L’autore dell'articolo
che segue è professore associato e direttore di Master al
Dipartimento di Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. La sua lettura delle trasformazioni in atto nello sport più popolare mi pare
molto convincente. (S.L.L.)
In una recente, lunga e
bella intervista, Bruno Pizzul, uno che ne capisce di calcio (e anche
di televisione), ha rievocato con qualche nostalgia i bei tempi
andati in cui per raccontare le partite «si utilizzavano due
telecamere, i calciatori erano delle formichine, però lo spettatore
aveva una visione d’insieme, poteva capire la tattica, i movimenti
senza palla».
Tutto vero, tutto giusto.
Se si vuole trovare un esempio sublime di quello stile, basta cercare
la telecronaca di una partita dei mondiali del ’66. Erano i
mondiali d’Inghilterra e li ricordiamo sempre per due cose:
l’umiliante sconfitta azzurra contro la Corea del Nord e il
goal-non goal che decise la finale in favore dei padroni di casa. Ma
ci fu molto di più; ci fu l’impegno della Bbc che realizzò delle
meravigliose dirette. Due telecamere o poche di più, niente replay,
rispetto assoluto dei tempi del gioco, compresi i tempi morti; eppure
ancor oggi emanano un fascino incredibile quelle immagini in bianco e
nero.
Un gioco da vendere
Tutto questo andava bene
fino a quando il discorso televisivo si ispirò alla famosa idea
della finestra aperta sul mondo, cioè, per usare la semiologia, fino
a quando nel suo linguaggio prevalse un atteggiamento referenziale.
Quello che contava era ciò che avveniva sul campo, alle telecamere
toccava il compito di documentarlo fedelmente. Lo spettacolo lo
facevano i calciatori e se era scadente dal vivo era giusto che lo
fosse anche nella sua riproducibilità tecnica. Ma una logica di
questo tipo poteva affermarsi in una televisione concepita come
servizio, come una possibilità offerta un po’ paternalisticamente
al cittadino di “televedere”, di “vedere da lontano” ciò che
non avrebbe mai potuto vedere dal vivo.
Poi in qualche anno
cambiò tutto: le partite di calcio non erano più avvenimenti da
raccontare ma spettacoli da vendere. Prima ai pubblicitari,
nell’epoca del trionfo delle reti commerciali, poi direttamente ai
telespettatori con l’avvento delle pay tv. D’altronde Borges e
Bioy Casares avevano già intuito qualcosa in un racconto fantastico
del 1967 – Esse est percipi –, dove il protagonista,
Bustos Domecq, colpito dalla scomparsa dello stadio del River, grazie
a un’inchiesta, viene a scoprire che «non esiste punteggio, né
formazione, né partita; gli stadi cadono tutti a pezzi; l’ultima
partita si è giocata il 24 giugno del 1937: da quella data il calcio
è un genere drammatico orchestrato da un uomo solo in studio o
interpretato da attori in divisa da gioco davanti a un cameraman».
Copertura totale
Forse non è andata
proprio così, ma è certo che quella che da qualche anno ci
raccontano le telecronache delle partite è tutta un’altra storia.
Diversa dal passato, diversa da quella che si può vivere dal vivo.
Per semplicità diciamo che le forme di questa radicale
trasformazione si manifestano su tre piani diversi. Il primo è
quello del valore, dell’importanza della storia raccontata. Nel
passato la diretta di una partita era una scelta eccezionale che
riguardava solo le competizioni più prestigiose, le occasioni
davvero importanti. C’era un’implicita coincidenza tra il rilievo
dell’avvenimento e la presenza delle telecamere. Solo di fronte a
una proposta di sicuro valore la tv sceglieva di darle spazio nel
palinsesto e la presenza della tv dava valore e significato a
quell’avvenimento. Oggi, come è facile osservare, la copertura del
calcio è totale: campionati, coppe nazionali e internazionali,
europei e mondiali, tornei amichevoli e gare di preparazione. Ma la
netta, evidente differenza tra questi avvenimenti non sembra
manifestarsi nella riproduzione televisiva. In tv le partite sono
sempre tutte importanti, decisive, emozionanti. La storia che si
racconta è sempre una storia che vale il prezzo del biglietto.
Questo è ciò che dicono i telecronisti, questo ciò che le
immagini, le scelte di regia costruiscono. Ed è proprio su questo
piano del racconto per immagini che si sono manifestate le
trasformazioni più profonde.
