Tre modelli ispirati alla città di Palermo da una sfilata palermitana di Dolce e Gabbana (Piazza Pretoria, Estata 2017) |
«Nessuno resta
invenduto, i miei due boss tornano a Milano a mani vuote. Di vestiti
si intende», ammicca un’amica che da qualche tempo lavora ai
vertici del reparto vendite di Dolce&Gabbana, facendosi
promettere l’anonimato dietro solenne giuramento perché “i due
boss”, come noto, sono fumantini, e nell’ambiente si rincorrono
storie di teste saltate per molto meno. La conversazione di cui state
leggendo si tiene a Roma, nel nuovo atelier di Antonio Grimaldi a
Palazzo Besso, pochi giorni prima del lungo week end di luglio in cui
Domenico Dolce e Stefano Gabbana metteranno in scena a Palermo la
loro collezione autunno-inverno 2017-2018 di “Alta Artigianalità”
secondo un modello turistico-mondano del tutto autonomo e che nulla
ha a che vedere con i riti della haute couture di Parigi o con
quelli, ormai stravolti e del tutto disattesi da stampa e clienti, di
Altaroma.
Grazie alla Cina delle
fashion victim, alla Corea del Sud, a qualche brasiliana
disattenta alle sorti del proprio Paese a meno che il suo destino sia
legato a una cena di beneficenza cui presenziare in abito nuovo, agli
Emirati che però vogliono farsi servire chez eux, nel
vestiaire di casa, a una certa Russia dalla partecipazione
chiassosa alle politiche di Putin, al Kazakisthan dalla ricchezza
meno esibita ma non per questo di minore rilevanza e naturalmente
alle americane del nord, la haute couture sta conoscendo un
recupero spettacolare, soprattutto rispetto a un decennio fa, quando
sembrava giustificata solo come leva di comunicazione e marketing. Il
cambio di rotta è evidente dalla copertura mediatica più
controllata o, come nel caso di Dolce&Gabbana, sostanzialmente
autogestita via social. Il motivo è che mostrare abiti unici,
irriproducibili, dal costo variabile da dieci a
trecento–quattrocentomila euro, è diventata una scelta dello
stilista e della maison, legata a logiche personali o anche
strategiche, ma del tutto innecessarie. Per vendere bene un marchio,
ormai, bastano le sfilate del pret-à-porter, le feste dei lanci di
profumo, le sponsorizzazioni delle mostre e delle grandi kermesse
cinematografiche.
La haute couture,
che serve poco più di cinquemila persone nel mondo, contese da nomi
quasi ovvi come Valentino, Armani, Dior, Chanel, Fendi, Valli, ma
anche non immediati come Tom Ford o Kiton, vive di regole proprie,
dove chi acquista non ha bisogno di farlo sapere in giro e il sarto
ritiene proprio dovere accontentarlo. Attorno a questi abiti lavorano
per migliaia di ore tessutai, sarti, tagliatori, ricamatori,
venditori, i pr dei trattamenti speciali di cui sopra, ogni minuto
del loro lavoro viene pagato a peso d’oro, contribuendo dunque al
mantenimento di un alto artigianato e di un saper fare che vorremmo
tenerci in Italia finché possibile e anzi, se possibile, sviluppare.
Nel Terzo Millennio risulta sempre piuttosto difficile spiegare per
quale motivo esistano tuttora donne che vestono secondo gli stessi
criteri di Elisabetta I e una sartorialità che si esprime
esattamente lungo gli stessi canoni, e con gli stessi prezzi, di un
abito di corte dei Borbone di Spagna. Un secolo e mezzo di moda
pronta, e il progressivo declino della nozione di sarta, sembrano
infatti aver cancellato dalla memoria collettiva l’evidenza che un
ricamo a mano o un intaglio su pelliccia richiede mille o anche
duemila ore di lavoro oggi come ai tempi in cui la Serenissima
valutava che il costo per vestire adeguatamente una dama fosse
equiparabile a quello per armare una nave.
Esiste invece un universo
parallelo che viaggia in direzione contraria a quello in cui i
vestiti costano nove euro e vengono cuciti in catapecchie del
Bangladesh da bambine di dieci anni; un mondo in cui non è il
cliente a varcare la soglia di un atelier, per non dire di una
boutique, ma è lo stilista stesso, o i suoi più diretti
collaboratori, che salgono su un aereo e attraversano il Mediterraneo
per prendere le misure della cliente, talvolta restando fuori dalla
porta durante le prove se, come nel caso delle principesse saudite,
accettano di parlare ma non di farsi toccare da un uomo. Non pensate
a stilisti di seconda fascia, giovani o sconosciuti, ma a Donatella
Versace, Giambattista Valli, Elie Saab: qualunque designer si è
recato più volte in India, in Qatar o in Cina ad apportare gli
ultimi ritocchi a un abito da sposa e al corteo nuziale, oggi come
nel 1955 quando le sorelle Fontana portarono tutte insieme,
personalmente, l’abito di Maria Pia di Savoia che sposava
Alessandro di Grecia a Cascais, e nei cinegiornali dell’epoca le
vedete sorridenti e felici mentre salgono la scaletta dell’aereo
all’aeroporto di Ciampino. Nessuno oserebbe chiedere tanto a
Giorgio Armani, che pur ricevendo in t–shirt e sneakers i propri
ospiti ha assunto lo status di monumento nazionale, ma all’ultima
sfilata della collezione Privé, a Parigi, non erano poche le
vendeuse incaricate di accogliere, ospitare e intrattenere le grandi
clienti internazionali con lo sfarzo a cui sono abituate e a cui i
loro bonifici annuali danno titolo.
