È passato oltre mezzo
secolo, ma di avventure intellettuali come i «Quaderni Piacentini»
sappiamo dir poco, se non che proviamo una struggente nostalgia per
quella stagione, quando era ancora possibile un’estrema bohème di
qualche piccolo gruppo di intellettuali borghesi che non voleva
omologarsi con la volgarità senza stile del consumismo di massa e,
quindi, trasformava il proprio “provincialismo” in una sorta di
privilegio assai snob e molto intelligente, che, appunto, rifiutava
la moda e le mode, riscoprendo la severa grandezza della cultura nel
tramonto di una civiltà che l’aveva travolta e rasa al suolo,
lasciandone intatta la memoria.
L’avventura della
rivista e dei suoi promotori è diligentemente ricostruita da Giacomo
Pontremoli, anche riassumendo con ampie citazioni i contributi più
significativi apparsi tra il 1962 e il 1980 in 55 fascicoli
corrispondenti a 74 numeri più un bis, anche se neppure prova a
darne un’interpretazione che aiuti a capire perché per un verso la
rivista finì quasi sempre a trovarsi «dalla parte del torto»,
persino con qualche compiacimento dei suoi redattori, e per l'altro
conquistò un pubblico di lettori sempre più largo, cosicché la sua
stessa fine a molti apparve sorprendente e imprevista. Eppure sui
«Quaderni» - Piacentini, ma anche Rossi, dopo poco, a Torino - e su
quanto accadde fino al ’68 e oltre dovremo, in prossimità del
cinquantenario, tentare una ricostruzione meno superficiale e
sentimentale, perché nella rivista si espressero le ragioni di ogni
resistenza alla modernizzazione e all’industrializzazione del
Paese, tutte, si direbbe, di sinistra, nel senso che crescevano, a
cominciare dall’amata Scuola di Francoforte, dentro la tradizione
marxista e, se si vuole, rivoluzionaria del socialismo.
Colpisce, infatti, la
lontananza che separa i «Piacentini» dal «Menabò» di Vittorini,
che ha radici non solo ideologiche - Francoforte lo si ritrova da una
parte e dall’altra -, ma soprattutto “morali”, se si pensa a
quanto è viva nella prosa di Piergiorgio Bellocchio la lezione
dell’azionismo e di Gobetti, ed è, invece, distante quell’altra,
che da Croce arriva a Pannunzio e al suo «Mondo».
Il gruppo dei
«Piacentini» sembra fatto dai figli inquieti del più inquieto
Fortini, che riconoscono negli scontri di piazza i segnali della
ribellione al consumismo, ma rifiutano di confondersi con la folla,
restando ai margini a guardare, curiosi e distanti, critici anche nei
confronti degli stessi “compagni di strada”, in ogni caso
avversari del moderno e del nuovo e quindi tormentati da uno
struggente bisogno di radicate certezze, di valori resistenti, di
un’educazione che duri. Il ’68 sorprenderà il gruppo dei
«Piacentini» come molti altri suoi simili, perché avvicinerà la
prospettiva di un’imprevedibile vittoria, costringendo ognuno a una
scelta drammatica e dolorosa tra un altro nuovo che si prospetta
liberatore e una fede tenace che scricchiola in tanto trambusto: che
fare, dunque, sperare o abbandonare la lotta per tornare a guardare?
Nella lotta finirono i
Sofri e i Rieser, persino un po’ Fofi, che se ne andrà dalla
rivista nel ’75, Bellocchio e Grazia Cherchi, invece, deposero la
penna per pubblicare gli interventi degli altri, fino all’ultimo
incerti, persino loro che con sicurezza avevano sempre distinto i
libri da leggere e quelli da non leggere: poi venne il terrorismo, le
brigate rosse e tutto il resto, e allora tornare a casa divenne
urgente, l’unico modo per non sparire nella folla e continuare in
solitudine a pensare a quel che era stato è ancora avveniva. Dai
«Quaderni» nacque il «Diario» dove a dire la loro erano soli
Berardinelli e Bellocchio, sempre più convinti di aver visto giusto
e di aver perso definitivamente la partita: dalla parte del torto non
c’è vittoria che tenga, ma anche a perdere bisogna aver stile,
essere bravi a farlo con eleganza, senza strepiti o piagnistei. Così
accadde, ed è per questo che da quelle pagine emana ancora un
fascino suadente e maligno che frastorna chi col moderno non in vuole
a ogni costo compromettersi e ancor di più chi invece ogni giorno ci
prova.
"Il sole 24 Ore", Domenica 30 luglio 2017
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