Ettore Bernabei -
artefice negli Anni Sessanta di quella televisione pubblica che
unificò gli italiani più di quanto avessero fatto sino ad allora la
scuola dell'obbligo e il servizio militare - ha sempre avuto un
debole per la carta stampata. Fossero libri o giornali, li ha sempre
avuti intorno, sin da quando suo padre, impiegato delle ferrovie, li
portava nella casa di via della Pergola, a Firenze, dove è nato nel
maggio del 1921.
Adesso, a ottantotto anni
portati baldanzosamente, è ancora attivissimo nella Lux Vide, la
casa di produzione costituita nel 1992 e presente sul piccolo schermo
con successi - che vanno dagli sceneggiati dedicati agli ultimi papi
a Coco Chanel, dal popolarissimo Don Matteo, giunto alla sua settima
stagione televisiva, sino all'Enrico Mattei che si vedrà nel corso
del 2009. Però quando tv e cultura, risorse pubbliche e iniziativa
privata vanno a occupare le prime pagine dei quotidiani, Bernabei non
si sottrae.
Ad esempio, cosa pensa
dell'ultima provocazione di Baricco?
«Sono uomo cresciuto
alla scuola di La Pira e di Fanfani. Non ho mai avuto la religione
dell'iniziativa privata che sovrasta tutto e detta legge
imperiosamente, e cervelloticamente, come è accaduto negli ultimi
anni. Credo però che pagare di tasca propria un prodotto, dunque
anche un'offerta culturale - un concerto, uno spettacolo, una
proposta televisiva - significhi sceglierlo davvero. Apprezzarlo, o
meno, nei fatti».
E quindi la proposta
di una rete Rai tutta cultura e niente pubblicità, sorretta con
pubbliche risorse magari dirottate da altri settori...
«Non mi garba più di
tanto. Stiamo attenti a non creare, proprio adesso che giungono nuove
tecnologie, una televisione pubblica di nicchia. Una specie di
scimmiottatura fuori tempo massimo di quel Public Broadcasting
Service statunitense che negli anni ha avuto pure dei bei problemi di
condizionamento politico. Non portiamo la televisione lontano dal
largo pubblico».
Dicono che capire
quello che passa per la testa dell'uomo della strada e che succede
sotto le finestre di casa sia sempre stata una sua mania...
«Sì, sin da bambino per
me vivere ha significato guardare i miei simili nella quotidianità
con cui si presentano. Nella casa di via della Pergola il giornale
non mancava mai. Sfogliare quelle quattro pagine era per me scrutare
il mondo in tutte le sue sfaccettature. Sono sempre stato curioso, di
tutto. Fosse la vita della gente qualunque che nella Firenze degli
Anni Venti vedevo svolgersi sotto casa o nella traversa di via Nuova
dei Caccini, con i suoi rigattieri, le botteghe, le tre case di
tolleranza. O fosse la grande politica, quella che negli anni di Moro
e Fanfani, Gronchi e La Pira, ho visto dispiegarsi sotto i miei
occhi, da Roma al Cremlino o alla Casa Bianca. Perché allora ero
direttore de “Il Popolo”, il quotidiano della De, ma di fatto
sono stato per decenni “l'uomo di fiducia” dell'establishment
democristiano. Vale a dire della classe dirigente più duratura che
l'Italia abbia mai avuto».
E infatti L'uomo di
fiducia è il titolo di un libro che lei ha scritto con Giorgio
Dell'Arti, pubblicato da Mondadori nel 1999. Un libro denso di
spiazzanti dettagli sulle dinamiche sommerse di cinquanta anni di
potere italiano che lei ha vissuto dentro la stanza dei bottoni. E
poi ammissioni che di solito non si fanno, ad esempio sulla sua
appartenenza all'Opus Dei. O sul patto tra De Gasperi e Mattioli, con
cui laici e cattolici si divisero, zitti zitti, gli ambiti di
rispettiva competenza. Ma in tutte queste turbolenze «l'uomo di
fiducia» aveva tempo anche per i libri?
