Il leone di Palmira, particolare |
Palmira, Aleppo, Baghdad. La
distruzione dei monumenti è consustanziale alla guerra. Ma molto più
del vedere è potente l'oscuramento. Ecco perché del leone di
Palmira non sappiamo se esiste ancora o è stato distrutto
Una feroce opera di oscuramento
simbolico sta cancellando il volto del medio Oriente. Palmira, anche
con le ultime immagini criminali di adolescenti che mettono sotto il
giogo prima delle esecuzioni prigionieri di guerra dell'esrcito
siriano, Aleppo, ma ancor prima Badhgad ed il nord dell'Afganistan,
vengono progressivamente privati delle loro specificità per
ridiventare pure entità geografiche sulle mappe delle forze
belligeranti.
Già al tempo dei Romani l'Africa era
un terra in vague con una scritta che riassumeva questa visione del
mondo: hic sunt leones. La stessa prospettiva la ritroviamo al
tempo della Conferenza di Berlino, nel 1883, quando le potenze
coloniali sancirono la divisione dell'Africa tracciando linee di
frontiera del tutto artificiali rispetto alle omogeneità culturali
che vivevano in quei luoghi da tempi immemorabili. Così la guerra
per interposte potenze regionali azzera la memoria del passato e
riduce i luoghi alle loro qualità belliche: crocevia tra strade
strategiche, avamposti da cui si può dominare un passo, una valle,
un accesso al mare.
Anche se la mappa non è il territorio,
come diceva Alfred Korzybski riferendosi proprio ad una percezione, o
meglio a quando esiste una comunicazione delle percezione, ad una
relazione cioè tra percezione e cosa comunicata, questa affermazione
appare oggi in tutta la sua verità perché fondata su una visione di
tempo di pace, in cui lo sguardo può posarsi sull'orizzonte e
contemplare l'opera dell'uomo e della natura, unite in
quell'intreccio che disegna da sempre il paesaggio.
Nel tempo della guerra
Ma nel tempo della guerra la mappa è
il territorio, una tabula da cui sono state cancellate tutte le
sovrastrutture culturali, tutte le percezioni comunicabili e
soggettive, al fine di ridurlo ad un insieme di dati elementari, come
necessitano le logiche della conquista o della difesa. Il mondo
rotondo, incommensurabile, la sfera simbolo del divino stesso,
ridiventa così il pinax, il piatto, sul quale Salomè volle le fosse
portata la testa del Battista, di colui che dà i nomi, e dunque che
fa esistere il luogo: ciò che non viene nominato non esiste. La
terra piatta è la terra che si può quindi dominare, la rete delle
coordinate geografiche, dei paralleli e dei meridiani, diviene così
la rete nella quale ingabbiare il territorio per poterlo governare.
Il simbolico è dunque un ostacolo, un
impedimento, non solo tattico, ma strategico, alla guerra. Chi
manovra gli eserciti, i terrorismi, i fanatici delle fede senza se e
senza ma, lo sa bene: anche il più incallito tra i mercenari sosta
un momento a riflettere all'ombra di un monumento, prima di sdraiarsi
per terra ed usarlo come semplice riparo.
Distruzione consustanziale
Ecco perché la distruzione dei
monumenti è consustanziale alla guerra, perché essi rappresentano
comunque un katecon, un freno, a quell'istinto primordiale che
deve essere scatenato invece in tutta la sua potenza, per vincere,
per impossessarsi non di ciò che sta sopra, ma di ciò che sta sotto
l'animo umano.
Ma molto più del vedere è potente
l'oscuramento, il non poter più vedere. Ecco perché del leone di
Palmira non sappiamo se esiste ancora o è stato distrutto: l'assenza
di ogni immagine al tempo dell'accecamento mediatico, delle
sovraesposizione dell'immaginario ad una sequenza ininterrotta di
fotogrammi pervasivi ed ubiquitari, è l'arma finale.
La «dromoscopia» delle immagini che
si susseguono freneticamente e non si danno il tempo per diventare
Immagini, per essere esplorate nelle loro segnature, come
sosteneva Paul Virilio, viene allora sostituita da un ulteriore
dispositivo di accecamento, l'assenza che sradica il simbolo dal de
visu.
Se l'immagine televisiva è costruita
ad arte, artefatta, come un susseguirsi continuo di loghi,
impossibile coglierne il senso profondo, l'Immagine scomparsa diviene
più reale di quella visibile. Ecco perché chi si oppone alle guerre
coltiva le differenze, sostiene la bellezza, alimenta le diversità
culturali, continua a far indugiare lo sguardo su quelle macerie da
cui fugge l'Angelo delle Storia.
“il manifesto”, 6 luglio 2015
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