Il tempo dilatato
Una coinvolge il tempo
della storia. «Partiti» esclamava Nicolò Carosio quando era il
telecronista del calcio monopolizzato dalla Rai per celebrare il
calcio d’inizio di ogni partita. E quella formula magica segnava
l’apertura di un tempo speciale, i 90 minuti in cui tutto accadeva
e tutto era concentrato. Era un tempo unico, compatto, lineare che
non consentiva iterazioni né sconfinamenti. Oggi quel tempo è
disarticolato, dilatato, diffuso. La linearità è continuamente
scardinata dalla serie dei replay, che mostrano cinque, sei volte la
stessa azione da punti di vista diversi. Questo consente – dicono i
telecronisti – sia di ricostruire con esattezza le dinamiche e le
eventuali irregolarità (la VAR non è altro che
l’istituzionalizzazione di questa funzione), sia di apprezzare
meglio la bellezza del gesto atletico e tecnico. Ma si tace di quella
componente narcisistica della tv che nel momento in cui ripropone un
po’ pleonasticamente la stessa azione celebra soprattutto sé
stessa, la propria capacità di offrire punti di vista inusitati. E
poi c’è la dilatazione temporale. La partita inizia assai prima
del calcio d’inizio, con l’arrivo del pullman dei calciatori, con
la presenza delle telecamere negli spogliatoi e prosegue ben oltre il
novantesimo con le interviste dei calciatori e il rito delle
dichiarazioni dell’allenatore.
Lo spazio
ricostruito
A questa destrutturazione
del tempo corrisponde un’altrettanto marcata scomposizione dello
spazio. La ricostruzione dello spazio del gioco – il famoso
rettangolo – e dei suoi fondamentali contorni, le panchine, le
tribune, gli spalti, avviene non tanto con inquadrature totali , ma
sempre più attraverso un montaggio di campi e piani ridotti. Campi
sempre più ravvicinati, dettagli e particolari, primi piani degli
atleti, dei tecnici e ultimamente degli spettatori, specie se bambini
o belle ragazze, sguardi in macchina dei calciatori più attenti alla
loro immagine sono gli elementi che caratterizzano lo stile del
racconto della partita di calcio. Ovviamente la parcellizzazione
dello spazio coinvolge anche i telecronisti: oltre al
cronista-narratore non c’è solo la seconda voce che chiosa la
cronaca con i suoi commenti tecnico-tattici, ci sono anche il
“bordocampista” che segue i movimenti delle panchine e un addetto
alle interviste pronto a carpire al volo le parole dei giocatori al
fischio finale. Così quello che è stato per molto tempo un racconto
molto personale, alla Martellini, alla Pizzul, alla Piccinini, si
trasforma in un racconto corale.
Particolari
equivoci
Nel 1990, in occasione
dei mondiali di calcio disputati nel nostro Paese, la Rai fece alcuni
esperimenti di alta definizione e li propose agli addetti ai lavori
invitati nella sede di Torino per la trasmissione in HD dell’incontro
Argentina-Russia. Quello che ci colpì era la possibilità di avere
uno sguardo dall’alto che abbracciava tutto il campo da una porta
all’altra, consentendo agli spettatori di avere quello sguardo
d’insieme auspicato da Pizzul ma con la novità resa possibile
dalla nuova tecnologia: i calciatori non erano più formichine sullo
schermo televisivo. Insomma l’avvento dell’alta definizione
sembrava spingere in questa direzione, dell’inquadratura ampia, del
piano sequenza, per usare un termine cinematografico, di una
continuità della ripresa. Invece si è andati nella direzione
opposta, verso la frammentazione dello spazio e del tempo e un
montaggio sempre più serrato. L’alta definizione non è stata
utilizzata per vedere un tutto, ma per cogliere in maniera più
precisa ogni particolare, dando vita a un racconto emozionale, un po’
sopra le righe sia a livello verbale che visivo, un racconto
neobarocco, per usare una felice categoria di Omar Calabrese .
Anche l’ultimo esito di
questo processo, la tecnologia televisiva in campo, la VAR, risente
dell’equivoco di questa visione scomposta. Non per caso le prime
polemiche sono nate da un rigore assegnato in seguito a un contrasto
falloso evidenziato dall’immagine televisiva che non teneva conto
che tutta l’azione si svolgeva in fuori gioco. Lo sguardo che
coglie e mostra tutti i particolari rischia di perdere di vista il
senso complessivo della storia.
Pagina 99, 8 settembre
2017
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