Di Vanni Codeluppi,
sociologo, professore ordinario all’Università Iulm di Milano,
dove insegna Sociologia dei media, dovrebbe essere uscito per Carocci
editore un saggio dal titolo Il divismo. Cinema, televisione, web,
che però non ho ancora notato in libreria e di cui l'articolo qui
“postato” sintetizza le tesi di fondo. Io non le trovo del tutto
convincenti, ma preferisco per ora non argomentare i miei dubbi,
sperando di sollecitare altre riflessioni con cui confrontarli.
(S.L.L.)
Chissà se anche i divi
rimpiangono il passato. Chissà se tra pochi giorni a Venezia,
alzando al cielo il Leone d'Oro alla carriera, anche Robert Redford e
Jane Fonda verseranno una lacrima al pensiero di “come eravamo”,
con lo stesso rimpianto di Hubbell Gardiner nel film di Sydney
Pollack.
C’è ancora spazio per
i divi nell’era di Instagram, oppure la polvere di stelle si è
definitivamente posata a terra, spenti i riflettori su un mondo di
sogno che, fatto essenzialmente di celluloide, ci ha accompagnato per
buona parte del Novecento?
Il divismo contemporaneo
è stato inventato negli anni Dieci del secolo scorso dalle case di
produzione cinematografica di Hollywood e da allora è rimasto
sostanzialmente invariato, resistendo persino all'assalto della
televisione che pure ha apportato diversi cambiamenti, però non
sostanziali.
Tutto cambia però con i
nuovi media digitali: l’Olimpo è diventato più raggiungibile,
capita infatti spesso di vedere persone sconosciute riuscire a farsi
notare e a occupare quel ruolo prestigioso che veniva ricoperto in
passato solo dai divi. Persone cioè che riescono a “vetrinizzarsi”,
magnificando e valorizzando il più possibile in pubblico se stessi e
la propria esistenza sui diversi social network e, soprattutto,
attraverso Youtube, in grado di raggiungere circa un miliardo di
spettatori unici al mese, una grande televisione sempre disponibile e
che però, al contrario della televisione, consente a tutti di
entrare liberamente al suo interno, costruendo palinsesti
personalizzati.
Conta cosa fai, non
solo chi sei
Lo sviluppo di tutto ciò
è stato facilitato dal cambiamento del ruolo delle tradizionali star
cinematografiche, che in passato passavano di film in film rimanendo
identiche a se stesse, mentre oggi hanno la necessità di offrire
degli elevati livelli di prestazione interpretativa in ruoli spesso
molto diversi.
Anzi, sono considerate
soprattutto quando dimostrano di saper recitare al meglio in ruoli
estremamente differenti.
Ma, una volta che
l’appartenenza al mondo dei divi venga fatta dipendere da un
principio di prestazione (la performance attoriale), l’accesso
a tale mondo è libero per chiunque sia in grado di fornire
un’adeguata prestazione interpretativa. Siamo dunque di fronte
all’indebolimento dell’identità del divo tradizionale e alla
comparsa di un vero e proprio divo di tipo “prestazionale”.
Siamo tutti star?
A fianco di tale
tipologia, diventa significativo oggi anche lo spazio rivestito da
altri tipi di divi per i quali scompare la necessità di offrire una
prestazione.
Sempre più di frequente
la cultura delle società avanzate si popola infatti di personaggi
privi di particolari competenze o capacità professionali e che sono
diventati celebri solamente grazie alla loro costante presenza
mediatica.
Si tratta di persone
sconosciute che hanno acquistato una notorietà grazie alla
partecipazione a un qualche evento oppure a un determinato programma
televisivo, come un quiz o un reality show, o a un abile utilizzo del
web per promuovere la propria immagine.
In realtà, nell’epoca
contemporanea tutti sono portati a compiere quotidianamente delle
performance davanti a un pubblico immaginario, sono cioè
performer che sentono di doversi esibire in continuazione
davanti a una vera e propria “audience diffusa”.
Ciò avviene anche
indipendentemente dalla possibilità di dare vita a uno spettacolo
che utilizzi precisi canali mediatici: da quando si sono diffusi i
social network, le persone sviluppano spesso la consapevolezza di
essere al centro dell’attenzione degli altri e per questo cercano
di presentarsi al meglio sui propri profili personali, riducendo i
contatti fisici e cercando di manipolare quello che appare della
propria identità personale stando “dietro le quinte” di una
protettiva vetrina digitale.
Tutti hanno un’immagine
personale da promuovere e gestire attivamente nel corso del tempo
presso una propria audience che va curata con successo.
Per gestire al meglio
tale fama, le “microcelebrità” imitano le strategie di
comunicazione che vengono solitamente impiegate per costruire la
propria immagine e la propria reputazione da parte dei divi, i quali
riprendono a loro volta i comportamenti adottati da tempo sul piano
comunicativo da parte delle marche aziendali.
Non è detto che ciò
possa effettivamente funzionare, ma gli individui si espongono
comunque quotidianamente nelle diverse vetrine digitali di cui
dispongono, perché queste sono gratificanti in quanto consentono di
sentirsi pienamente in scena davanti agli altri, una sensazione
rassicurante sul piano psicologico.
Una vita in vetrina
E però: qualsiasi
platea, grande o piccola che sia, dev’essere continuamente
sollecitata con nuovi stimoli, se necessario anche esponendo in
pubblico la propria sfera privata più intima.
Infatti, se si vuole
tenere il passo con quei cambiamenti accelerati che caratterizzano il
mondo della comunicazione mediatica, non si devono porre dei limiti
all’esposizione della propria vita privata.
Anzi, al contrario,
occorre essere sempre disponibili a comunicare e mostrare corpi,
desideri e sentimenti. Fare cioè come i divi, che hanno dimostrato
di riuscire a vivere molto bene sotto la luce dei riflettori, sia
sugli schermi spettacolari che nella loro vita privata.
Il divo, insomma, è
diventato oggi un modello di riferimento fondamentale per i
comportamenti di molte persone le quali, peraltro, nelle società
contemporanee non sono più unite, come in passato, da legami
collettivi o da ideologie condivise e devono costruire autonomamente
il loro progetto di vita.
Non avendo però più i
modelli tradizionali a cui appoggiarsi, sono costrette a cercare
nuovi riferimenti e li trovano nei comportamenti dei divi, per sapere
come fare, ma anche per essere rassicurate da esempi vincenti. Anche
in un’epoca in cui ciascuno sembrerebbe poter essere padrone del
suo destino, c’è più che mai bisogno di avere degli eroi.
Quello che rimane
delle semidivinità
I nostri eroi, però, non
sono più quelli del cinema hollywoodiano del passato, considerati
come essenze intangibili, soggetti lontani che vivevano in una
condizione particolare a metà strada tra l’esistenza quotidiana e
il mondo delle divinità. O meglio, come ha sostenuto negli anni
Sessanta il sociologo Edgar Morin, che erano vissuti come «esseri
ibridi», allo stesso tempo umani e divini, reali e immaginari.
Esseri perciò distanti, seppure in grado di stimolare speranze di
divinizzazione nelle persone comuni.
I divi di oggi, invece,
sono maggiormente inseriti all’interno dello spazio della
quotidianità, ma noi riusciamo comunque a riconoscere qualcosa di
diverso in loro. A vedere ancora, nonostante tutto, un po’ di
“polvere di stelle” che scende sulle loro spalle.
Pagina 99, 25 agosto 2017
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