L’amica che lavora da
Dolce&Gabbana racconta di clienti ospitate e vezzeggiate con la
famiglia al seguito per tre giorni, di cinesi che arrivano vestite
come vedove dei Quattro Canti, in total look dell’ospite convinte
di rendergli così onore, di russe aggressive, di sudamericane
fermamente decise a divertirsi, e in generale di una battaglia per la
conquista del modello agognato a colpi di Whatsupp che, sebbene
divertente e ben coreografata, è in buona parte fittizia. Buona
parte di quegli abiti da trenta, quaranta o centomila euro è,
infatti, per così dire preassegnata.
«Alcuni fra questi
vestiti sono addirittura disegnati pensando a una certa cliente, ai
suoi gusti e alle occasioni in cui potrebbe indossarlo», dice: «In
ogni caso, tutti possono essere modificati e adattati in poche ore. È
la forza delle nostre collezioni».
La mattina dopo la
sfilata, e non di rado la notte stessa, mentre gli altri ospiti sono
al ricevimento, le trecento clienti-ospiti del brand provano l’abito,
lo affidano alle sarte per gli eventuali aggiustamenti e, se
l’intervento non è particolarmente complesso, lo fanno caricare
direttamente sul loro aereo per portarlo a casa. Poche o zero prove,
tutto e subito. Il bauscia collettivo non ha tempo, non ha confini,
non ha religione, e adesso inizia ad avere anche una moda fatta su
misura non solo del proprio modo di essere, ma anche di sentire. Non
è un caso che gli abilissimi Dolce&Gabbana abbiano scalato i
vertici di un mestiere e di un mercato così ristretti e così
difficili in soli cinque anni. Vi hanno apportato nuove regole, le
loro, riuscendo però a rispettarne i codici e in fondamentali:
esclusività totale, riservatezza assoluta, cura del rapporto
personale. Se un giorno decideste di leggere le memorie di Marie
Jeanne Rose Bertin, modista della regina Maria Antonietta, non vi
trovereste nulla di diverso, e così nelle autobiografie di Charles
Frederick Worth, di Paul Poiret e di Hardy Amies, quest’ultimo un
sarto da uomo ben conscio delle fisime dei signori.
«Ci è capitato di
rifare un corpetto perché il ricamo di una foglia non era
esattamente nel punto che la cliente si aspettava, o credeva di
aspettarsi», sorridono dalla grande famiglia Balestra, che fra le
proprie clienti annovera la famiglia reale della Thailandia: «Ma il
maestro (Renato naturalmente, nda) non vuole scontentare nessuno».
La soddisfazione del
cliente nella haute couture riveste caratteri quasi sacrali, e
non potrebbe essere altrimenti: nessuna di queste signore è abituata
a sentirsi dire di no. Le venditrici addette alle clienti della
couture, ma anche le stesse première che sovrintendono alla fattura
dell’abito, mantengono con loro un rapporto di confidenza, se non
di amicizia: dopo l’ultima sfilata di Valentino, a Parigi, ne ho
vista più d’una precipitarsi nel backstage ad abbracciare il
geniale direttore creativo Pierpaolo Piccioli e le sarte con il
camice bianco e gli spilli appuntati sul bavero. È un mondo intimo,
regolato quasi più sulla fiducia che sul denaro.
Al ricevimento di
accoglienza dell’ultima sfilata haute fourrure di Fendi, gli stessi
abiti che erano parsi meravigliosi sei mesi prima su Bella Hadid o
Kendall Jenner erano ugualmente gradevoli su certe minutissime cinesi
che circolavano sorridenti sorseggiando champagne nel foyer del
Théatre des Champs Elysées. Magia sartoriale, appunto, ed
espressione di disponibilità non solo economica. «Per un nostro
cliente russo, che festeggiava il compleanno con una grande festa
estesa in più momenti e voleva presentarsi ogni volta con uno
smoking diverso, di recente si è trasferito per due giorni un
piccolo team, comprensivo di sarta si intende», racconta Laura
Clerici, operations manager di Tom Ford. Sono investimenti che
si ripagano, talvolta immediatamente e in maniera inaspettata: oltre
agli amici dell’imprenditore ha voluto uno smoking su misura anche
la moglie.
All’ultimo piano del
palazzo di Brera che un tempo ospitava la maison Ferré, acquistato e
ristrutturato con molta amabilità dalla famiglia Paone, fondatrice
di Kiton, stanno per essere ultimate quattro piccole e sontuose
penthouse. Ma i “i grandi buyer” di passaggio a Milano, i
compratori di professione, su quei parquet non poseranno mai i piedi:
sono destinate ai clienti privati, uomini che ogni anno staccano a
Kiton assegni da un milione di euro. Eppure parlare di “mercato”
nella haute couture è del tutto privo di senso. Si tratta di un
investimento che le griffe fanno per mantenere lo spirito delle
proprie origini, come nel caso di Chanel, Schiaparelli e Dior, oppure
per approcciare una clientela che vuole solo unicità; talvolta per
elevare il proprio status, come Dolce&Gabbana. Sono, per molti,
iniziative in folle perdita. Per alcuni, da qualche anno e grazie ai
ricchissimi asiatici, in attivo.
Pagina 99, 25 agosto 2017
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