Capolavori,
modernità e complessità di un fenomeno sociale, generazionale ed
emotivo capace di cambiare il mondo
Il rock è morto. Ed è
una buona notizia perché ora possiamo prepararci a gustarne
capolavori e storia, senza sensi di colpa o collassi emotivi: di
quelli che colpiscono al petto almeno una volta nella vita, quando
qualcosa di nuovo e dirompente si affaccia alla nostra esistenza. È
ciò che successe a David Lynch il 9 settembre del 1956, quando Elvis
fece la sua prima apparizione all’Ed Sullivan Show; il giorno dopo
milioni di americani cominciarono a modificare la propria percezione
del mondo, cosi come lo conoscevano. Il visionario regista se le
perse, ma quell’epifania mancata modificò anche la sua: «Nella
mia testa fu un evento ancora più grande, proprio perché me l'ero
perso». Poi arrivarono i Beatles, poi Dylan e con loro la compagnia
cantante del rock. Ora che non possiamo più vivere l’epopea del
rock (la Rock and Roll Hall of Fame coincidecon i cataloghi Tunes o
Spotify), possiamo cominciare a raccontarcela. Due freschi, ottimi
volumi disponibili in italiano per Il Saggiatore, ci offrono alcune
tra le migliori narrazioni a oggi possibili su quello che fu un
fenomeno sociale di portata amplissima, capace davvero d cambiare il
mondo (senza Dylan, è un fatto non avremmo neppure l'iphone). Storia
del rock in dieci canzoni di Greil Marcus e Il rumore
dell'anima di Ashley Kahn sono una sorta d fenomenologia (il
primo) e di epistemologia (il secondo) del rock, o meglio della sua
narrazione. Che si manifesta a noi attraverso incontri e canzoni che
non sono la solita playlist, ma compongono una architettura possibile
ad uso del Grande ascoltatore.
Diversamente da Hobsbawn
(che pone questa musica tra gli eventi cardine dell’età
dell'oro del Secolo Breve), qui non si traccia il contesto
storiografico dell'epopea del rock; diversamente da Middleton, qui
non si dipinge l’epopea sociale della popular music. Marcus,
critico musicale, è il maggior biografo di Bob Dylan e ha composto
la monumentale Like a Rolling Stone: Bob Dylan, una canzone per
l’America (Donzelli, 2005): tra i volumi non tradotti,
recentemente ha riscritto una curiosa storia dell’America,
attraverso tre brani di altrettanti folksinger, esecuzioni lontane
dal mainstream ma niente affatto marginali, I Wish I Was a Mole in
the Ground,” (Bascom Lamar Lunsford's. 1928), Last Kind
Words Blues (Geeshie Wiley’s, 1930) e Ballad of Hollis Brown
(Bob Dylan, 1964). Da parte sua Kahn ha dedicato due strepitose
monografie ad altrettanti capolavori del novecento, non solo
musicale, Kind of Blue di Miles Davis e A Love Supreme
di John Coltrane. Marcus ricorda da subito, citando un colloquio tra
lo scrittore e autore televisivo Bill Flanagan e Neil Young, quale
sia l’essenza del rock: «L'unica cosa che il rock ’n' roll non
ha preso dal country e dal blues è la percezione delle conseguenze.
Nel country - e nel blues -, se scatenavi l’inferno il sabato sera,
poi la pagavi la domenica mattina quando ti trascinavi in chiesa. O
quando non ti ci trascinavi». «Vero» risponde il musicista. «Il
rock ’n’ roll è un abbandono senza freni. Il rock ’n' roll è
la causa di country e blues. Country e blues sono venuti prima, ma
l'origine del rock ’n’ roll è disseminata nel corso degli
eventi».
Il volume non segue il
calendario, ciascuna delle dieci canzoni viene raccontata
ricomponendone i pattern essenziali. Quella di Marcus non è una
Topto, né una guida all'ascolto; racchiude un’idea di quali
possano essere i semi da cui si sono cresciuti i rami del rock e da
cui si sono sviluppate, in profondità, le sue radici. L’elenco è
breve e va citato per esteso: Shake Some Action (The Flamin’
Groovies), Transmission (Joy Division), In the Still of the
Nite (Five Satins), All I Could Do Was Cry (Etta James),
Cryng, Waiting, Hoping (Buddy Holly), Money, that’s What
I Want (Barrett Strong), Money Changes Everything (The
Brains), This Magic Moment (The Drifters), Guitar Drag
(Christian Marclay), To Know Him Is to Love Him (The Teddy
Bears).
Una buona metà di queste
erano ascoltabili già prima dei Beatles e di Dylan; la cosa ha un
senso, intanto perché Marcus (69 anni) le racconta con lo sguardo e
le orecchie del bambino prima e dell'adolescente poi (è questa la
vera età del rock), ma soprattutto perché offre a noi,
lettori-ascoltatori, un piccolo privilegio; quello di osservare,
anche grazie ad una fluida prosa tra reportage e memoir, la modernità
e la complessità di brani che molti percepiscono come primitivi e
ingenui. Non ci fa forse tenerezza il doo-wop di In the Still of
the Nite rispetto ad esempio ai Radiohead?
Ebbene, l'evoluzionismo
non esiste, in musica. Semmai, può essere vero il contrario. E ci
disvela un equivoco lungo mezzo secolo: il rock non è (solo) un
fenomeno sociale; non è nemmeno, principalmente, una questione
musicale o poetica (tutto sta nell'intenzione; provate ad assistere
ad una esecuzione di una qualunque ballata di Dylan eseguita da
un'orchestra di liscio, e viceversa). Il rock è una faccenda
emotiva. E generazionale. Sono gli occhiali a bassissimo costo che ci
promettono di vedere il mondo a raggi X. E ce lo fanno vedere,
fintanto che lo vogliamo.
Anche il viaggio di Kahn
parte dallo sguardo di un adolescente. Quello sguardo (era il 1976)
si posa su Dylan. Sulla ballata Lily, Rosemary and the Jack of
Hearts. L'articolo è il compito in classe di un sedicenne. Il
primo dello scrittore che compone in questo volume, voluto proprio
dall'editore italiano (cosa rara), la sua personalissima epica in una
raccolta di oltre sessanta articoli che coprono quarant’anni di
ricognizioni nell'immaginario del jazz, del folk, del blues e del
rock. La raccolta ha la coerenza del memoir, e lascia una gradevole e
fresca traccia sin dalle prime righe, là dove garbatamente si
propone un possibile decalogo del giornalista musicale (che nei Paesi
anglosassoni è altra cosa dal cronista, o dall’opinionista
musicale). Ma quello che davvero conta Kahn lo lascia fuori dalla
breve summa. Si tratta una citazione di Robert Christgau: «Una buona
scrittura musicale prima di tutto è buona scrittura», a cui ne
segue una seconda, di Anthony Curtis, che suggerisce efficacemente il
paradossale spartiacque tra critica (e giornalismo) musicale da una
parte e opinione (o cronaca) musicale dall'altra; «A differenza di
molti miei colleghi, stroncare artisti o album non mi esalta. Se non
mi piace qualcosa, preferisco non parlarne».
“Il Sole 24 Ore”,
domenica 30 luglio 2017
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