possediamo del suo contesto culturale. Facciamo un esempio: se troviamo una scritta su una statuetta votiva pur non capendola, possiamo supporre che si tratti di una scritta dedicatoria. E se la confrontiamo con una scritta in lingua conosciuta su una statuetta votiva analoga, prodotta in ambiente culturale simile e magari rinvenuta in santuario dedicato alla stessa divinità, abbiamo buone probabilità di avvicinarci al significato della prima scritta e da questo al probabile significato delle singole parole. Lo stesso meccanismo può funzionare in casi più complessi di quell’immaginario che abbiamo descritto.
Si tratta del metodo cosiddetto «bilinguistico», che fa capo a Massimo Pallottino e che, come ha spiegato a Firenze Carlo De Simone, si fonda su un confronto storico culturale e sul presupposto che lo stesso ambiente culturale, anche con lingue diverse, esprime significati paralleli. De Simone avverte comunque del pericolo: lingue diverse dicono magari la stessa cosa, ma in modo diverso.
Il rapporto con la cosa cambia, la filosofia del linguaggio avrebbe le sue serie obiezioni da fare e l’etruscologo naviga nel probabilismo.
Il secondo metodo privilegia l’interesse «morfologico», punta cioè sulla conoscenza della «macchina della lingua» e delle sue regole di funzionamento. Anche qui si mira indirettamente alla conoscenza di un pensiero, ma questa volta tramite l’indagine delle regole formali della sua espressione e del loro mutare nella storia. Se i rapporti matematici, come le frequenze o le dislocazioni spaziotemporali, promettono maggiore oggettività, trarne conseguenze interpretative resta certamente arduo. Ma è sicuramente un buon test, come ha indicato Helmut Rix, per mettere alla prova le pretese «decifrazioni» della lingua etrusca che di tanto in tanto appaiono sulla scena.
È chiaro a questo punto che solo dal concorso di metodi diversi si possono sperare risultati meno parziali senza escludere neanche quel metodo etimologico, prevalente all’inizio del secolo e oggi sospinto ai margini dall’isolamento finora comprovato dell’etrusco da tutte le lingue conosciute.
Del concorso di metodologie diverse, del resto già Trombetti riconosceva l’opportunità cinquanta anni fa. Ma salvaguardando l'«egemonia» del suo sistema «etimologico». Cosa sia il «principale» e cosa il «secondario», resta oggetto del contendere anche nel pluralismo mal digerito che ancora caratterizza il suscettibile mondo degli studi linguistici etruschi.

"il manifesto", 2 giugno 1985

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