«Se si vuole c'è tempo
per tutto. A cominciare dal raccoglimento spirituale e dalla
preghiera. Vede questo? È il Salterio, il Libro delle lodi che
costituisce l'ossatura della liturgia delle ore. Contiene i salmi, le
letture che compongono i momenti di preghiera della vita del
cristiano. Un tempo erano solo in latino. Adesso ci sono varie
edizioni italiane, ma a fame una prima versione in italiano, almeno
delle lodi della domenica, era stato Dossetti quando aveva lasciato
la vice-segreteria della De per farsi monaco. Ciclostilava la sua
traduzione per la domenica in arrivo e ce la faceva avere, a noi che
gli eravamo stati vicini. A me, a La Pira, a Fanfani».
Ma da ragazzo non avrà
cominciato col Libro delle lodi?
«In casa c'era il
“Corriere dei Piccoli” per me. E mio padre comprava i Classici
Italiani pubblicati negli Anni Trenta da Rizzoli, su bellissima carta
e con gran cura tipografica. E poi i romanzi a fascicoli, che lui
faceva rilegare. Eccoli lassù, nella libreria che lei vede in questo
studio».
E accanto ci sono bei
quadri. Balla, Guttuso, Rosai...
«Quasi sempre sono
quadri di artisti che ho conosciuto personalmente. Spesso amici. Li
vedevo all'opera e allora mi piaceva l'idea di un quadro che avevo
visto nascere»
Eravamo ai classici,
ai libri importanti...
«Sì, i libri sono
importanti, ma appartengo a una generazione che credeva anche ai
maestri in carne e ossa. Li sapeva cercare e riconoscere. Andavo
all'oratorio. Andavo in parrocchia da don Raffaele Bensi, luminosa
figura di sacerdote ed educatore fiorentino. Nei miei anni
universitari, con un gruppo di miei coetanei, presso di lui ho avuto
la fortuna di incontrare stabilmente dei veri maestri. Non solo
cattolici come La Pira, Sansone, Maggini ma anche figure di diversa
collocazione, da Calamandrei a Momigliano. E proprio don Bensi, in
un'epoca in cui molti libri fondamentali per la formazione di un
giovane erano messi all'indice dalla Chiesa, mi aveva fatto avere la
dispensa dall'arcivescovo Elia Dalla Costa. Così feci i conti con il
Bernanos dei Grandi cimiteri sotto la luna che
raccontava i misfatti del franchismo durante la guerra civile
spagnola. Con Maritain e con i testi del cattolicesimo francese. Ma
anche Unamuno, Huizinga».
E con gli scrittori
italiani?
«Ne ho conosciuti tanti.
In redazione alla “Nazione del popolo” dove ero stato chiamato da
Vittore Branca, c'erano con me, nell'estate del 1945, Cassola e
Cancogni, Bilenchi e Pratolini. Più avanti nella Rai che andai a
dirigere, quella delle inchieste di Zavoli e Biagi ma anche dei
grandi sceneggiati tratti dai classici, da Il Mulino del Po a
Delitto e castigo sino al Cronin de La cittadella, che
classico non era ma funzionò benissimo, c'era Giorgio Bassani
vice-presidente. Molto schivo, molto timido. Ma di narrativa, sia
quando ero al Popolo sia alla Rai, ne leggevo poca: selezionavo
molto. Frequentavo di più la saggistica. Infatti ricordo un Keynes,
letto al mare, sotto l'ombrellone a Fregene».
E ora?
«Leggo al mattino presto
e la sera, dopo aver “annusato i barattoli” di quel che
ammannisce la tv. Le letture che ho in corso? Libri che facciano
capire dove sta andando questo mondo ostaggio della finanza
spregiudicata e della crisi globalizzata. Letture affiancate e
intrecciate. Ad esempio di Loretta Napoleoni Crisi del capitalismo
e Economia canaglia usciti dal Saggiatore. O il Richard Sennet
de L'uomo artigiano, appena pubblicato da Feltrinelli: molto
interessante. E alcune cose di Zygmunt Bauman, quello della “società
liquida” per capirci»
E poi riesce a
dormire?
«Benissimo.
Basta pregare, anche solo un attimo, ma con convinzione. È
sufficiente».
Tuttolibri
La Stampa, 14 marzo 2009
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